Ho avuto l’onore e il piacere di intervistare Franco Pagnotta.
Non aggiungo altro.
Buona lettura.
m.v.
Franco Pagnotta, docente in pensione, giornalista ben noto in tutto il Vibonese, autore di diversi libri di successo. Parlaci anzitutto della tua vita. Dove sei nato, dove hai trascorso la tua infanzia…
Sono nato a Filandari nel 1951, terzo di sei figli, tre maschi e tre femmine. I miei genitori erano contadini, un pezzo di terra in affitto, il cui raccolto andava in gran parte ai proprietari, i cosiddetti “gnuri”, così andava il mondo allora, in quasi tutti i nostri paesi. Anche la casa era in affitto, due stanze che fungevano da camera da letto e cucina. Noi figli, dopo la scuola, andavamo in campagna ad aiutare i genitori nei lavori dei campi oppure a bottega per imparare un mestiere, io andavo a falegname. Mio padre era da pochi anni tornato dalla guerra, che, compreso il servizio militare, lo aveva tenuto lontano da mia madre per otto anni. La terra non era sufficiente per mandare avanti la famiglia, così, quando nella seconda metà degli anni ’50 si aprì la strada per Milano, egli, come tanti suoi amici, prese il treno dell’emigrazione e per tanti anni fece l’operaio in una ditta di lavori stradali, a casa veniva una o due volte all’anno, avevamo un padre a metà, insomma, ma con i soldi che riusciva a mettere da parte, nel 1961 comprò una casa tutta nostra, a rate, ovviamente. Diverse famiglie, intanto, partivano con la nave in America, non sapevano, alcuni di quei miei compagni di scuola, che non sarebbero più tornati al paese. Dei miei primi dieci anni, anche se c’era poco, conservo bellissimi ricordi, fatti di semplicità, di affetti familiari, di mia madre che di sera, dopo una giornata passata a raccogliere olive o a mietere il grano con attorno le nostre piccole mani operose, scriveva lunghe lettere al suo uomo o ai fratelli partiti in Argentina, ricordi nostalgici di attesa per la festa patronale, di solidarietà, del profumo del pane appena sfornato, di giochi all’aria aperta e di sogni.
Veniamo ai tuoi studi, fino ad arrivare alla laurea.
Quando frequentavo la quinta elementare il parroco disse a mia madre che, se avesse voluto, visto che ero bravino a scuola e assiduo a servire messa ma le nostre condizioni economiche non erano sufficienti per farmi proseguire gli studi, c’era la possibilità di mandarmi in collegio, così, nel settembre del 1962 lei mi accompagnò in treno per Grottaferrata, a pochi chilometri da Roma. Il collegio si chiamava “Casa Buoni fanciulli”, fondato da Don Giovanni Calabria, un sacerdote veronese che poi venne proclamato santo da Papa Giovanni Paolo II. Fu un’esperienza bellissima, lì, tra compagni provenienti anche da altre regioni d’Italia e tra bravissimi educatori, ci rimasi cinque anni, tre di scuola media e due di Ginnasio, a casa tornavo due o tre volte all’anno. I tre anni di Liceo, ancora su consiglio del parroco che intanto era cambiato, poi, li frequentai nel seminario di Reggio Calabria, tenuto da padri Gesuiti. Dopo la maturità classica decisi di iscrivermi a Lettere presso l’Università di Messina, dove mi laureai nel giugno del 1975. Dal febbraio 1976 al febbraio 1977 dovetti svolgere il servizio militare che avevo rinviato per motivi di studio. Intanto avevo fatto domanda di insegnamento nelle scuole medie in Provincia di Brescia, perché qui in Calabria non c’era tanta possibilità.
