Libro don Giuseppe Furchì – cap. 8-9-10-11

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Don Giuseppe Furchì

Omaggio a don Giuseppe a dieci anni dalla morte.

Capitoli 4-5-6-7 del libro:

“Don Giuseppe Furchì: il suo cammino terreno” di Pasquale Vallone

(Thoth Edizioni di Mario Vallone -2012)

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  • SACERDOTE ERRANTE

Arrivato al sacerdozio, don Giuseppe iniziò il suo cammino in varie parrocchie, distanti tra di loro. Come la gran parte dei professionisti (insegnanti, medici) che quasi sempre iniziano la loro attività professionale lontano dal proprio paese d’origine, così don Giuseppe iniziò il suo ministero sacerdotale lontano dal luogo natio, dai propri familiari, dai suoi amici…  ma tra il “suo popolo”, perché dovunque andò e portò la parola del Vangelo e il Verbo di Cristo, fu amato e rimpianto.

Iniziò il suo peregrinare sacerdotale ad Amato, piccolo centro vicino Catanzaro, in aiuto di un prete anziano e malato. Qui rimase qualche mese e poi fu mandato a Platania, nel Nicastrese, sempre in provincia di Catanzaro.

A Platania fu chiamato in aiuto di un altro prete, anziano e malfermo, col quale compartecipava ai riti e alle funzioni religiose.

Dopo fu inviato parroco a Miglierina, in provincia di Catanzaro, dove  rimase dal 1967 al 1973. In quella parrocchia è ricordato come “L’uomo che venne dal passato, mandato dal Signore per proiettarci nel futuro”. Sono parole molto forti e significative che abbracciano e racchiudono tutto l’operato sacerdotale del giovane parroco don Giuseppe.

Può sembrare strano questo incarico perché Miglierina non rientra nella diocesi di MiletoTropeaNicotera che è la nostra diocesi, ma non era certo la regola, e non lo è tutt’ora, che un sacerdote debba svolgere il suo ministero  nell’ambito territoriale della propria diocesi.

Forse sarebbe opportuno che, specialmente in una parrocchia grande, i giovani sacerdoti potessero coadiuvare i preti più anziani, per una serie di motivi: aiutare i sacerdoti anziani nello svolgimento dei riti e delle funzioni religiose perché da soli, per acciacchi e/o per l’età, non ce l’avrebbero fatta (o magari ce l’avrebbero fatta con grande fatica e con forte dispendio di energie) e, contemporaneamente, dare la possibilità al giovane sacerdote di acquisire esperienza.

Invece il giovane don Giuseppe fu incaricato di reggere, da solo, una parrocchia grande. Egli la sentì e interpretò come una chiamata del Signore: obbedì e accettò, senza chiedere consigli e/o ascoltare suggerimenti che in una tale situazione possono arrivare,  anche se non richiesti.

Partì con gioia e tanto entusiasmo per la  “sua parrocchia che la Provvidenza “ gli aveva assegnato.

Per la Chiesa erano anni un poco difficili. Venivano attuate le innovazioni dettate dal Concilio Vaticano II e si sa, le novità difficilmente attecchiscono subito, ciò avviene col tempo e nel tempo. E poi, nel sociale, si andavano affermando e facevano presa sulla gente, i partiti di sinistra che non erano certo mangia-preti…ma nemmeno il contrario…

Essere di sinistra significava, per la gran parte, frequentare poco la chiesa e ancor meno i sacramenti…  niente di più sbagliato, ma quei tempi dettavano questo tipo di comportamento.

Apportò e sostenne le innovazioni gradatamente e non in modo traumatico né impositivo, ma come una necessità di cambiamento, nella Chiesa, e di modifica delle vecchie consuetudini e tradizioni, nonché dei vecchi metodi. Però ci si doveva adeguare al rinnovamento perché quelle erano le nuove regole dettate dai Padri della Chiesa.

Don Giuseppe affrontò questo suo impegno sacerdotale con ardore, con umiltà, con amore e con quella carità cristiana che sempre lo contraddistinse: lo sentì come una missione…e raccolse subito i suoi agognati frutti.

Tutti i parrocchiani, di qualsiasi età e ceto sociale, seguirono i suoi precetti.  Divenne il prete di tutti per la sua semplicità e per la sua grande disponibilità: doti che lo accompagnarono per tutta la vita.

Organizzava con i giovani scampagnate in allegria. Partivano con la colazione al sacco  e passavano una giornata a contatto con la Natura, cantando e ballando. La compagnia guidata da don Giuseppe era composta da ragazzi di tutte le età,  e li accomunava uno spirito allegro e associativo che li fraternizzava.

Spesso,  mentre camminava per le strade di Miglierina,  tante persone gli si avvicinavano per fare, con lui, una foto ricordo.

