Intervista ad Agostino Gennaro: ex sindaco di Spilinga, docente in pensione, appassionato e cultore di storia locale

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Ennesima intervista del mio blog a personalità della cultura vibonese, in particolare del circondario di Tropea – Capo Vaticano.

Oggi è la volta di Agostino Gennaro. Spilingese, residente nel territorio di Ricadi. Ex sindaco di Spilinga, docente in pensione, appassionato di storia e cultura locale, autori di diversi libri e innumerevoli ricerche e articoli di approfondimento sui social.

L’intervista è tanto lunga quanto piacevole, ricca di aneddoti.

Buona lettura.

Agostino, iniziamo dalla tua vita. Parlaci della tua infanzia, del contesto familiare e sociale nel quale hai mosso i primi passi.

Sono nato nel 1942 nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. La mia era una delle tante famiglie numerose contadine del piccolo borgo di Spilinga. Ero il settimo di nove figli, erano tempi difficili per tutti sia per la cappa di terrore inculcata da alcuni facinorosi gerarchi del regime in caccia di streghe sia per l’imperversare della guerra. La mia famiglia, come l’intera classe contadina, pur continuando ad effettuare con olio di gomito e sudore della fronte il duro lavoro dei campi era costretta a versare ”all’ammasso”  tutto il frutto del raccolto. Per sfamare le proprie famiglie, quasi tutte numerose, erano costrette a sotterrare qualche sacco di grano per portare, poi nottetempo, al mulino a rischio di sequestro e bastonature. Ma dopo l’armistizio del 28 settembre 1943 l’ultimo scorcio della guerra fu per le nostre famiglie il periodo più nefasto, sia per i continui bombardamenti degli alleati, sia perché i tedeschi, divenuti nostri nemici, nella loro ritirata requisivano tutto seminando distruzioni e lutti. Quando, finalmente, tutto era finito la mia famiglia come tutte le famiglie contadine di Spilinga, anziché piangersi addosso, si rimboccò le maniche, dissodò i terreni, seminò e in poco tempo riportò il proprio campicello all’antico splendore e, tutto l’altipiano del Poro, si vide ondeggiato da un mare di spighe d’oro.

Naturalmente questo ben di Dio non ha portato alla ricchezza, anzi il novanta per cento della popolazione aveva i vestiti rattoppati e le scarpe rotte, ma finalmente, grazie alla solidarietà dell’intera popolazione, un pezzo di pane non mancava ad alcuno.

L’impellente necessità di riparare o ricostruire le abitazioni, di reperire gli utensili indispensabili diede vita a una ricca rifioritura di arti e mestieri, tant’è che trovarono lavoro anche maestranze venute da fuori.

Non vi era molta circolazione di denaro, anzi le tasche erano vuote, per cui gli esecutori dei lavori barattavano le proprie prestazioni lavorative con i prodotti dei campi e in modo particolare con grano ritenuto oro puro. Con il grano si pagava il muratore, il sarto che vestiva tutta la famiglia, il calzolaio, il barbiere e ogni tipo di merce incluso i prodotti dell’orto e il pesce, con ortolani e pescivendoli che arrivavano da Tropea e dalle convicine marine dove il pane scarseggiava.

Ma quello che più conta e che cambierà il contesto socio-economico-culturale dell’intero borgo è l’emancipazione che passa da una mentalità gretta e di sudditanza specialmente nei confronti della cultura, riservata fino allora ai preti e ai benestanti.

Bisogna riconoscere che una parte rilevante per la emancipazione si deve all’emigrazione che da una parte contribuirà con denaro sonante e dall’altra, lasciando le loro terre, eccessivamente spezzettate, permetterà un maggiore guadagno a chi era rimasto.

Il mio fratello primogenito è uno di questi emigranti che giovanissimo lascierà la propria terra per la lontana Argentina.

Vorrei chiudere come risposta alla domanda sulla fanciullezza mia con questi versi:

Natìo  suolo mesto

Cu cori affrittu, u visu di lacrimi rigatu

Nu tuffu fici, arredi, nto passatu

Quandu, nta figghiolanza mia,

di genti china era ogni casa, ogni via.

Chiusi l’occhi e comu d’incantu,

Mi truvai cu spiritu e cu corpu a loru accantu.

Nu pocu prima ca iornu facia

di massari ogni strata si inchìa.

A priparari i ciucci indaffarati

di varda, sporti e vertula carricati.

I cchiù anziani ienu incitandu ca vuci arterata

iamu ch’è tardu, è a matinata chi faci a iurnata.

A massara, vera patruna da casa, pì prima si livava,

gugghìa u latti, a suppa priparava.

Nu pocu i suriaca chi ierbi da sira prima avanzati,

quattru pipireji arrustuti ca prescia priparati

‘nta na sacca da vertula cu pani i imbuttava.

Dopu u salutu, in fretta e furia rincasava

i figghioli pa scola avìa a priparari

sempre currendu, ca o tilaru avìa a lavurari.

E quandu u suli s’affacciava

o tran tran du tilaru, chi cu i pedi e chi mani minava,

si aggiungienu i chicchirichì, cocodè e di figghioli i grida,

tuttu u paisi si inchìa di rumori da strata.

I forgiari battenu u ferru, i scarpari a sola,

cavulari, allima forbici, rigatteri facianu a spola.

‘nto pomeriggiu e u iornu i vacanza

è di scolari ogni rumuri, ogni paranza,

a gruppi ‘nte strati sterrati e impalaccati

facianu fracassu, ‘nte trastulli inberforati.

A campana, e petri, a cavallina, iocanu nte vichi,

e nuciji, o parrocciulu e chi sordi antichi.

Aprivi l’occhi e prestu tuttu scumparìu

Picchì era sulu nu ricordu du passatu miu.

Un modo totalmente diverso rispetto ad oggi, un’epoca in cui vigeva un forte legame di solidarietà tra le persone, anche all’interno della famiglia…

Si usciva da una guerra disastrosa e quasi l’intera comunità viveva in ristrettezza economica e abitativa, e le famiglie numerose come la mia non erano l’eccezione ma la regola.