Poi inizi a insegnare, dapprima da precario quindi emigri, poi rientri in Calabria…
Al rientro dal servizio militare, nel febbraio 1977, con la decade che davano a tutti i soldati (mi pare cinquecento lire ogni dieci giorni) e che io cercavo di risparmiare, feci la valigia e presi il treno per Brescia, con l’intenzione di farmi un giro in qualche scuola dove avevo fatto domanda di insegnamento per vedere la situazione e poi rientrare per aspettare una eventuale chiamata. Nella città lombarda tre anni prima c’era stata la bomba di Piazza della Loggia, che aveva fatto diverse vittime. Alla scuola media di Lonato mi dissero che probabilmente ci sarebbe stata la possibilità di una supplenza breve, di telefonare dopo un paio di giorni. Cosa che feci. Quella supplenza di sette giorni poi si prolungò, poi arrivarono altre chiamate, insomma, anche se con brevissime pause, quell’anno lavorai fino a giugno. Abitavo in una pensione di periferia, una stanza con il bagno in comune, nel corridoio, diecimilalire al mese. Quell’estate del 1977, con un mio collega siciliano, decidemmo di fare come le formiche e mettere da parte qualcosa per quando le cose non sarebbero andate bene, così decidemmo di rispondere ad un annuncio sul Giornale di Brescia e andammo a fare i camerieri in un villaggio turistico sul lago d’Idro, cosa che io non avevo mai fatto, ma mi ci adattai, e così, tra stipendio e mance, mettemmo da parte un po’ di soldini. Alla riapertura del nuovo anno scolastico le cose migliorarono, le supplenze furono più lunghe, in seguito divennero incarichi annuali a tempo determinato. Il tempo passava veloce, io, per arrotondare, per alcuni anni feci anche il venditore di enciclopedie, lavoro in cui me la cavavo benino. Intanto, grazie anche al secondo lavoro, mi ero comprato un piccolo appartamento e abbandonavo la vecchia pensione che, in maniera scherzosa, assieme ad un mio collega chiamavamo “Il Brivido”, un nome che era tutto un programma. In città mi ero inserito bene, partecipavo alle riunioni e alle lotte del Comitato Precari finalizzate al passaggio in ruolo. Nel 1984, finalmente, venne bandito il Concorso, che mi andò bene e venni immesso in ruolo. Nel Bresciano insegnai fino al 1990, anno in cui decisi di trasferirmi nuovamente in Calabria, una scelta difficile, perché, dopo tredici anni di straordinarie esperienze umane e lavorative e tante amicizie, Brescia era divenuta per me la mia città d’adozione.
Spostiamoci sul Pagnotta giornalista. Quando i primi articoli? Raccontaci la tua trafila, fino ad arrivare al giorno d’oggi.
Il giornalismo mi aveva affascinato da sempre, da studente, quando potevo, compravo la Gazzetta del Sud e poi, al Nord, ero diventato un assiduo lettore de “Il Giornale di Brescia”, mi piaceva tenermi aggiornato su quanto mi accadeva attorno. Quando tornai in Calabria, grazie a Peppe Sarlo, ebbi l’opportunità di collaborare ad un periodico che si chiamava “Pronto? Qui Calabria” e poi, nei primi anni ’90, su invito dell’amico Giacomo Prestia, al settimanale “L’altra Provincia”, scrivevo articoli di cronaca riguardanti il mio paese e il comprensorio circostante. Quell’esperienza durò pochi anni. Poi arrivò anche a Vibo la redazione de “Il Quotidiano della Calabria”, dove approdammo in gruppo io, Francesco Mobilio, Giacomo Prestia e altri con cui avevamo condiviso le esperienze precedenti. Per diversi anni, dopo la scuola, andavo in redazione, guidata con competenza ed equilibrio da Mimmo Mobilio. Nel 1997 mi sono iscritto all’Ordine dei giornalisti. Da allora ho sempre collaborato al Quotidiano, dove ancora scrivo, ma con minore assiduità.
Collabori ormai da decenni col Quotidiano delle Calabria. Sei un osservatore di più 30 anni di giornalismo. I cambiamenti della professione giornalistica e della fruibilità delle notizie hanno subito una rivoluzione. Tu come lo valuti questo cambiamento: fare giornalismo oggi, fare giornalismo ieri…
L’attività giornalistica, con l’avvento della comunicazione on line, ha subito un cambiamento radicale, tutto è più veloce, tutto deve giungere in tempo reale, devi andare all’essenziale, arrivare prima della concorrenza. Le suole consumate per cercarti la notizia ormai è solo letteratura, è un lavoro per lo più sedentario, per scrivere una notizia a volte basta un giro di telefonate o andare sul web. Oggi il telefonino ti permette di leggere il giornale senza andare in edicola (molte hanno chiuso), il cartaceo non si vende quasi più. Sono lontani i tempi in cui, per alcuni servizi, il giornalista era accompagnato dal fotografo, ora sono un’unica figura. Ieri, attraverso l’attività giornalistica, entravi emotivamente dentro le storie, gli avvenimenti, ampliavi le tue conoscenze, le relazioni, a volte costruivi nuove amicizie. Da tempo, ormai, non provo la gioia di uno scoop, come quella volta che scrissi di un giovane vibonese affermato come modello a Milano che decise di cambiare radicalmente vita e fare il prete, una notizia che venne lanciata la sera stessa dall’Ansa e mandata nel Tg Rai delle 20, ora l’ex modello che sfilava per Armani e per Gianni Versace pare faccia il parroco in un paese della provincia. Oggi tutto questo non avviene quasi più, sei tu e il pc, anche il taccuino e la biro sono pressoché scomparsi.
