Libro don Giuseppe Furchì – Cap. 20-21-22-23

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Don Giuseppe Furchì

Omaggio a don Giuseppe a dieci anni dalla morte.

Capitoli 20-21-22-23 del libro:

“Don Giuseppe Furchì: il suo cammino terreno” di Pasquale Vallone

(Thoth Edizioni di Mario Vallone -2012)

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  • MALORE DURANTE   LA   CELEBRAZIONE   DELLA   MESSA

Il 16 aprile 2009, era una bellissima giornata primaverile, l’aria tiepida e un sole splendente invitavano a una passeggiata. Ero nell’ambulatorio intento a lavorare. Squillò il telefono: “Dottore, scappate perché don Giuseppe si è sentito male in chiesa mentre celebrava la messa”. Erano le 8.15. Lasciai subito lo studio dicendo ai clienti che mi assentavo momentaneamente per una visita domiciliare urgente.

Arrivai in chiesa dopo un paio di minuti. Entrai e vidi che c’era tantissima gente, quasi tutte donne, ammutolite e preoccupate in volto. Abitualmente seguivano la funzione una quarantina di persone, ma quella mattina erano molte di più, la chiesa era quasi piena, forse perché si era sparsa la voce che il parroco si era sentito male e tutti erano corsi.

Con passo veloce e tenendo in una mano la borsetta con gli attrezzi del mestiere e nell’altra quella con farmaci di pronto soccorso, percorsi la navata centrale e mi avvicinai all’altare. Vidi don Giuseppe seduto sul lato destro dell’altare, con le mani sulle ginocchia, immobile. Accennò a un lieve sorriso mentre mi avvicinavo e con flebile voce mi disse: “ora sto meglio”. Lo osservai e notai che era pallido, avvicinandomi vidi che sudava…  Un fremito mi pervase e pensai al peggio, ad una severa patologia cardiaca.  Gli dissi: “State tranquillo, è una cosa passeggera. Avvertite qualche dolore al petto, alla spalla, allo stomaco, alla testa?”. “No, non avverto nessun dolore”.

Gli palpai il polso e lo sentii debole, gli auscultai il cuore col fonendoscopio e lo sentii ritmico. Lo guardai in volto sforzandomi di non sembrare preoccupato, anzi accennai a un sorrisetto e gli dissi: “Vi aiuto ad entrare in sacrestia così vi faccio una iniezione”. “Si, ce la faccio da solo”, ma lo aiutai a sollevarsi dalla sedia e lo accompagnai, sorreggendolo per le spalle

Arrivati in sacrestia, lo adagiai su una sedia e lo feci distendere. Sorrise e rincuorato disse: “Dottore sto bene“. Lo aiutai a spogliarsi dei paramenti sacri e lo visitai. Le condizioni cardio-circolatorie erano buone, aveva solo la pressione bassa, non avvertii patologie all’apparato respiratorio, l’addome era “trattabile” senza punti dolenti. Mi rassicurai perché compresi che non si trattava della patologia che temevo appena l’ho visto, e lo tranquillizzai. “Ora vi faccio una puntura per fare salire la pressione e subito starete bene“. “Dottore sto bene, se posso: vorrei finire di celebrare la messa”.

Gli praticai un cardiotonico, “Se ve la sentite, fra poco vi permetto di ritornare sull’altare, io aspetto qui, in chiesa, fino al termine della celebrazione della messa”.

Poi uscii dalla sacrestia e notai che la chiesa era piena di gente, composta e silenziosa ma preoccupata, e l’ansia e l’apprensione erano disegnate sul volto di tutti. “State tranquilli, fra pochi minuti il nostro don Giuseppe, che sta meglio, tornerà sull’altare per finire di celebrare la messa”.

Passò circa un quarto d’ora e don Giuseppe cominciò a stare meglio, gli ritornò il colorito roseo e le forze, si rivestì dei paramenti, si alzò in piedi e disse: “Sto bene, vado a finire la messa”. “Andate tranquillo, io rimango qui in chiesa”.