La modesta abitazione dei miei natali, possiamo dire che più che una famiglia, ospitava una tribù. Oltre ai nonni paterni che vivevano con noi, sistematicamente i nostri letti a due piazze, uno per le donne e uno per gli uomini, si riempivano, testa e piedi, per l’aggiunta di alcuni miei cugini. Inoltre i miei genitori, semplici contadini con tante bocche da sfamare, spesso e volentieri non disdegnavano di spalancare le porte della loro misera dimora per ospitare e rifocillare parenti e amici o semplici pellegrini di passaggio. Il fatto di non rimpiangere quel passato di quotidiane restrizioni non scolora minimamente l’immagine di quella dignitosa povertà e del calore umano che ci coinvolgeva tutti e mi riporta a quelle sere d’inverno quando, alla già numerosa famiglia, si univano i vicini di casa per trascorrere insieme la serata. Mia madre teneva sempre pronto un braciere scoppiettante, intorno al quale si sedevano solo gli anziani e i bambini, mentre i giovani stavano poco discosti, quasi a rimarcare la distanza degli interessi tra i ricordi, i sogni e la realtà.

Mentre gli adulti parlottavano fra loro, noi fanciulli pendevamo dalle labbra degli anziani: essi spesso e volentieri, nel racconto fantasioso intercalavano episodi della loro vita assumendo il posto degli eroici o dei miseri protagonisti, a seconda dell’insegnamento che con la fiaba si erano predisposti ad impartire.

A fine maggio, come tutte le famiglie dei contadini del Poro, dopo che i miei avevano raccolto le poche masserizie, ci trasferivamo nella casa rurale o, per meglio dire “u Pagghiàru”, la pagliaia, con annessa “a Pinnàta”, cioè la stalla. È qui che ho imparato la più grande lezione del vivere civile: il sacro senso dell’ospitalità e della solidarietà. Per questo ogni volta che il mio pensiero ritorna a quei luoghi e a quel tempo passato, una grande commozione mi assale e nello stesso momento il mio cuore si riempie di gioia pensando, non tanto alla generica sacralità dell’ospite quanto all’amore che i miei genitori nutrivano verso il prossimo, fosse egli parente, amico, o persona di passaggio, come coloro che, con il loro bestiame, si recavano ad una fiera o vi tornavano, spigolatrici o semplici mendicanti. Il tutto non in una reggia, ma in due misere stanzette complessivamente di circa settanta metri quadrati:  nella prima, più piccola, che d’inverno veniva adibita a stalla per il bestiame, una volta ripulita, si preparava un letto a pagliericcio, dove dormivano i miei genitori; nella seconda, un po’ più grande, adibita a fienile, la pagliaia, dove trovavano collocazione i prodotti foraggieri, il fieno, la paglia di frumento (da cui la struttura prendeva il nome), una esigua attrezzatura e un piccolo angolo dove si sistemava per la notte il resto della mia famiglia. Nel fieno o nella paglia vi trovava sempre posto ogni altra persona che chiedeva l’ospitalità per la notte. I pasti venivano consumati all’ombra di un grosso pioppo, là si apparecchiava sulla nuda terra e ci si sedeva tutti intorno con pari dignità e, anche se avevamo i piedi scalzi e i vestiti rattoppati, a quella tavola c’era sempre posto per tutti. Inoltre durante la giornata non veniva negato ad alcuno viandante stanco e affamato, che si trovava a passare da quelle parti, un piatto caldo o una scodella di latte.

Questa era la mia famiglia, così era la popolazione di Spilinga, della Calabria, una regione ancorata saldamente alle tradizioni, dove l’ospitalità era un sacro dovere tramandato dalle antiche civiltà che popolarono queste contrade. La nostra era, ai tempi della mia fanciullezza, una comunità dinamicamente protesa verso il prossimo, salvo qualche eccezione, armoniosamente unita e aperta ad ogni iniziativa nobile e generosa.

In questo contesto sociale la mia vita si aprì ad una fucina di molteplici attività. Fondai un circolo parrocchiale per accogliere i giovani nelle lunghe serate invernali togliendoli dalla strada e dalle cantine. Vi si giocava al biliardo, carte, ping pong, si ballava la tarantella, si socializzava. Vi aderirono in massa, ben 48 giovani soci; fu per questo piccolo borgo agricolo un luogo sano doveva poter trascorrere le lunghe serate invernali. Uno due mesi prima del carnevale, le nostre serate venivano interamente dedicate, per mantenere la tradizione popolare spilingese, alla preparazione della rappresentazione di un atto teatrale da recitare in ogni casa che diceva si alla richiesta “i vuliti i Zanni”  nel cui campo io sin dalla tenere età, grazie al mio bagaglio di letture, ero esperto attore e scrittore di brevi atti teatrali adattandoli al numero degli improvvisati attori e del particolare genere richiesto: tradimento, vendetta, strappa lacrime o comico.

In campo religioso devo ringraziare don Pasquale Russo, in quegli anni sessanta alla guida della Gioventù Cattolica Diocesana, che mi ha aperto le porte alla conoscenza e alla bellezza dello stare insieme in mezzo a una moltitudine di giovani provenienti da ogni parte d’Italia.

Nella tre giorni di Rocca di Papa il gruppo che rappresentava la Diocesi di Tropea era formato da me, don Ignazio Toraldo, Ottavio Scrugli e Luigi Angiò; immaginate me, un contadino di periferia, in mezzo a questi rampolli della nobiltà Tropeana. La mattina, raccolti in un immenso salone tutti insieme, ascoltavamo i relatori e il pomeriggio, divisi in piccoli gruppi, ognuno dei quali sotto il controllo di un capogruppo, doveva comprendere elementi di ogni regione d’Italia. Ogni gruppo, nell’aula assegnata, dopo ampia discussione, doveva stilare un verbale sulle relazioni ascoltate. Il gruppo da me scelto, non so se per caso o per sinestesia, risultò formato da elementi desiderosi, più che per dissertazioni etico-letterarie, per la conoscenza personale confrontandoci all’aria aperta e in piena allegria in sintonia con la nostra giovane età. E così mentre gli altri preparavano i verbali da consegnare noi cercammo i costumi necessari e inscenammo, come frutto del nostro lavoro, una rappresentazione teatrale. Lo speaker mentre eravamo a pranzo annunziò con l’altoparlante: “Questa sera siete tutti invitati nella sala magna alla celebrazione del matrimonio di Agostino Gennaro e Roberta Lastrucci”.

La sera, alla presenza di migliaia di giovani eseguiamo con successo la nostra rappresentazione teatrale che si componeva di due atti: il primo atto la celebrazione del matrimonio in pompa magna e il secondo atto la causa alla Sacra Rota presieduta dal papa, di scioglimento del matrimonio non consumato.

L’anno successivo fui mandato come rappresentante della diocesi di Tropea per una sette giorni a Leggiuno, poiché il treno partiva alle sei, la sera prima della partenza preparai una borsa con qualche cambio, i documenti e la lettera che spiegava come raggiungere la località dell’incontro. Ma il mattino dopo quando mi svegliai era già tardi, mi vestii in fretta e mi avviai di corsa per non perdere il pullman giunto alla stazione mi accorsi che avevo dimenticato il borsone, per fortuna il biglietto e i pochissimi soldi li avevo messi nella tasca della giacca, era tutto pagato e non potevo e non volevo rinunciare a questo viaggio per cui presi il treno e mi avventurai.