Personalmente ho la sensazione che la qualità del giornalismo locale si stia sempre più abbassando. Vedo sempre più notizie copia e incolla, senza approfondimento, e poche inchieste, poco coraggio, come pure poca cultura, o meglio poca originalità nella scelta degli argomenti e nella stesura dei pezzi. Una tua considerazione più specifica riferita alla professione qui nel nostro territorio…
Sono d’accordo con te, al di là di poche eccezioni, non vedo giornalismo di ottima fattura, tutto sembra ripetitivo, non si va oltre la superficie della notizia, mancano le interviste reali (molte sono preconfezionate, è più comodo), c’è poca personalità, prima, quando leggevi un pezzo, anche saltando la firma capivi chi lo aveva scritto, perché il giornalista ci metteva del suo in fatto di forma e di cura nella struttura del pezzo. Noto, insomma, una specie di appiattimento, tutto uguale, cambia solo un po’ la sintassi, manca la personalità, come ben sottolinei tu, l’originalità. Oltre a questo credo che ci voglia anche un po’ di coraggio nel denunciare ciò che non va, il giornalismo di inchiesta latita, c’è un po’ di timore reverenziale, che probabilmente deriva dal legame di amicizia che spesso si instaura tra giornalista e politico o comunque responsabile di un settore della vita pubblica, al di là, comunque, dei rapporti che possono nascere da questo lavoro, non bisogna mai rinunciare all’obiettività, alla denuncia, alla rivendicazione dei diritti fondamentali della persona, specie in fatto di sanità.
Tu per molti giornalisti locali – sicuramente per il sottoscritto – sei stato e sei un maestro, un modello, sia come persona ma anche come professionista. Una tua caratteristica, che si riscontra anche nei tuoi libri, è la ricerca delle piccole cose, degli aspetti del quotidiano – sia di ieri che di oggi – apparentemente irrilevanti, ma che racchiudono un significato e un peso. Dicci altro su questa tua impronta culturale e giornalistica e sul valore che, in un mondo sempre più veloce e globalizzato, può e deve continuare ad avere…
Grazie per le parole di stima, dette da te mi onorano. Credo che il giornalista debba possedere una caratteristica fondamentale, quella di andare oltre a ciò che tutti vedono o ascoltano, guardare ai dettagli, alle cose in cui molte volte è racchiusa la verità, è come un archeologo, deve scavare, toccare con mano i reperti, pulirli dai sedimenti e dalla polvere, interrogarli, a volte vai per un piccolo fatto di cronaca e scopri una montagna. Questo modo di lavorare mi ha fatto conoscere un’umanità sommersa che per molti aspetti merita di essere raccontata. Forse per il “poco” in cui sono cresciuto, per l’educazione ricevuta in famiglia, ma mi hanno sempre affascinato le piccole cose, le persone umili, è proprio lì la verità della vita, il resto, molte volte, è pura apparenza, esibizionismo, un modo per dire “esisto anch’io”.
Arriviamo al Pagnotta scrittore. Il primo libro, pubblicato anni fa e ripubblicato di recente, un volume che parlava, con sarcasmo e ironia, del tema della precarietà: un volume sempre più attuale…
Sì, lo pubblicai nei primi anni ’90 con la Casa editrice Periferia di Cosenza, fondata e guidata da Pasquale Falco, una mente illuminata, purtroppo scomparso. Adesso l’attività editoriale è passata al figlio, che fa molto bene. Il libro si intitolava “Indecenza della docenza”, un racconto semiserio ma sostanzialmente realistico dei miei anni di precariato a Brescia, poi ripubblicato con successo con il tuo marchio editoriale con il titolo “Il docens praecarius e le sue sottospecie”. Dici bene, è sempre attuale nella sostanza, non nella forma, perché oggi i giovani che vanno via dalla Calabria per insegnare il più delle volte partono con la nomina già in tasca e comunque possono contare sul sostengo economico della famiglia d’origine, non debbono affrontare i disagi a cui eravamo costretti noi cinquant’anni fa, oggi, grazie a Dio, è una situazione diversa, ma il mio libro è uno specchio fedele (e un po’ romantico, forse) di quegli anni.
Veniamo ai libri “Gli anni dei sogni brevi” e “La meraviglia del poco”, due opere che ho avuto l’onore e il piacere di pubblicare. Due successi; stampati e ristampati. Libri simili, sia per la tematica sia per lo stile di scrittura. Non più sarcasmo e ironia ma prosa che talvolta lambisce lo stile poetico. E poi il contenuto: libri che parlano del passato, di un mondo che fu… libri che emozionano.