Sul volto di tutti tornò il sereno: don Giuseppe finì di celebrare la messa con l’autorità solita e la sicurezza e la certezza di essersi ripreso dal malore.

Io tornai nel mio ambulatorio per continuare il mio lavoro quotidiano.

Verso mezzogiorno, andai a fare una visita di controllo  a Gasponi, al suo domicilio: non lo trovai a letto ma seduto su una poltrona. Lo visitai di nuovo e lo trovai bene. Gli prescrissi una serie di esami siero-diagnostici per un completo controllo clinico. Non risultò nulla di patologico.

  • PRESENTAZIONE DEL LIBRO E IMPATTO CON LA FESTA DEI SS. MEDICI

Il 7 giugno 2008, pubblicai il libro “I Santi Medici Cosma e Damiano. Storia, Tradizione, Culto” e chiesi a don Giuseppe, ritenendola la persona più qualificata, che ne facesse la presentazione. Accettò subito con gioia, ma “devo trovare una scusa al vescovo“, perché quello stesso giorno e alla stessa ora, s.e. monsignor Luigi Renzo, nella cattedrale di Mileto, dava la sacra ordinazione al sacerdozio a tre nuovi sacerdoti e tutti i preti della diocesi dovevano essere presenti.

Ma dopo aver riflettuto un istante, don Giuseppe, da quel galantuomo che era, nonché persona retta e corretta, mi disse: “Non troverò nessuna scusa, ma andrò dal vescovo e gli dirò la verità e cioè che non posso  essere presente a quella adunanza di sacerdoti perché al mio paese devo relazionare su un libro che tratta di una approfondita ricerca sul culto dei SS. Martiri Cosma e Damiano, libro scritto non da un religioso, ma da un laico, il dottore Vallone, cattolico praticante e medico del paese e mio medico da oltre 30 anni”. Poi aggiunse: “Nella vita bisogna dire sempre la verità che è una sola e imprescindibile, due verità non esistono”. Io fui d’accordo con lui. Pertanto, il giorno dopo don Giuseppe andò a parlare col vescovo che gli diede il suo consenso.

Quando don Giuseppe prese possesso della parrocchia nel lontano 1975, si rese subito conto quanto forte e radicata era la devozione che noi parrocchiani avevamo verso i Santi Medici Cosma e Damiano.

Egli aveva in mente di fare delle innovazioni per quanto riguarda tale festa. Era usanza che, durante la processione, i fedeli apponessero, con uno spillo, su un nastro appositamente messo sulle statue dei Santi a mo’ di fascia, delle offerte ex-voto in denaro.

Va premesso che i fratelli gemelli Cosma e Damiano furono medici “anargiri” cioè senza argento, nel senso che esercitavano la professione in modo gratuito senza chiedere compenso alcuno, per cui non accettavano donazioni in natura e tanto  meno compensi in denaro.

Don Giuseppe, col pretesto che quello che si attuava era un metodo e un criterio pagano ma anche un modo per mettersi in mostra e in evidenza riguardo alla entità dell’offerta, propose di sostituire il nastro con dei canestri dentro cui depositare la donazione.

Di questo suo intendimento don Giuseppe me ne parlò nell’estate del 1979: quell’anno ero il presidente del comitato per i festeggiamenti dei SS. Medici (Commissione).  Garbatamente contestai quella proposta di innovazione sostenendo che intendevo mantenere quella tradizione perché “… anche mettere una offerta votiva ai Santi in un canestro è un modo pagano“. Don Giuseppe mi ha ribattuto: “E’ vero, però così sembra che l’offerta vada al comitato e non ai Santi.  “Avete ragione, don Giuseppe, ma io sono troppo legato alle tradizioni per cui  non posso accettare questa vostra proposta, non me ne vogliate…”.

Non ci fu rancore tra noi. In quell’anno, 1979, non ci furono cambiamenti.