Giunto alla stazione di Milano anche s’era evidente un po’ di apprensione ero sicuro di incontrare qualcuno dei giovani amici diretti al congresso per cui mi recai sul binario e aspettai il treno proveniente da Napoli. Non dovetti neanche cercare né spiegare cosa mi era successo perché uno dei miei amici del gruppo di Rocca di Papa si mise a gridare: “Venite a vedere chi c’è, il nostro amico distratto avrà sicuramente perso la cartellina”.  Li abbracciai e mi accodai a loro, il giorno dopo mi accompagnarono al comune di Leggiuno e con una foto e la loro testimonianza mi rilasciarono un documento di riconoscimento che mi permise la libera circolazione e l’entrata per la visita in Svizzera.

Quegli incontri – confronti di mentalità diverse, a volte contrastanti, ma accumunati di rispetto reciproco e di amorevole fratellanza hanno lasciato in me e nei miei compagni di quella lontana cordata un segno indelebile e ne ho avuto conferma l’anno scorso quando a distanza di sessant’anni il dr. Franco Miceli mi avvicina e mi dice ti saluto un tuo amico mostrandomi una foto e una cartolina. Si tratta del primario di Neurochirurgia dr. Claudio Ceccotti che in ricordo di quei giorni passati insieme non solo conservava ancora la foto e la cartolina, ma dopo più di mezzo secolo ci ritroviamo e mi scrive:

“Stranamente e piacevolmente si ha talvolta la possibilità di ritrovare persone, dopo tanti anni, che hanno incrociato la tua vita, come meteore. Ho saputo della tua instancabile attività di ricerca sul passato del territorio e sulla ferma volontà di cercare di preservare quello che il tempo e gli uomini non hanno ancora cancellato. Spero di riuscire a recuperare, tramite internet qualcuna delle tue preziose pubblicazioni.

Spero di poterti incontrare presto. Al momento un grande abbraccio”.

La mia non è semplice nostalgia di un tempo che fu ma amarezza per questo nuovo mondo che spinto verso una spasmodica globalizzazione ha oscurato principi e sentimenti, specialmente quello della convivenza sociale e la solidarietà.

Veniamo ai tuoi studi, fino ad arrivare all’età lavorativa.

Il mio incontro con la scuola risale al primo ottobre del 1948, una classe numerosissima, alcuni ripetenti da uno e due anni, perché impegnati sin dalla tenera età nei lavori dei campi o nelle botteghe artigianali per contribuire al sostentamento della famiglia. Già a sei anni al bambino veniva richiesta la responsabilità di un adulto, incluso il raggiungimento della sede scolastica a piedi e da soli.

Quando ritorno indietro con l’occhio della mente nitidi mi appaiono i ricordi di quei giorni:

Curria u tempu da figghiolanza mia

Quandu allilimentari

Ca pinna ammuggnata ‘nto calamaru si scrivia

Unu a righi e unu a quadri,

Dui i quaderni, dui i libri,

Uno di scenzi-matematica-tecnologia

E l’autru, u sussidiariu, di ilittiri tutto cuntinia.

D’ammunti, a voti, a scauza scindia

Chi scarpi e mani, ca sciudiri né putia,

subba a porta da scola mi mintia.

Navia zainu, cartella o saccu

Nu spagu ligava a scenza mia

Sutta a giacca cu cura e amuri

Come grandi tisoru li prutiggia.

Quandu alluna a scola chiudia,

Sutta allacqua o u suli, chi scarpi e mani

pi setti chilomitri fuiendu jia

Mu raggiungiu, a Rupiti, a campagna mia.

Mo ricurdandu non sentu suffirenza

Pi sacrifici fatti ‘nta figghiolanza mia.

Picchi non eru sulu

Tanti autri fuíanu cu mmia

E cu chista cumpagnia chiù leggeru u caminu paria.

I cinque anni di scuola elementare furono gli anni più faticoso ma sicuramente i più, culturalmente parlando, produttivi della mia della intera vita, durante il periodo annuale, otto mesi, di scuola di mattina seguivo con attiva presenza le lezioni e di pomeriggio lavoravo come discepolo apprendista presso un sarto-barbiere. Era tale la mia bramosia di apprendere che a scuola, raccolto in religioso silenzio, pendevo dalle labbra del maestro per immagazzinare dello scibile culturale e conoscenze; e in sartoria, ascoltando i discorsi del contadino, dell’artigiano e del letterato, la quotidianità del vivere civile, si narrava di tutto e di più, dalle cose più importanti allo spettegolare. Non avete l’idea di quanto si possa apprendere sul comportamento di ogni singolo elemento dell’intera comunità.

Divoravo libri, giornali, giornalini, fotoromanzi tutto lciò che mi capitava fra le mani; e la sera alla luce del lume a petrolio leggevo, all’ampio pubblico, seduto intorno alla ruota del braciere ospite dei miei, i racconti del De Amicis, I promessi Sposi e altri libri che il mio maestro e il parroco mi prestavano. Mi è rimasto impresso un particolare ricordo: vedere dopo la lettura di Ferruccio, sui volti di uomini anziani, avvezzi alle asperità della vita, scendere le lacrime.

Durante i mesi estivi seguivo la mia famiglia che si trasferiva nel casolare di campagna perché in quel periodo i lavori si intensificavano, iniziavano prima dell’alba e terminavano a notte inoltrata specialmente nel periodo della fienagione e della mietitura allora eseguiti completamente a mano per cui necessitavano del contributo di ogni membro della famiglia, maschi e femmine, dal più anziano ai bambini ove ognuno occupava nella catena lavorativa un posto adeguato all’età.

Terminati gli anni d’obbligo scolastico, che allora erano fino alla quinta elementare, il maestro cercò di convincere i miei genitori a farmi continuare a studiare ma visto il loro diniego dovuto alla mancanza di risorse economiche avendo ottenuto per la scuola elementare di Spilinga un triennio aggiuntivo (VI, VII e VIII) li convinse a scrivermi, anche perché il mio rendimento nei campi era scarso e la mia passione alla lettura mi faceva perdere la cognizione del tempo e spesso dovevano venire a recuperare me e gli animali che avevo portato al pascolo.

Il parroco, che come il maestro mi seguiva e mi aiutava nel mio percorso formativo, visto che il diniego dei miei genitori si basava solo sul fattore economico, mi propose di andare in seminario.