Quando gli fu assegnata la parrocchia di Brattirò, sebbene a malincuore, accettò. Mi raccontava che lo fece un po’ malvolentieri perché avrebbe dovuto lasciare una comunità che lo aveva accolto con affetto e che lui aveva amato come un padre ama la propria famiglia.

Recita un aforisma: il primo amore non si scorda mai!

Don Giuseppe rimase sempre legato alla comunità di Miglierina e, negli anni  successivi,  creò una forma di pellegrinaggio tra i “suoi“ nuovi parrocchiani di Brattirò e i  “suoi“ vecchi parrocchiani di Miglierina. Organizzò  gite vissute in reciproca, piacevole, armonia e allegria.

Alla sua morte, grande fu la delegazione di Miglierina, con la partecipazione di autorità religiose e civili che accompagnarono le tante decine di parrocchiani,  presenziarono ai funerali del “Nostro amato parroco “ stringendosi assieme a noi in un sentito dolore.

Successivamente, fu mandato nella vicina Ciaramiti (1975 – 1985), parrocchia di San Paolo, nel comune di Ricadi, dopo la morte di don Onofrio Godano (Abati Nofriu).  L’Abati Nofriu aveva prima una moto  e poi un “maggiolino”. Non era spericolato ma solo un poco inesperto dei mezzi di locomozione ed ebbe molti incidenti, sebbene di poco conto. Lo chiamavano “acciana sinteri”  perché in quelle strade,  poco e male asfaltate, finiva spesso col ritrovarsi, con il suo mezzo,  su un sentiero. Una volta ho avuto l’occasione di soccorrerlo dopo uno di questi incidenti e, mentre gli suturavo una ferita alla gamba, mi diceva: “ dottore, minati puru cu ‘ssi punti ca io non sentu duluri!” Ciaramiti è un paesino molto piccolo, ma all’epoca era più popoloso, poi ci fu l’emigrazione nel nord Italia e all’estero. I parrocchiani avevano inventato un ritornello, quando il parroco era l’ Abati Nofriu che così ripeteva: “Si non è oggi, sarà dumani, vidiri tutti i previti, e abbati Nofriu ca ‘zzappa e mani”.  Non vogliamo far credere che il paese fosse ostile ai preti, perché così non era, tuttavia era fuori di dubbio che  bisognava avere un certo carisma per fare presa su quei parrocchiani un po’ lontani dalla Chiesa forse più per noncuranza, per ingiustificata e immotivata indifferenza che per mancanza di fede. Don Giuseppe capì che bisognava adoperarsi e impegnarsi con tutte le proprie forze per fare comprendere, a quei parrocchiani, l’importanza e l’essenza della dottrina e della  fede cristiana, e questo bisognava farlo più con le azioni che con le prediche. Pertanto, cominciò a raccogliere i pochi bambini del paese nella chiesetta consacrata a San Paolo per impartire loro le nozioni di catechismo. Andava a fare visita alle persone anziane e malate nella loro casa, durante il giorno, quando erano lasciate sole dai familiari che dovevano recarsi in campagna per lavorare. I parrocchiani erano contadini e braccianti,  e don Giuseppe celebrava i riti e le funzioni religiose ad orari consoni alle loro esigenze. Tutte le mattine, presto, c’era la celebrazione della Santa Messa e a sera, tardi, il Vespro. La domenica e i giorni festivi, il suono delle campane annunciava, alle 10, la celebrazione della Santa Messa cantata cui partecipavano anche i parrocchiani che vivevano nelle campagne e anche gente che veniva dai paesi vicini (Santa Domenica, Brattirò). Molto  partecipata era la novena del Santo Patrono, San Paolo, uno dei pilastri della Chiesa e anche la celebrazione della festa civile e religiosa con la processione fino alla località”pantano”, distante dal paese e quasi a metà strada con le prime case di Brattirò (località “marchicello”, “manna”).  In definitiva, don Giuseppe, riuscì ad avvicinare i parrocchiani di Ciaramiti alla Chiesa e ai Sacramenti, lasciando un ricordo incancellabile in quella gente, buona, semplice, laboriosa e profondamente cristiana.

Negli ultimi anni, don Giuseppe ha creato una specie di pellegrinaggio tra San Pietro e San Paolo, pilastri della Chiesa, e quindi tra i parrocchiani di Brattirò e di Ciaramiti. Da Brattirò si è portata in processione la statua del patrono, San Pietro, fino alla località “Pantano”. Da Ciaramiti si è fatto altrettanto con la statua del patrono, San Paolo. Nel punto di “incontro” in località ”Pantano” si è fatto costruire, lungo la strada che collega Brattirò a Ciaramiti, una piccola e bella nicchia ove sono state messe le statuine dei due santi. In quel punto, dalle due comunità parrocchiane,  è stata intonata una litania (forma di preghiera collettiva costituita da invocazioni  o acclamazioni a Dio, alla Madonna, ai Santi, ciascuna seguita da una breve risposta impetrativa) di ringraziamento al suono di una banda e poi, tra il tripudio di tutti, sono state riportate le statue di San Pietro e di San Paolo nelle rispettive chiese.