Io cominciai a divulgare tra la gente quali erano gli intendimenti del parroco. Ci fu un po’ di riluttanza e contrarietà, senza, però, contestazione. Ma cominciammo a prendere coscienza dei desideri di don Giuseppe che, dopo qualche anno, furono esauditi e accettati da tutti sebbene con un po’ di malincuore…  come in ogni innovazione che sia condivisa o no!

 La parrocchia  di Brattirò è consacrata a San Pietro Apostolo che ne è il Patrono, non ai SS. Medici. Costoro sono due Santi orientali, lontani nel tempo, nativi della lontana odierna Turchia, e non sono certo pilastri della Chiesa dell’importanza di San Pietro o San Paolo.

Don Giuseppe comprese subito l’importanza di questo culto per noi brattiroesi. Un culto forte da sempre radicato in noi tutti, e nei confronti del quale nessun cittadino di Brattirò è mai indietreggiato di fronte a nessun ostacolo. E nessuno ci poteva, ci può, e ci auguriamo, ci potrà mai togliere o di sminuire: lo testimonia la nostra ferma, determinata e granitica compattezza che rasenta la testardaggine.

Nei primi anni del suo ministero sacerdotale a Brattirò, don Giuseppe, più volte, mi chiese se sapevo dare una motivazione di tanta fede nei confronti di due Santi orientali, così lontani nel tempo e poco conosciuti.

Un rito che si ripete da sempre, a memoria d’uomo, e che ha conservato intatto il forte spirito di devozione che la nostra comunità sente dal profondo del cuore.

La celebrazione di una festa dove il sentimento religioso diventa anche espressione culturale di una intera comunità.

Io gli feci, da subito, capire che questo culto per noi aveva un significato particolare. Noi brattiroesi, per undici mesi e mezzo, siamo persone normali come tutti gli altri, ma per quindici giorni l’anno siamo diversi dagli altri perché abbiamo radicato nel nostro animo, nelle nostre famiglie, una venerazione verso i SS. Medici talmente forte, profonda e sentita che rasenta quasi il fanatismo. Perché tutto ciò?  Perché è un culto che ci accomuna, che ci unisce, che ci rende compatti. Tutto questo per diversi motivi: A ) Unisce le nostre famiglie. Infatti chi è lontano da casa per motivi di studio, di lavoro, ecc. ecc. se può, ritorna al paese, presso i propri familiari più che a Natale o a Pasqua. Quindi è un culto radicato in noi che compatta le nostre famiglie. B ) Unisce noi cittadini facendoci dimenticare le diatribe e i dissapori, sociali, politici, ecc, ecc  che possiamo avere; ci rende coesi contro ogni ostacolo. C ) Ci unisce agli emigrati.

Don Giuseppe, riguardo questa festività, apportò tante modifiche;

IL BANCO. Era e rimane tradizione che, nei giorni festivi del 25-26-27 settembre di ogni anno, nella chiesa si comprino immagini religiose e oggetti vari con l’effigie  dei SS. Cosma e Damiano per portare un ricordino, magari ad un ammalato. Questo avviene in tutte le chiese del mondo. In relazione a ciò, per evitare confusione e trambusto in chiesa, don Giuseppe ha voluto che nella navata laterale che chiamiamo oratorio e che è “consacrata” ai Santi Cosma e Damiano, fosse creato uno spazio appartato e chiuso.

IL MODO DI RACCOGLIERE FONDI PER LA FESTA.  Era usanza che i componenti del comitato, ogni anno, andassero per le case del paese con un quaderno dove segnare l’offerta che quella famiglia dava per i festeggiamenti (la nota del paese). In questo modo tutti “conoscevano” le offerte di tutti e tutti, coscienti di questo, per evitare brutte figure, spesso, offrivano più di quanto le loro possibilità economiche permettessero, magari risparmiando su altre spese.

Non era un modo né un metodo corretto chiedere denaro in quel modo: sembrava quasi come una “costrizione” e non come una  “offerta”.

Fu deciso, in una pubblica riunione di popolo fatta in chiesa e avallata da don Giuseppe, di consegnare ad ogni famiglia una busta vidimata col timbro della parrocchia in cui ognuno metteva la propria offerta. Era anche un modo legale e incontestabile.