Si interessò di tutto lui e nell’ ottobre del 1956 iniziai gli studi delle medie nel seminario di Tropea. Non avevo avuto, come si diceva, la chiamata del Signore ma mi trovavo bene, anche se rispetto agli altri ero di tre anni più grande ero avanti negli studi avendo fatto con profitto la VI e la VII classe. Eravamo ben sette ragazzi di Spilinga e quel che più contava per me era una biblioteca ricca di libri. La lettura di libri extra scolastici durante la giornata era però impossibile: iniziava con la sveglia alle sei di mattina, fatta la toilette e rifatti con cura i letti si andava in cappella ad assistere alla celebrazione della messa, tutto in assoluto silenzio, poi si passava in refettorio per la colazione dove venivano concessi pochi minuti di ricreazione, cioè ci veniva permesso di parlare. Si passava quindi ognuno nella propria classe sotto il rigido controllo di preti professori che applicavano in toto il motto “I mazzati fanno i figghi abati”.

Anche le ore del pomeriggio che venivano impiegati per l’espletamento dei compiti scolastici erano sotto l’occhio vigile del “prefetto” che passando tra i banchi controllava libri e quaderni.

Per cui mi restavano solo le ore della notte per sfogare la mia passione per la lettura; avevo scelto nella camerata il letto proprio sotto la tenue lampada notturna che rimaneva accesa tutta la notte per il controllo notturno del prefetto o del suo incaricato, che fortunatamente in quella camerata ero io.

La mia permanenza in seminario durerà poco meno di due anni. Fui costretto a tornare a casa per un grave lutto famigliare: un mio fratello, alla giovane età di 22 anni, perse la vita in campagna dilaniato da una bomba residuo di guerra. Questa tragedia buttò nello sconforto tutta la mia famiglia e in me uno sbandamento depressivo; lasciai il seminario e cercai rifugio nella solitudine della campagna. I miei genitori e i miei fratelli leggendo sul mio volto l’infelicità mi spinsero a ritornare allo studio, pagarono le lezioni di una maestra privata che mi preparò per gli esami di terza media e il Rettore del seminario, mio professore di latino e di materie letterarie, che giudicavano burbero mi presentò agli esami come alunno della sua classe. Non posso mai dimenticare, quando ho lasciato il seminario, il suo caloroso abbraccio e il suo volto triste mentre mi salutava con una commovente e inaspettata lode: “Ho perso una colonna del seminario”.

Ero ormai un giovanotto e mi sentivo vecchio per affrontare il lungo percorso di studi classici per giungere al conseguimento di una laurea per cui scelsi l’ITIS  di Vibo Valentia per conseguire il diploma di perito chimico per una immediata immissione nel mondo del lavoro.

Grazie al mio bagaglio culturale e alla mia aria di ingenuo angioletto acquisiti in seminario mi accattivai la simpatia dei professori e dei miei compagni di classe. Per rispondere alla cattiva nomea che l’istituto tecnico fosse una scuola di basso profilo, preparammo e pubblicammo un giornalino scolastico con la mia firma di direttore responsabile; mi è rimasto impresso perché mi creò popolarità ma molta apprensione perché tra i vari articoli vi erano intercalate delle freddure nei confronti dei professori. Ad esempio la mattina dopo, prima di iniziare la lezione, il professore di chimica che nella freddura lo avevamo chiamato il “tappo”, in piedi vicino alla cattedra, mi disse “vieni qua” e per fare vedere alla classe ch’era più alto di me, si mise spalla a spalla. Più tardi mi giunse la convocazione della questura, inutile dirvi che ciò, dopo la reazione del Professore, mi turbò alquanto.

In realtà volevano sapere se il mio cognome fosse Gennaro o Agostino.

Gli studi precedevano soddisfacentemente bene quando nel corso del terzo anno mi giunse dalla FIAT un avviso di convocazione perché la mia richiesta di assunzione era stata accolta. E così lasciai la scuola e con pochi bagagli emigrai a Torino. Fu la più brutta esperienza della mia vita, avevo sentito parlare del comportamento razzistico dei piemontesi verso i meridionali ma non immaginavo potesse essere talmente drastico. Cercai con l’aiuto di un mio compaesano un alloggio tra le moltissime pensioni ma la risposta era unanime: non accettavano meridionali se non con una lettera di assunzione a un lavoro fisso. Rimasi ospite per qualche giorno del mio compaesano, feci il colloquio e, visto il mio curriculum e la frequenza all’ ITIS ottenni l’assunzione in una catena privilegiata con la promessa all’inizio dell’anno successivo dell’iscrizione alla loro scuola per completare gli studi e conseguire il diploma.

Con la lettera di assunzione trovai la pensione e, viste le mie scarse risorse economiche, nell’ attesa del primo stipendio mi dovetti accontentare di una stanza condivisa con un coinquilino, pagando un mese anticipato. Ritiratomi nella stanza, dopo una parca cena in una trattoria poco distante, per la stanchezza caddi in un profondo sonno. La mattina dopo mi accorsi che i miei pochi soldi nascosti in una busta nella tasca interna della mia giacca erano scomparsi. Il coinquilino – al mio grido: questa notte qualcuno mi ha derubato – quasi con stizza disse che nella stanza eravamo solo io e lui e non mi dovevo neanche permettere di ritenerlo responsabile piuttosto li avevo persi fuori. Ma io ero sicuro perché li avevo nascosti prima di andare a letto. E quando andai a reclamare col gestore della pensione mi disse che non poteva fare nulla anzi mi consigliò di non accusare il mio coinquilino perché in assenza di prove poteva denunciarmi per diffamazione e così oltre al danno si aggiunse la beffa. Disperato chiesi un prestito al mio compaesano per pagare il pullman per l’andata e il ritorno dal lavoro e le vettovaglie necessarie per raggiungere la fine del mese.

Il lavoro assegnatomi nella fabbrica di Mirafiori era facile e comodo, pur essendo un lavoro a catena quella della 2100 era una linea privilegiata perché viaggiava lentamente dandoti il tempo di svolgere il lavoro bene e senza fretta. Purtroppo anche qui, ai miei già pesanti problemi, se ne aggiunse un altro: i miei colleghi di lavoro erano tutti piemontesi e ritenendo quasi un oltraggio la presenza di un calabrese nella loro linea di lavoro non mi rivolgevano la parola o cercavano di umiliarmi parlando nel loro stretto dialetto. Io dovevo sopportare in silenzio questo loro comportamento applicandomi solo a svolgere bene il mio lavoro. Ma col passare dei giorni le mie resistenze crollavano e alla fine vinsero loro: non potendo continuare a vivere una esistenza da isolato mi licenziai e ritornai in Calabria.

