Era il figlio più piccolo di Alfonso Rombolà, nacque nel 1790 e morì di morte violenta nel 1815.
Visse in una famiglia “particolare” votata ad esercitare, sugli altri, la supremazia, con la forza.
Si legò ad Andrea Orlando, un brigante di Spilinga chiamato “Capitano Orlando”, e le loro gesta brigantesche furono tristemente famose, riportate dalle cronache del periodo.
Nel febbraio del 1809 con Andrea Orlando e con Francesco Moscato, un brigante di Vazzano, ricordato come “Il Vizzarro”, attraversarono lo stretto di Messina con una barca di tale Salvatore Borzumati. Qui andarono al quartier generale inglese a parlare col generale Bunbury: volevano mettersi al servizio degli inglesi e reclamavano prebende e garanzie. Chiedevano di far parte delle “guide calabresi”, un gruppo di volontari agli ordini del generale inglese Sherbroocke, che avevano il compito di contattare “i massisti” della costa calabra. Tali guide sbarcavano sulla spiaggia di Gioia Tauro o su altre spiagge per portare notizie e proclami dalla Corte, ma portavano anche polvere da sparo e armi da usare contro l’esercito francese.
Le informazioni venivano diramate a mezzo di un giornale intitolato “Gazzetta Britannica”, stampato a Messina da un tal padre Chiavet. Copie di questa gazzetta furono date a Bizzarro, Orlando e Ferdinando Rombolà.
Costoro non ebbero dagli inglesi promesse valide e soddisfacenti per cui, tornati in Calabria, ripresero le loro abituali grassazioni, ovvero le aggressioni armate, cioè continuarono la loro vita brigantesca che era a loro più redditizia.
Ferdinando Rombolà, per poter circolare con una certa libertà, spesso si vestiva da prete e per questo fu soprannominato Abati Pittia.
Sul finire del 1815, le truppe Francesi erano in ritirata dal nostro territorio. Ferdinando insidiava la giovane e bella moglie di un tenente francese, dalla quale veniva corrisposto. La tresca fu scoperta e Ferdinando Rombolà, conosciuto come il “luogotenente del Capitano Orlando”, venne ferito dai francesi mentre si avvicinava al loro accampamento nei pressi di Nicotera; riuscì a scappare e raggiunse Brattirò dove morì di cancrena tra atroci sofferenze.
Secondo un’altra versione, ferito, fu portato nel carcere a Palermo, dove morì. Ma è più verosimile la prima versione.
I fratelli e soprattutto la sorella Rosa, detta “a Lizza”, giurarono vendetta. Avevano saputo che il tenente con i suoi soldati si spostava da Nicotera a Monteleone e tesero loro un agguato in una località nota come “u pettu du cinnirazzu”, tra Nicotera e Monteporo; uccisero il tenente e, di quei pochi soldati, solo qualcuno sopravvisse dandosi alla fuga.
Cosa successe dopo?
Ci sono due versioni tramandate; una è che la moglie del tenente francese fu risparmiata, anzi consolata dai vendicatori brattiroesi, perché la si riteneva priva di colpe, e l’altra versione, più verosimile, fu che la donna, benché incinta e portasse in grembo un erede di Ferdinando Rombolà, venne uccisa e decapitata dalla Lizza, la sorella di Ferdinando, la quale, alzando in aria la testa mozzata della malcapitata francese, gridò: “Nandu moriu e tutti hannu u morinu!”.
Erano tempi di atrocità e barbarie come credo quotidiano. La memoria storica popolare, suffragata spesso da scritti parrocchiali, così ce li ha tramandati, e noi così li abbiamo recepiti e così li raccontiamo.
Pasquale Vallone