SPOSTAMENTO, SUL SAGRATO, DELLA MESSA CANTATA. La chiesa di Brattirò non è molto grande e certamente non sufficientemente capiente per contenere tutti i fedeli che il 27 settembre di ogni anno assistono alla Santa Messa cantata prima della processione per le vie del paese.

Questa cerimonia fu sempre fatta sul sagrato, nel lato sinistro della chiesa. Le statue dei Santi venivano posizionate in un angolo della piazzetta, tenute sulle spalle a turno dai fedeli e il prete officiante celebrava dal balcone della casa di Costa Francesco (Ciccu i Rosa)  al n° civico 131 dove veniva preparato un piccolo altare.

Don Giuseppe fece spostare la cerimonia, sempre sul sagrato, ma nel lato destro, in Piazza Duomo, più grande e più capiente, celebrando la messa da un palco, appositamente costruito, in un angolo della piazza. Ovviamente ci furono malumori, specie tra coloro che abitavano nelle case del lato sinistro del sagrato, ma il cambiamento fu attuato lo stesso.

RITO DELLA INCUBATIO NOTTURNA. Presso gli antichi la “Incubatio” era una pratica divinatoria e in particolare era caratteristica del culto di divinità guaritrici come, per esempio, Asclepio, che era il dio della medicina presso i greci e a Roma fu venerato con il nome di Esculapio. Il postulante, dopo cerimonie preliminari, si poneva a dormire nel santuario per avere in sogno dalla divinità i consigli e le indicazioni richiesti. Nell’antichità, in tutti i santuari dedicati al culto dei Santi Cosma e Damiano si praticava il rito della “Incubatio notturna“. I fedeli passavano la notte in chiesa e, dopo avere pregato molto, si addormentavano. Durante il sonno, i Santi Medici posavano le  mani taumaturgiche sul loro corpo malato per operare guarigioni miracolose.

Io ho proposto a don Giuseppe di fare, in merito a ciò, almeno una veglia di preghiera di qualche ora in chiesa, qualche sera, durante i giorni della festa. Ciò fu fatto la sera del 25 settembre del 2009 e devo dire che è stata molto partecipata. Era presente anche un sacerdote nero del Burundi, don Lambert Niciteretse, che veniva, da alcuni anni, in estate, per un mese, a Brattirò. Abitava nella casa canonica.  E’ nata una amicizia con la mia famiglia dove è considerato non un ospite ma uno di noi! Sostituiva don Giuseppe nei riti e nelle funzioni religiose e spesso ha celebrato la messa nella chiesetta di campagna in località “Manna”. Ha appreso con costernazione e profonda tristezza  la notizia della morte  di don Giuseppe, il quale lo ha aiutato tanto durante gli anni di studi di Teologia a Roma.

Don Giuseppe si trovò tra due realtà tra di loro non contrapposte, ma certamente diverse negli intenti e negli interessi che perseguono. Da una parte i suoi parrocchiani compatti, uniti e determinati a volere che si  svolgessero  i festeggiamenti in onore dei Santi Medici per come si conveniva da sempre, anche in tempi tristi e di carestia, e dall’altro lato la Curia che, giustamente, voleva che ci fosse parsimonia e oculatezza nel contenimento delle spese.

Quando s.e. monsignor Luigi Renzo, convocò i preti della diocesi per illustrare le nuove disposizioni in materia di festeggiamenti religiosi nelle parrocchie, tutti i sacerdoti recepirono le nuove indicazioni  in silenzio, ma don Giuseppe si rivolse al vescovo e disse: “Eminenza, è giusto che ci sia  moderazione e una contenuta misura nello spendere, sono personalmente d’accordo su ciò, ma non vi posso promettere che nel mio paese, a Brattirò, si possa  “rientrare“ nel contenimento delle spese nella valutazione, giusta, da voi proposta. A Brattirò penso che dobbiamo, certamente con oculatezza, sforare il tetto di spesa da voi proposto perché quella in commemorazione dei SS. Martiri Cosma e Damiano è una grande festa di pellegrinaggio che richiama fedeli e pellegrini dal circondario e oltre, e io non posso porre freni più di tanto perché è molto sentita dai tutti i miei parrocchiani, che sono morbosamente devoti ai SS. Medici e poi perché sono persone coscienziose, legalmente pulite e responsabili, cristiani praticanti che conoscono bene l’importanza, radicata e atavica, della festività e sanno bene come svolgerla, coscienziosamente e responsabilmente”.