Avevo perso un anno di scuola e la mia classe: ripresi e conclusi gli studi col diploma di perito chimico.

Mi iscrissi all’ università di Messina e prima della fine dell’anno accademico si conclusero i miei studi scolastici per emigrare in U.S.A.

Quindi diventi docente. Dicci qualcosa di quegli anni, del rapporto coi ragazzi, della tua esperienza scolastica.

La mia passione per l’insegnamento nasce molti anni prima della nomina a docente. Prima da studente e poi da diplomato per fare qualche soldino impartivo lezioni private ad alunni che dovevano riparare o recuperare una materia o semplicemente con difficoltà di apprendimento. La mia materia preferita era la matematica ma accettavo alunni di qualsiasi altra materia perché ero un autodidatta e l’insegnamento mi obbligava ad allargare gli studi e coprire le mie lacune. In poco tempo si sparse la voce e il mio studio si riempì di studenti non solo di Spilinga ma anche dei paesi vicini e per alcuni alunni di Coccorino, impossibilitati a raggiungere il mio studio, ho impartito le lezioni a domicilio.

Avuto la nomina dal preside di docente nel doposcuola della scuola media statale in attività tecnologiche che dava la possibilità di aiutare gli alunni (specialmente quelli in difficoltà), mi trovai come a casa conquistando simpatia e rispetto degli studenti.

Ma dopo qualche anno, per il passaggio a tempo prima indeterminato e poi di ruolo, le nomine erano di competenza del provveditore e ogni anno venivamo chiamati a Catanzaro per scegliere la sede, seguendo la graduatoria, per cui cominciò il mio peregrinare da Rocca Bernarda nel crotonese, a San Nicola da Crissa, a Rombiolo, a Zungri, a Joppolo, a Ricadi. Furono anni di sacrificio ma anche di soddisfazioni e riconoscimenti occupando anche incarichi di responsabilità. Ma quel che più conta per me fu il rispetto e l’affetto di colleghi, personale non docente e alunni. Con la soddisfazione che a distanza di tanti anni qualche alunno si ricorda ancora di me e, incontrandoci, mi saluta con affettuoso abbraccio.

Approfondiamo la tua passione politica. A quando risale? Parlaci di tutta la tua trafila, compresi gli anni alia guida del Comune di Spilinga.

Il mio impegno politico.

Era tanta la mia bramosia di contatti umani in ogni ramo di convivenza con le persone. Contemporaneamente agli impegni scolastici, a quelli dell’azione cattolica, a quelli socio-culturali e ricreativi del Circolo parrocchiale ebbero molta rilevanza quelli politici.

Lasciato il seminario, entrai attivamente nella sezione della DC prima come galoppino (affissione manifesti e distribuzione volantini) fino al compimento di diciott’anni necessari per il tesseramento al partito. Fui subito eletto a segretario del movimento giovanile che allargò i miei contatti e le mie conoscenze a Catanzaro e provincia.

Nella mia ingenuità immaginavo che la convivialità socio-politica nello stesso partito fosse tutto rose e fiori ma presto mi accorsi ch’erano più le spine. I Big della DC avevano diviso il partito in correnti con la scusa che la pluralità di idee avrebbe dato più vitalità al partito. In realtà, come si rilevò in seguito, era una volgare lotta di potere, per occupare cariche e spartire la torta. Questo lo constatai quando, eletto segretario della DC del comune Spilinga, mi trovai, mio malgrado, coinvolto e schiacciato. I capi corrente per ottenere più delegati al congresso si facevano una lotta indiscriminata e scorretta poiché la loro richiesta al voto per il delegato non si basava sul confronto democratico delle idee ma su promesse di posti di lavoro, incarichi vari, aiuti economici, pensioni di invalidità e quant’altro fosse allettante per carpire il voto. Molto forte nelle sezioni dei piccoli centri agricoli come Spilinga era la presenza di Pucci con le associazioni dei coltivatori diretti e Bova con quelle degli artigiani che si dividevano i voti delle sezioni per i delegati al congresso. Io, come dicevo, nella mia ingenuità pensando fosse un confronto di idee in una assemblea sezionale ebbi la malaugurata idea di buttarmi nella mischia come rappresentante della nascente corrente di sinistra. Fu per me una esperienza traumatica: di colpo io, che ero amico di tutti, mi trovai in guerra come odiato nemico da annientare; andarono casa per casa di ogni singolo tesserato non solo per racimolare i voti a loro favore ma per dipingermi come un moccioso senza rispetto e che avrebbe portato i voti a chi era contro i coltivatori e gli artigiani. Il giorno dell’assemblea presieduta da un commissario nominato dalla segreteria provinciale, mi ero preparato il discorso, ignaro dei retroscena e della prassi consolidata di non fare parlare i candidati, anzi non vi era alcuna assemblea ma solo il seggio elettorale pronto per la votazione e i gli aspiranti delegati sulla porta in attesa dei votanti, che al mio saluto si girarono, con stizza, dall’ altro lato. Ma quello che mi ha amareggiato di più fu che tutti i delegati convocati a Catanzaro a rappresentare con i voti le sezioni della provincia, dopo averci fatto assistere a uno spettacolo ove dal  palco, come provetti attori, se ne dissero tante,  dopo la pausa pranzo, saliti tutti insieme sul palco si rivolsero alla platea ringraziandoci per il nostro impegno, ci salutarono dicendo che non c’era bisogno di votare perché avevano raggiunto l’accordo. E, mentre loro brindavano al successo, non si rendevano conto delle profonde spaccature che avevano creato nelle sezioni e che non si sarebbero mai sanate.

Compresi perché a Spilinga nel 1960 pur avendo la DC riportato nelle politiche più del 70% di voti, elesse una amministrazione, per la prima volta, a guida comunista. Fu allora che lasciai la sezione DC ai seniores e fondai il circolo parrocchiale dove chiamai a raccolta i giovani del paese e con impegno e pazienza conquistai la loro fiducia che perdurerà negli anni a venire e mi porterà alla guida del comune.

Dopo il diploma, l’iscrizione all’ università interrotta dalla mia emigrazione negli USA, sceso da Bologna dove stavo frequentando, all’Ospedale Maggiore, un corso di analisi cliniche, per trascorrere le vacanze pasquali in famiglia, il mio amico Totò Tromby, mia guida e maestro in politica, mi disse che il paese, e in modo particolare la DC di Spilinga, avevano bisogno di ritrovare la pace e l’unità dopo dieci anni di guida comunista.