Due libri a cui sono molto legato, racconti della mia prima età, quella della fanciullezza, del poco e della spensieratezza, racconti di affetti e di sogni, di tenerezza per le giornate passate in campagna o dietro un bancone di bottega a porgere i ferri al falegname come l’infermiere al chirurgo o in chiesa a fare il chierichetto o a scuola aspettando il sabato per ascoltare il maestro che ci leggeva un capitolo del libro Cuore…Piccole cose, insomma, quelle che ancora popolano la mia mente e nelle quali – l’ho scoperto da grande – forse era la felicità. Di quel mondo, stranamente, non ricordo le privazioni, il freddo che d’inverno abitava le nostre case e le aule scolastiche, ma solo il sole, i giochi, la fiducia nel Cielo di mia mia madre e il sorriso un po’ accennato di mio padre nel vederci crescere educati e contenti.
Veniamo alle presentazioni di libri, sia come relatore che come autore. Con me ne abbiamo fatte tante. Specialmente le tue, quelle dei tuoi libri, sono sempre state partecipate. Soprattutto nel tuo comune. Ho sempre intravisto nelle persone che vi hanno preso parte una profonda stima nei tuoi confronti. Un autore amato in patria, per così dire. Questo perché sicuramente hai dato tanto alla tua gente. Come vivi questo rapporto con le persone? Come riesci a entrare in empatia con loro e a guadagnarti il sorriso e il rispetto.
Ho sempre mantenuto un legame profondo con il mio paese e con la sua gente. Da studente universitario ho fondato, assieme ad altri amici, il Gruppo Teatro Ruspante, ragazzi accomunati dalla passione per la recitazione con cui mettevamo in scena delle commedie ispirate alla vita reale, divertenti pièces dialettali che mi divertivo a preparare. Per molti anni, anche quando lavoravo al nord, in estate organizzavamo una serata di teatro in piazza, questo fino ad una decina di anni fa. Inoltre, ho sempre partecipato alle iniziative sociali e culturali, come la sagra o la festa patronale, sempre con un solo obiettivo, quello di dare il mio contributo per la crescita della comunità. Tutto questo, assieme al mio carattere molto socievole e al rispetto che si deve a ciascuna persona in quanto tale, mi ha aiutato ad entrare in empatia con la mia gente.
Parliamo, in modo generico, della politica locale. Il vibonese. Terra piena zeppa di problemi. Tu, da osservatore, come giudichi tutti questi decenni e cosa pensi occorra fare per migliorare le cose?
Non lo si può negare, il nostro territorio continua a soffrire, più di molti altri, per gli atavici problemi ancora irrisolti, primo tra tutti la sanità. Viviamo di “prime pietre” e di decennali attese, come quella per il nuovo ospedale o per il nuovo teatro. Senza fare inutili giri di parole, credo che negli ultimi quarant’anni la vita politica e culturale del Vibonese sia stata appannaggio di pochi gruppi, chiamiamoli pure di potere, che non hanno lasciato spazio alle nuove generazioni, privilegiando l’appartenenza al merito, la “raccomandazione” alla competenza. Non si è in grado di fare dei progetti compiuti, si arriva a metà strada e ci si blocca perché mancano i soldi, questa si chiama incapacità progettuale. Nel pubblico (ad esempio la sanità) a volte ci si comporta come se si trattasse di cosa privata, negli uffici spesso al posto della gentilezza ti scontri con l’arroganza di impiegati che sembrano automi, manca l’umanità, insomma, quella di cui molti, nei convegni si riempiono la bocca. Per migliorare questo stato di cose occorre un cambio di rotta che parta da una nuova mentalità, dall’aprire la porta alle nuove energie, a considerare il posto pubblico non come qualcosa da tramandare da padre in figlio, ma un mezzo per servire gli altri e per pensare a progetti di crescita, lasciandolo senza rimpianti quando ci sarà qualcuno più bravo di noi. Sarà un processo lungo, ma ancora possibile.
Cultura locale. Tu che segui, che leggi, che conosci: indicami uno scrittore vibonese che segui con attenzione e che ti emoziona. Indicami anche un poeta…
Mi ha particolarmente colpito, di recente, il romanzo storico di Andrea Runco “Un solo amore”, pubblicato con il tuo marchio editoriale. La storia dei protagonisti è abilmente inserita con efficacia narrativa nell’ambito di avvenimenti storici che si dipanano tra gli ultimi due secoli. Tra i poeti credo che un posto di primo piano lo meriti Michele Petullà, sia per le tematiche affrontate che per la tecnica metrica e la musicalità.
Un’ultima domanda: hai altri scritti nel cassetto?
Nel cassetto no, nella mente sì.
m.v.