Tornando alla presentazione del mio libro, quel 7 giugno 2008 don Giuseppe fece una relazione eccezionale e indimenticabile che ha coinvolto il numeroso pubblico presente.

Ha osannato e parlato di “una ricerca improntata di eventi storici” della “fede di poche donne cristiane di oggi paragonabile a quella di Teodora, la madre dei Santi Medici “e “la fede dei cristiani di oggi rassomiglia a quella dei Santi Medici ” e  ha ribadito “il sangue dei martiri è seme“.

Mi fece un ringraziamento particolare e sentito per avere “scritto un’opera basilare per fare conoscere come è arrivato nel nostro paese il culto dei SS. Medici e per capire perché tanto calore abbiano i brattiroesi verso il culto dei Santi Cosma e Damiano, culto che rasenta il fanatismo”.

Aggiunse di essere “rimasto colpito nel cuore per la stupenda dedica” (A don Giuseppe, parroco curatore delle nostre anime, con riconoscenza)  che gli ho scritto sul frontespizio del libro che gli omaggiai e che “non dimenticherò mai e lo porterò sempre nel mio cuore e nei miei ricordi“.

Riportiamo una testimonianza scritta da don Giuseppe il 26 settembre 2000 ad un giornale (Il Quotidiano) in merito alla festa dei Santi Cosma e Damiano.

L’Essenza religiosa della Festa.

Brattirò – La festività dei Santissimi medici Cosma e Damiano, è una di quelle feste che il popolo ha sempre celebrato con sentimenti di genuina religiosità e creatività. Sappiamo che la festa è un bisogno dell’uomo, e sappiamo anche che l’avvento del cristianesimo ha dato risposte definitive a questo bisogno, allorquando, nella vita ordinaria di ogni persona, si è compiuta l’irruzione straordinaria di un Dio fatto uomo.

I Padri della Chiesa avevano colto bene questo bisogno e di fronte ai ripetitivi rituali pagani ricordavano che “ per il cristiano è festa tutti i giorni“.

Questa espressione ci sollecita in occasione della festa dei Santissimi medici, a fare qualche considerazione:- innanzi tutto occorre riscoprire l’essenza della festa religiosa che deve essere vissuta con gioia interiore, perché non c’è festa senza gioia. Ma la sorgente della gioia e della festa dei cristiani è una persona: Gesù Cristo, inviato dal padre e datore dello Spirito Santo.

La festa cristiana va riscoperta nel nome della libertà e della gratuità, che ci rendono capaci di trasmettere la pienezza perenne dei doni che continuano a meravigliarci e che ci fanno sentire vivi nello spenderli per gli altri.

Ma perché questo avvenga è necessario sentirsi evangelizzati per ritrovare la forza della testimonianza, cioè la gioia del dirsi cristiani a parole e con i fatti. Una festa religiosa popolare quale può essere quella dei Santissimi Medici Cosma e Damiano e che richiama in questo piccolo paese numerosi pellegrini deve sollecitarci a capire che al di la di ogni culto tradizionale, di ogni bella manifestazione di pietà c’è da celebrare nel quotidiano la festa del Cristo risorto come incontro con gli altri, con sé stessi e con Dio come tempo per “ sentire “ e “ vedere “ le cose vere e  buone.