Qualche anno prima il partito mi aveva mandato a frequentare ad Acerno un corso nazionale per amministratori locali e, anche se molto giovane, avevo acquisito una certa loquacità e non mi spaventava la responsabilità di assumere impegni nel sociale. Dopo molte insistenze accettai forse perché ero stanco del mio peregrinare e volevo rientrare nel mio paese tra la mia gente.

Avendo ottenuto carta bianca per la formazione della lista mi misi subito a lavoro perché mancava solo qualche mese alla presentazione delle liste; la mia idea era di fare una lista di giovani e il materiale umano non mi mancava vista la stima che avevo conquistato in queste file col circolo parrocchiale. Ma ero consapevole che non si vince con le sole idee in un ambiente arroccato tra gruppi famigliari e le profonde divisioni nelle correnti del partito. Inoltre, essendo io un elemento attivo nella corrente di sinistra della DC, volevo fare una lista di centro sinistra includendo qualche elemento militante nel PSI; la cosa però si presentava alquanto complicata perché pur avendo avuto carta bianca per la scelta dei candidati lo scudo crociato come simbolo della lista non  si toccava.  Alla fine i segretari della DC e del PSI, tramite l’intervento di Felice D’Agostino, raggiunsero l’accordo: il PSI dava l’appoggio e due candidati sotto l’emblema dello scudo crociato in cambio del vicesindaco e del presidente dell’ECA. Questo baratto cozzava contro i miei principi perché annullava, anche se in parte, il potere decisionale del Consiglio Comunale e il sacrosanto principio del merito, per cui, riuniti i dieci componenti della mia cordata, esposi i fatti sottolineando la mia contrarietà ma essi votarono per l’accordo perché essendo alla vigilia della presentazione delle liste non c’era più il tempo per modificare la lista e tantomeno di ritirarsi perché ormai avevano preso posizione e impegno con i loro possibili elettori.

Era una lista di soli giovani, che doveva affrontare la lista del sindaco uscente forte di dieci anni di amministrazione PCI che aveva fatto breccia anche in molte famiglie DC e comunque ammirato e temuto tant’è che, per l’apertura dei comizi elettorali, pur avendo regolato i permessi per la piazza ci fu negato un balcone. Per cui un nostro amico contadino portò in piazza l’Ape dalla quale, senza scomporci, io e Mario Tassone venuto da Catanzaro in mio supporto, con un megafono facemmo il primo comizio.

Era prassi per la chiusura della campagna elettorale parlare nella stessa piazza e poiché ogni parte in causa ambiva a parlare per ultima, per l’ordine degli oratori si eseguiva il sorteggio. Ma era tanta l’animosità dei nostri avversari che non solo rifiutarono il sorteggio, ma, con la complicità del sindaco, loro alleato, chiesero ed ottennero le autorizzazioni ad occupare la piazza, persino con la proiezione di un film, per l’intero arco di tempo utile in un paese agricolo al regolare svolgersi dei comizi. Quindi si dovette optare per un’altra piazza e fare il nostro comizio di chiusura in concomitanza al loro.

Prepararono la piazza a festa, un balcone agghindato con sfarzo di luci e altoparlanti, un grande lenzuolo per il cinema. La piazza era gremita di gente, erano sicuri che al nostro comizio non ci sarebbe stato neanche un cane. Gli si era gonfiato tanto il petto che uno dei relatori dal balcone dei comizi, preso da un attimo di onnipotenza, ammettendo che ci era stato negato di parlare lì, con voce alterata gridò, ripetendo: “La piazza è nostra!”, tra gli applausi dei fan appositamente organizzati in prima fila.

Ma avevano fatto il conto senza l’oste.

Finito il film, qualche minuto prima delle 23, ora programmata per il nostro comizio, una delegazione di giovani DC venuti da S. Onofrio assieme ai nostri giovanili fan con bandiere e megafono annunciarono l’inizio del mio comizio in piazza Verdi: moltissimi lasciarono la piazza dell’oltraggio e li seguirono.

Vincemmo le elezioni e fui eletto Sindaco.

Ma se penserete che mi son messo a cantare mi ficiru sindaco o chi alligrizza chi cuntentizza vi sbagliate.

In realtà sin da subito mi trovai a lottare contro un inaspettato muro di una società corrotta con una mentalità generalizzata di egoismo e nepotismo.

Ero giovane in una lista di giovani vergini in campo amministrativo, per quanto riguarda la giunta e il Presidente dell’ECA l’avevamo, anche se con qualche scontento, stabilito prima e le varie commissioni erano senza tornaconto per cui poco appetibili. Uno dei consiglieri che avevamo accettato nella lista nostro malgrado era una serpe in seno su cui non si poteva contare. Ma il problema serio si rivelò alla prima riunione per stabilire la data del concorso per una guardia comunale e il rinnovo degli inservienti alla scuola materna ed elementare: uno pretendeva il posto di guardia, un altro il licenziamento di due inservienti per l’assunzione di sua sorella e di sua moglie; i quali, unitisi con lo scontento convinsero altri due consiglieri e, per farla breve, dopo qualche mese delle elezioni abbiamo rischiato lo scioglimento.

Furono cinque anni stressanti per tenere unita una maggioranza risecata e portare a termine la legislatura, tant’è che per la seconda legislatura cedetti il ruolo di capolista ad un’altra persona la quale accettò solo dietro mia promessa che gli avrei fatto da vicesindaco; accettai perché delle molte opere in cantiere ancora alcune non erano state completate.

Se il rapporto con i miei consiglieri è stato penoso e logorante, il rapporto col mondo esterno mi ha gratificato, specie nel rapporto con personalità della politica e delle istituzioni, in modo particolare con personalità della Cassa del Mezzogiorno e della Prefettura.

Un episodio in particolare mi ha ripagato e reso orgoglioso: per la crisi energetica furono bloccati tutti i mezzi privati circolanti. Una delegazione di contadini venne a chiedere il mio intervento perché erano disperati, dovevano accudire il bestiame e trasportare il latte dalle masserie molto distanti dal paese. Mi misi subito alla ricerca di una soluzione, andai a trovare il maresciallo il quale mi disse che non poteva fare nulla anzi mi avverti che loro erano stati allertati e dovevano bloccare gli eventuali trasgressori e mi aggiunse che solo i prefetti potevano rilasciare permessi di circolazione.

Chiamai in prefettura e mi dissero che il prefetto era fuori sede e che sarebbe rientrato in serata.