Si evidenzia che, nel suo peregrinare,  don Giuseppe esercitò il sacerdozio in parrocchie e diocesi diverse.

La parrocchia (dal greco paroikia: vicinato) è una circoscrizione territoriale ecclesiastica che comprende una chiesa e un dato numero di fedeli alle cure di un parroco.

La costituzione di una parrocchia, sempre decisa dal vescovo competente, è subordinata al riconoscimento da parte dello Stato.

La Diocesi (dal greco dioikesis: governo, amministrazione) è una circoscrizione territoriale retta da un vescovo coordinato da un vicario generale. Al vescovo spetta stabilire e ordinare le parrocchie in tutto il territorio di sua competenza.

Storicamente, la diocesi fu una conseguenza della istituzione della Chiesa come società visibile sotto l’autorità degli apostoli. Col diffondersi del Cristianesimo, dovunque, nel territorio e specialmente nelle campagne, si finì per dipendere religiosamente dal vescovo della città più vicina.

Più diocesi, fra loro confinanti, di un vasto territorio costituiscono una provincia ecclesiastica presieduta dal vescovo della diocesi più antica chiamato metropolita o arcivescovo che possiede poteri di coordinamento tra le medesime.

La formazione di nuove diocesi o i mutamenti territoriali di esse sono di competenza della Sacra congregazione dei vescovi.

Categoria a sé è quella delle diocesi suburbicarie (Albano, Palestrina, Frascati, Ostia, Velletri, ecc.) rette da cardinali vescovi titolari, in rapporto diretto con il Vescovo di Roma.

Dopo il Concilio Vaticano II, si affermarono due organi diocesani elettivi con funzioni consultive: il consiglio presbiteriale e il consiglio pastorale.

  • PARROCO A     BRATTIRO’

Don Pasquale Bagnato, parroco di Brattirò, si spense l’8 gennaio 1975, presso l’Ospedale Nefrologico di Reggio Calabria.

Da circa un anno, la sua salute era malferma e veniva spesso sostituito e/o affiancato, nel suo ministero sacerdotale, da un giovane prete di Tropea, tale don Giuseppe Furchì. Era costui un tipo gioviale, giovane, magrolino che sprizzava entusiasmo, e da tutti i parrocchiani fu accolto con una grande simpatia, come un segno del destino!

Eravamo molto legati a don Pasquale Bagnato, “L’Abati Pascali”, che era il parroco di Brattirò da circa 35 anni.

La sua salma, portata da Reggio Calabria in corteo funebre, fu composta e vegliata in chiesa dai parrocchiani. I funerali furono celebrati dal giovane don Giuseppe assieme a tanti altri preti.

Don Giuseppe continuò a salire da Tropea, tutti i giorni, per le funzioni e i riti religiosi.

Poco più di un mese era passato dalla scomparsa di don Pasquale Bagnato, e il vescovo nominò parroco di Brattirò don Giuseppe Furchì.

Riportiamo la Bolla di Nomina:

           

 

BOLLA   DI   NOMINA

VINCENZO  DE  CHIARA  VESCOVO  DI  MILETO  NICOTERA  E  TROPEA

Al Molto Reverendo Sacerdote don Giuseppe Furchì di Francesco a Noi figlio diletto, già parroco di San Paolo in Ciaramiti, eletto ora Parroco della Chiesa Parrocchiale di San Pietro in Brattirò salute e benedizione nel Signore.

Essendo rimasto vacante il beneficio parrocchiale sotto il titolo di San Pietro Apostolo in Brattirò per la morte dell’ultimo titolare don Pasquale Bagnato avvenuta il giorno 8 gennaio del corrente anno, lasciando un vivo rimpianto per il suo zelo apostolico in questa comunità parrocchiale; ed essendo Noi vivamente desiderosi di provvedere di un idoneo parroco, affinché non subisca alcun danno la cura delle anime; ed essendo a NOI nota la condotta della tua vita e l’integrità dei tuoi costumi, la tua azione pastorale, nonché tutti gli altri requisiti, A TE, diletto figlio, conferiamo e assegnamo il suddetto beneficio con tutti i suoi beni, le sue rendite e anche i suoi oneri, osservando sempre salvi i diritti espressamente riservati a questa SEDE EPISCOPALE con l’obbligo della Residenza a norma del canone 465 del Codice di Diritto Canonico e di prestare ogni anno a NOI e ai NOSTRI SUCCESSORI la dovuta ubbidienza nel giorno stabilito dalla tradizionale consuetudine.