Soprattutto in questo anno giubilare la festività dei Santissimi Medici sia una occasione per riscoprire la persona di Gesù Cristo che ci cammina a fianco e che condivide la nostra esistenza quotidiana, per farci sperimentare la pienezza della vera liberazione e della gioia e sentirci impegnati nello sforzo comune di dare alla Chiesa un volto nuovo, che è quello della comunione e della fraternità

 

                  Don Giuseppe Furchì  parroco di Brattirò.

 

  • UN DELINQUENTE     IN     CHIESA

Il 31 dicembre 2009, verso le ore 15, andai in chiesa. Lo faccio spesso per cercare momenti di preghiera, di concentrazione dello spirito, di meditazione e di raccoglimento, in orari in cui la chiesa è deserta.

Quell’ultimo giorno dell’anno che finiva, ero, coma al solito, a ringraziare e pregare, solo, davanti all’altare dei SS. Medici Cosma e Damiano, nella navata laterale della chiesa madre.

Mi fermai con la macchina sul sagrato, volsi un rapido sguardo panoramico e non vidi nessuno per strada o alle finestre. Si scorgeva solo il fumo che saliva dai camini delle case dovuto ai caminetti accesi e alle stufe a legna in quella giornata fredda e grigia che minacciava l’arrivo della pioggia.

Ero a mio agio, in chiesa, quasi estasiato perché c’era un silenzio assoluto e questo conciliava il mio raccoglimento e la concentrazione dello spirito che fanno dimenticare il mondo che ti circonda.

Mentre stavo assorto, udii un rumore di passi che, lentamente, e con circospezione, si faceva sempre più vicino e proveniva dalla navata centrale che porta verso l’altare maggiore. Feci un lieve movimento del capo verso sinistra.

La navata laterale, dove mi trovavo, che chiamiamo oratorio, è separata, da quella centrale, da una parete nella quale ci sono due grandi arcate che possono essere chiusi da due cancelli. Quei cancelli, come quasi sempre, erano aperti, anche perché il portone esterno di accesso alla navata dove c’è la cappella dei SS. Medici rimane quasi sempre chiuso, per cui vi si entra attraverso il portone principale della chiesa varcando i cancelli.

Scorsi la sagoma di una persona che avanzava, molto lentamente, verso l’altare maggiore e procedeva con passi leggeri poggiando i piedi per terra con la punta della scarpa quasi dondolando in questo suo incedere.

Era un rumeno che conoscevo di vista. Si diceva che avesse rubato o tentato, in diverse chiese del circondario, di rubare il contenuto delle cassette delle offerte. Si sapeva che minacciava con un coltello intimando di dargli soldi.

Appena lo scorsi, lo conobbi e sapevo che altre volte aveva chiesto dei soldi a don Giuseppe e da costui li aveva ottenuti. Sono confidenze che mi aveva fatto lo stesso don Giuseppe. Certo era un poco di buono. Meglio stare alla larga.

Guardandolo con la coda dell’occhio, di soppiatto, per non farmi scorgere, notai che teneva nella mano destra un coltello. Sembrava calmo e quel coltello, con la lama che luccicava, non lo brandiva ma lo teneva stretto nel pugno della mano appoggiata sul petto.

Mi sforzai di stare calmo. Tanti pensieri mi attraversarono la mente; certamente non avrei tentato una fuga in preda al panico, e, se mi avesse chiesto dei soldi, glieli avrei dati.

Ho notato che lui mi vide e cambiò percorso: dalla navata centrale passò a quella laterale dove io ero seduto su un banco e stavo apparentemente assorto. Certo ebbi paura. Istintivamente mi alzai e passai nella navata centrale procedendo lentamente senza dare l’impressione della fuga, ne ostentando panico. Ci sono due cancelli, aperti, attraverso cui si accede dalla navata laterale che chiamiamo oratorio a quella centrale e viceversa. Io varcai quello a nord, mentre il rumeno, anziché venirmi dietro, tornò indietro e varcò quello a sud, da cui era entrato nell’oratorio, e cominciò a dirigersi, nella navata centrale, verso l’altare maggiore, a distanza di pochi metri da me. Io guardai verso l’altare maggiore e mi feci il segno della croce, forse implorando qualche aiuto divino.