Chiamai il barista Antonio Petrarca che faceva autonoleggio con il Comune e partimmo subito per Catanzaro. Il prefetto, pur essendo le otto di sera mi ricevette e, dopo avermi pazientemente ascoltato, mi disse: ti ammiro perché per i tuoi cittadini hai affrontato, pur andando incontro alla notte, il lungo viaggio, ma mi dispiace a quest’ora non ho impiegati per poterti scrivere i permessi. Alla risposta che avrei potuto farlo io, mi fece sedere a un tavolo e, porgendomi un blocco di fogli per i permessi, mi pregò di scrivere solo i nomi di tutti coloro che devono fare un percorso superiore a quattro chilometri. Uscii della Prefettura alle tre del mattino e il mio autista, che si era appisolato, appena mi vide gettò un sospiro di sollievo dicendomi: pensavo che ti avevano arrestato e comunque non mi chiamare che non verrò più con te. E durante tutto il resto della sua vita mi ha ripetuto che l’ho lasciato tutta la notte fuori.

Una cosa su tutte, realizzata da sindaco, della quale sei orgoglioso e una cosa che avresti voluto fare ma non hai potuto, magari non sei riuscito a farla e non ti hanno “permesso”.

Per quanto concerne la realizzazione di qualche opera che mi rende orgoglioso voglio ricordare:

-nel settore dei lavori pubblici, avere reso il paese pulito e decentemente abitabile con la bitumatura di tutte le strade interne, la demolizione di 60 ruderi e case pericolanti creando spazi e piazze non tralasciando la viabilità per raggiungere le masserie con la bitumazione di molte strade interpoderali;

-in campo culturale l’autonomia della scuola media statale;

-in campo socio-economico la fondazione di una cooperativa per la produzione e commercializzazione dei prodotti agricoli con una sagra: “la sagra della ‘ndujia”.

Il mio rimpianto è non aver realizzato la panoramica circonvallazione a ovest del paese che avrebbe snellito la circolazione nelle strette stradine del centro e, con un ponte, avrebbe avvicinato la frazione Panaia.

Lasciamo la scuola, lasciamo la politica. Veniamo alia tua sconfinata passione per la cultura locale. Elencaci, anzitutto, i tuoi libri e, brevemente, parlaci del contenuto di ognuno di essi.

La mia passione in campo letterario-culturale nasce sin dalla prima scolarizzazione quando, tuffandomi in ogni genere di lettura su carta scritta che mi capitava tra le mani, mi immedesimai talmente da perdere la cognizione del tempo, tanto da essere la disperazione dei miei genitori che, mandandomi ad accudire gli animali al pascolo e non vedendomi tornare, preoccupati venivano a cercarmi e mi trovavano sotto un albero con un libro in mano immerso nella lettura (forse per questo si sono rassegnati a mandarmi a scuola).

Da queste letture nasce la mia capacità narrativa che divertiva grandi e piccini; specialmente con atti teatrali preparati per i giorni del carnevale, il più delle volte creati dalla mia fantasia estrapolando con voli pindarici, dalle mie molteplici letture, le romanze.

La mia prima pubblicazione è datata 1969: “Un uomo semplice” edito Arti Grafiche Tamari -Bologna. Si tratta di un romanzo la cui trama e il protagonista sono reali. Sorto dalla narrazione della vita di un mio zio,  che durante i mesi della mia residenza in USA, come fanno gli anziani, tra un bicchiere e l’altro, volle lasciarmi le sue memorie. Alternarsi di tristezza e gioia, gli amori, le inumane pene di una disastrosa guerra, la descrizione di tre patrie in tre mondi diversi: l’Italia, l’Argentina e gli Stati Uniti.

La mia passione per la storia delle nostre radici nasce nel 1991 quando, nominato insegnante nella scuola media di Joppolo, un collega mi ha detto che aveva un manoscritto di suo zio, il prof. Francesco Vecchio, e visto che nel 1992 ricorreva il ventesimo della sua morte gli avrebbe fatto piacere commemorarlo con la pubblicazione di un libro. Accettai pensando che si trattasse di un lavoro, non dico completo, ma solo da rifinire. In realtà si trattava di pochi fogli battuti da qualcuno che per i tanti errori, in parte corretti, non sapeva usare la macchina da scrivere e di tanti fogli scritti a mano che contenevano solo appunti e riferimenti.

Ho chiamato il mio amico dicendogli che il materiale che mi aveva consegnato non era un manoscritto da curare ma un libro da scrivere e, pur volendo pubblicarlo, trattandosi di riferimenti io non avevo i libri da lui consultati e citati. Il giorno dopo si presentò a casa mia con uno scatolone pieno di libri e mi convinse ad accettare: mancava solo il libro del Vendola e siccome mi era indispensabile e si trovava solo nella biblioteca vaticana, un suo parente che si trovava a Roma lo comprò e me lo spedì.

Dopo un anno di ricerche completai il libro che pubblicammo nel novembre del 1992, edizione mapograf “Francesco Vecchio – Monachesimo Basiliano in Calabria – Le origini di alcuni insediamenti sul Poro” – a cura di Agostino Gennaro e Giovanni Vecchio.

Fu un lavoro difficile e faticoso che mi costò molto tempo e studi in un campo a me completamente sconosciuto, ma mi appassionò talmente che continuai gli studi da autodidatta sotto la guida di don Pasquale Russo – che prima mi aveva introdotto nei convegni della gioventù cattolica italiana, poi in quelli della deputazione patria della storia della Calabria del prof Antonello Savaglio, nelle ammuffite carte degli archivi parrocchiali, vescovili, di stato e privati.

Nel 2010 come frutto delle mie appassionate ricerche pubblicammo un libro, io e Pasquale Russo, editore AGM, Castrovillari, “Spilinga e dintorni – Società, Demografia, Religione ed economia dalle antichità al novecento”.

Nel 2011 fu la volta del libro “Nella Compagnia degli uomini – scritti e testimonianze per 50° di sacerdozio di Don Pasquale Russo”, Bakos editore, Castrovillari.

Nel 2013 “Panaia e la sua Madonna – Tradizione e storia”.

La diffusione dei social e la facilità del loro uso con un piccolo e comodo cellulare aveva conquistato grandi e piccini né fui ammaliato anch’io e, buttato carta e penna, abbandonai la mia innata propensione a scrivere libri e cominciai a condividere il frutto dei miei studi e delle mie ricerche su Facebook perché sentivo la vicinanza dei lettori che coi i loro like e le loro condivisioni mi spronavano a scrivere.

L’ incontro con Mario Vallone, un giovane editore, mi riportò alla realtà facendomi capire che tutto il mio lavoro, dopo quel like, finiva nel cestino.