A questo punto scorsi, nascosto in un angolo davanti alla porta della sacrestia, don Giuseppe che sporse la testa per vedere. Era seduto dietro un inginocchiatoio, intento a leggere il suo breviario.

Non sapevo che don Giuseppe fosse li. Ma appena lo vidi mi feci coraggio e mi avvicinai, senza accelerare il passo, con prudenza; mi sforzai di mantenere una certa, forzata indifferenza che nascondeva la paura.

Arrivai al cospetto di don Giuseppe, che si alzò e mi si avvicinò: ci siamo ritrovati l’uno di fronte all’altro davanti all’altare maggiore. Nei nostri volti leggevamo tensione, ansia e paura. Ci siamo detti sottovoce: “ Se ci chiede soldi glieli diamo purché se ne vada“.

Quell’uomo si avvicinava lentamente  con apparente calma e senza scomporsi e teneva appoggiato sul petto il coltello la cui lama gli lambiva il mento. Guardava verso la navata laterale per sincerarsi che non ci fossero altre persone.

Arrivò a pochi passi da noi e in quel momento udimmo il rumore della porta interna, quella vicina al portone d’ingresso, che si apriva. Evidentemente quell’uomo non l’aveva chiusa bene e il vento l’aveva mossa.

Ciò fu provvidenziale: l’uomo, forse preso da paura, udendo quel rumore fece due passi indietro e si diresse verso l’uscita nascondendo, nella tasca del giubbotto quel coltello che teneva nella mano destra.

Ci siamo guardati con don Giuseppe leggendo, ognuno sul volto dell’altro, una certa  soddisfazione per lo scampato pericolo, e senza proferire parole ci siamo diretti verso l’uscita.

Sul sagrato abbiamo guardato attorno, ma di quell’uomo non c’era traccia. Si era dileguato.

Intanto, il cielo si era fatto più scuro e cominciava a piovere. Dissi: “Don Giuseppe io vado a casa, voi andatevene a Gasponi “.  “Si“, mi rispose, “vado un minuto alla casa canonica per prendere alcune cose e poi me ne vado anch’io a casa. Dottore, penso che i Santi Medici hanno soffiato sulla porta perché quell’energumeno se ne andasse”

  • LA MALATTIA

Domenica 27 febbraio 2011, era una giornata soleggiata ma fredda. Stavo seduto al caminetto in attesa di uscire perché c’era un funerale alle ore 15. Sentii suonare alla porta, aprii e mi trovai di fronte don Giuseppe. “Come state dottore?”, “Entrate don Giuseppe, io bene e voi?”. “Anch’io… veramente non tanto bene, per l’appunto sono venuto a scambiare due parole con voi, prima della cerimonia funebre, fra un’oretta”.

Ci sedemmo davanti al camino, gli offrii il caffè. “No grazie, l’ho preso prima di uscire, sapete che non prendo niente di mia abitudine, ma specialmente adesso… (e si passò le mani sulla pancia, facendo una lieve smorfia), ho un doloretto qui, nella pancia. Sono venuto a dirvi che domani mi ricovero, e, vorrei un vostro consiglio, anzi un vostro parere, considerato che il ricovero per domani è già programmato”. Io lo guardavo con circospezione, senza farmi accorgere più di tanto, e notai che era un po’ pallido con gli occhi incavati, le gote retratte e alquanto dimagrito in volto…mi assalirono brutti presentimenti ma mi mantenni sereno e don Giuseppe, con un sorrisetto, come era solito perché non amava esternare dolori e/o preoccupazioni mi disse: “Vedete, dottore, da un po’ di tempo stavo poco bene, ho fatto qualche accertamento e il professore Miceli che ho consultato mi ha consigliato un ricovero per un piccolo intervento”.

Cominciai ad essere cosciente che il problema era serio. “Don Giuseppe, ma perché non mi avete detto nulla? Voi per ogni malessere anche piccolo mi consultavate, anche se dopo giorni di sofferenza e di patimenti, ma di questo vostro attuale stato di salute non ne ero assolutamente a conoscenza”. “Avete ragione, ma siccome siete da oltre un anno in pensione, non ho voluto disturbarvi ne tediarvi”. “Avete fatto male perché io con piacere vi avrei seguito e dato, professionalmente e tempestivamente, le indicazioni necessarie”. “Non me ne vogliate, voi dottore avete ragione, ma sapete come sono fatto io”. “Non vi fate un problema, la cosa non sarebbe cambiata più di tanto” gli replicai.

Mi chiese: “Ora sono venuto da voi per avere conferma se l’ospedale di Vibo è idoneo per questo intervento”.  “Certamente, don Giuseppe, e poi le capacità del chirurgo, il dottore Francesco Miceli e della sua equipe, non si discutono, io stesso anni fa mi sono fatto operare da lui e l’anno scorso ho fatto operare mio figlio”. “Si, lo so, ma voi dite che mi mette la borsa?”. Era la conferma che don Giuseppe aveva coscienza della malattia di cui soffriva. Replicai: “State tranquillo, si possono fare due tipi di intervento: uno termino-terminale, significa che viene asportato il tratto di intestino malato e i due monconi vengono uniti; se ciò non è possibile farlo, allora viene tolta la parte malata e l’intestino viene collegato all’esterno creando la “borsa”, in attesa, dopo qualche mese, di eliminarla e ricongiungere i due monconi intestinali. Ma la “borsa”, ammesso che necessiti farla, non deve costituire un problema più di tanto; ci sono state persone che l’hanno portata per mesi e che voi conoscete”.  Gli citai una persona di Brattirò che ho dovuto faticare a convincerlo per far si che portasse all’altare la figlia per il matrimonio (evento successo anni addietro) e un‘altra persona di Tropea, tutti e due ben noti e poi: “Anche Lui (e gli indicai una fotografia che teniamo incorniciata di Papa Giovanni Paolo II) ha patito la stessa esperienza dopo che gli sparò, in Piazza san Pietro, Alì Agca”. “Pure il Santo Padre?”,

“Si, pure Lui”. Improvvisamente, don Giuseppe divenne meno teso e fu più sereno, quasi gioioso di poter patire le stesse sofferenze del Papa. Poi aggiunse: “Domani mattina mi ricovero e mercoledì sarò operato. Verrete a trovarmi?”, “Certamente, don Giuseppe, ci vediamo in ospedale, andate tranquillo”. “Si , sono tranquillo. Non venite a trovarmi il giorno dell’operazione perché certamente sarò intontito e non vi potrò nemmeno dare ascolto e confidenza”. “Non vi preoccupate, verrò il giorno dopo, andate sereno”.  “Si, sono sereno perché sono nelle mani del Signore e mi affido alla Madonna. Dottore approfitto per farvi un ringraziamento per l’attività professionale svolta al servizio di tutti, e un grazie mio personale per avere amorevolmente curato e assistito i miei genitori, soprattutto mia madre, affetta da grave e pietosa malattia (e proferendo queste parole ci siamo guardati negli occhi esternandoci particolari e pietosi ricordi) e me: non posso dimenticare che due volte che sono stato male mi avete accompagnato all’ospedale di Vibo per essere operato, una volta d’urgenza, e poi mi venivate spesso a trovare per consolarmi così come avete sempre fatto con gli altri pazienti”.

Rimasi attonito; col senno di poi l’ho recepito come un presentimento o forse… un testamento!

Ci siamo fatti un cenno di saluto, inutile nasconderlo, velato di tristezza e preoccupazione.

Quindi è andato a celebrare quel funerale, e io lo segui poco dopo. Alla fine della celebrazione della messa funebre, in una chiesa gremita fin sul sagrato, don Giuseppe, dal pulpito, disse ai fedeli: “ Mi assenterò per pochi giorni, verrà un altro sacerdote per le funzioni”.

Ma il nostro amato parroco ci mentì! Si assentò per sempre!

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