Ma il vero motivo del convincimento per un ritorno alla carta scritta, sono state le sue idee originali e innovative: poco scritto e molte foto.

Iniziammo questo nuovo percorso con la pubblicazione, nel giugno 2018, del libro “DaCAPOgiro” TUTTE LE SPIAGGE – TUTTE LE CHIESE – TUTTI I MUSEI DEL TERRITORIO COMUNALE DI RICADI”, una guida turistica in Italiano-Inglese-Tedesco, a cura di Agostino Gennaro e Jenny Gennaro (Mario Vallone Editore).

Seguiranno i due volumi della serie “Tesori da valorizzare”:

Il primo, uscito nel gennaio del 2021: “TESORI DA VALORIZZARE – Patrimonio Archeologico Culturale-Brattirò, Caria, Drapia, Gasponi-Luoghi e Personaggi.” A cura di Agostino Gennaro (Mario Vallone Editore).

Il secondo, uscito nel gennaio 2023, “TESORI DA VALORIZZARE – volume II. Comune di Ricadi. I borghi, coste e spiagge, le chiese, i musei, siti archeologici, le torri, le fiumare, i mulini, i ponti, i calvari, altri luoghi, miti e leggende, personaggi, il turismo, pesca e fondali, l’agricoltura, prodotti tipici, tramonti, feste religiose”.

Questa collana “TESORI DA VALORIZZARE” è nata dall’innato desiderio di Mario Vallone di portare avanti l’obiettivo che persegue da anni con sacrificio, passione e sistematico impegno: creare qualcosa nella sua terra, possibilmente in ambito culturale, per valorizzare le sue bellezze ed i suoi tesori, dando ampio risalto non solo ai luoghi dove sono avvenuti scavi o dove si trovano monumenti rilevanti, ma anche e soprattutto alle persone coinvolte in questo lungo e difficoltoso cammino. Non solo illustri archeologi il nome dei quali, con molte e dotte pubblicazioni, è entrato nella storia dell’archeologia, ma anche professionisti del luogo o semplici lavoratori che, con la loro opera e l’impegno profuso, talvolta anche solo per curiosità o casualità, hanno contribuito a “scovare” e divulgare l’immensa storia di questi luoghi. Persone che non sono state mai degnamente omaggiate, eppure la loro attività è stata fondamentale e ci ha permesso, tra le altre cose, di essere ancora qui a approfondire, raccontare, e sperare che, un giorno, tutti questi tesori possano essere, davvero, valorizzati.

Questa proposta di molte foto e poco scritto, che avrebbero reso il libro piacevole e di facile lettura, fu per me come una manna discesa dal cielo: ricerche in loco, contatti con la propria gente, storia e leggende impreziositi dalle moltissime foto.

Spinti da quel misterioso desiderio, insito in ognuno di noi, per la conoscenza delle proprie origini, ci siamo adoperati a realizzare questi volumi da tramandare alle future generazioni essendo convinti che scoprire e valorizzare la memoria aiuti ad affrontare meglio le sfide del cambiamento e della globalizzazione, a rispettare il territorio, ad avere un progetto più chiaro e scrupoloso per il futuro.

I tuoi sforzi si sono concentrati principalmente sui comuni di Spilinga, Drapia e Ricadi… hai avuto riconoscimenti, attenzione, da parte degli amministratori dopo questi lodevoli ed originali lavori, alcuni addirittura fotografici e di pregevole fattura visiva oltre che di contenuto?

Premetto che io non scrivo per riconoscimenti di pubbliche amministrazioni ma per amore  verso la mia natìa terra e per fare conoscere la Calabria, in modo particolare ai calabresi, a coloro che pur  abitandovi,  sono spesso ignari delle bellezze del territorio e della sua storia testimoniata da tanti insediamenti e necropoli disseminate nella nostra realtà.

Creare consapevolezza, tutela e valorizzazione.

Il resto non mi tange per cui la mia risposta a questa domanda è: Non commento! Ai posteri l’ardua sentenza.

Quali sono le tue fonti? Non solo archivi, ti vedo sempre molto attivo in prima persona sui territorio dove raccogli testimonianze, recuperi tracce, ascolti persone…

Le fonti delle mie ricerche in principio si incentravano sulla bibliografia e l’archivistica successivamente con l’incontro con un giovane editore la specificità dei miei volumi subì una vera e propria rivoluzione prediligendo l’aspetto fotografico-divulgativo: molte pagine, con molte foto e poco testo, con l’obiettivo di rendere piacevole lo sfogliare delle pagine e indurre  e spronare il lettore a stupirsi e approfondire.

Ciò naturalmente richiedeva un impegno e un modo diverso da quello fatto prima sia concettualmente, non approfondendo ma sfiorando gli argomenti, sia praticamente con una presenza attiva e fattiva sul territorio fotografando luoghi e oggetti che narrano la storia del territorio e in modo particolare con l’ascolto della gente raccogliendo testimonianze personali o riportate dalla tradizione locale convinti, come afferma il Corso, che: “…La natura cede alla storia, ma la storia si nasconde nella caligine dei tempi che più non sono, poiché le belle opere che non hanno cantore l’oblio ricopre”.

Una domanda a parte la dedico alla tua passione per la fotografía…

La mia passione per la fotografia non è professionale per cui non è legata a sofisticate e costose macchine fotografiche ma a un semplice cellulare che permette quello scatto, da me preferito, del cogliere l’attimo specialmente dei tramonti. Le mie foto, come i miei libri, non sono realizzati per album commemorativi o per scaffali di biblioteche ma condivisi con tutti specialmente con coloro che non hanno la fortuna di visitare le bellezze della nostra amata terra. Per questo motivo, ogni giorno, condivido sui social il frutto del mio lavoro.

Approfondiamo il discorso legato alla cultura del circondario di Tropea-Capo Vaticano, che tu conosci molto bene. Cosa manca, oggi, alla politica per far decollare questa zona? Una tua riflessione da ex amministratore che conosce bene la zona, le dinamiche, i pregi, le problematiche, le potenzialità e le certezze…

Quanto al discorso legato alla cultura del circondario Tropea-Capo Vaticano non ci sarà speranza di decollo se non si maturerà ponendo fine alla grezza mentalità di un campanilismo esasperato, sia degli amministratori locali morbosamente legati al proprio orticello sia degli imprenditori e operatori in campo economico, sociale e culturale che basano tutto il loro operato sul tornaconto personale, ignorando il resto del territorio e degli altri operatori in apparenza amici e da dietro le spalle rivali da annientare. È questo l’intoppo principale che impedisce il decollo di questo territorio che di potenzialità ne ha da vendere.

m.v.

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