Dopo avere ricevuto il giuramento della PROFESSIONE di fede e quello di adempiere fedelmente il tuo ufficio e di conservare e di difendere i beni e i diritti ad esso inerenti; e sicuri della tua ubbidienza a Noi e ai Nostri Successori Ti conferiamo il reale e formale possesso del suddetto beneficio.

 

 Dalla Curia Episcopale di Tropea 10 febbraio 1975

 

                                + VINCENZO  DE  CHIARA

              Vescovo di Mileto Nicotera e Tropea

 

Il Cancelliere Vescovile

Tarantino Antonio  

  • IL MINISTERO       SACERDOTALE     A     BRATTIRO’

 “Quel giovane prete viene da Tropea, precisamente dal Campo, appartiene ai Casciola e ai Scarzi , è il fratello di chiju chi avia a latteria”.

Questo fu il primo dato e/o rilievo segnaletico e identificativo del nuovo parroco sulla bocca dei parrocchiani brattiroesi.

A Brattirò, don Giuseppe trovò un ambiente assolutamente non ostile, ma certamente ancorato alle cementate tradizioni, avallate e mantenute dal vecchio parroco don Pasquale Bagnato, specie negli adulti e negli anziani.

L’impatto, soprattutto coi giovani, fu all’inizio un po’ difficile. C’erano tantissimi studenti e molti universitari. Tutti avevano alle spalle la contestazione del ’68 che aveva traumatizzato il loro modo di essere e di pensare.

Don Giuseppe si trovò,  da un lato,  una popolazione intransigente e fortemente legata alle tradizioni e, dall’altro,  i giovani, a modo loro evoluti e imbevuti delle idee sessantottine.  Costoro avevano  un atteggiamento un poco distaccato: non erano ostili verso la Chiesa ma certamente in forte critica.

Durante una processione, vide due giovani appoggiati al muro di una casa che tranquillamente e beatamente fumavano una sigaretta e manifestavano distacco, disinteresse e noncuranza. Don Giuseppe fermò il corteo religioso, si avvicinò ai due e li apostrofò dicendo “Non mi interessa che non partecipiate alla processione, sono fatti vostri, ma vi chiedo di mantenere un certo contegno e rispetto verso la processione che stiamo facendo per cui vi invito a spegnere la sigaretta“. Quei giovani ubbidirono ma ovviamente ci rimasero male e si sentirono umiliati. Confidarono ad amici che avrebbero voluto accodarsi alla processione, ma non lo fecero “per lo scorno provato”.

Don Giuseppe seppe mantenere le tradizioni e colloquiare con i giovani senza imposizioni,  perché la gentilezza delle parole crea fiducia. Dialogò sempre con tutti dando esempio di umiltà e carità cristiana. Pertanto, da subito, i brattiroesi gli tributarono ammirazione, stima e affetto. Fu schivo da pettegolezzi e da commenti indiscreti e/o malevoli sulle faccende altrui.

Era una persona che si faceva i fatti suoi, non si intrometteva nelle faccende private e/o nei fatti pubblici. Legò con tutti i parrocchiani, di qualsiasi ceto, nel pieno e reciproco rispetto.

Credeva nella forza del dialogo ed era sempre disponibile all’ascolto. Di fronte a un problema di cui veniva investito e che poteva tranquillamente risolvere con l’autorità che gli competeva, preferiva trovare la soluzione comunitaria dialogando con tutti (per esempio nelle attività o nei consigli parrocchiali) e senza imporre il suo volere né il suo modo di vedere una questione. Si prodigò diverse volte a convocare,  in chiesa, assemblee di popolo per trattare argomenti su cui prendere decisioni unitarie.

Curò molto l’approccio coi bambini e coi giovani. Spiegava ai genitori l’importanza di mandare i loro bambini alla catechesi, non solo per avvicinarli sempre più alla Chiesa e al Signore, ma soprattutto per abituarli a socializzare al di fuori della scuola. Nominava e cambiava spesso nuovi catechisti.

 Il catechismo è il complesso degli elementi fondamentali di una dottrina. Dopo il Concilio Vaticano II,  non si pensò ad un catechismo universale, ma si adottò il metodo di attuare catechismi nazionali che rispondessero alle singole particolarità culturali.

In Italia, la CEI si adoperò a pubblicare il Catechismo per la vita cristiana (1970).

La Conferenza Episcopale Italiana (CEI) è l’organismo in cui i vescovi italiani esercitano congiuntamente il ministero pastorale. Ebbe il primo statuto e il primo presidente-cardinale nel 1959.

Il catechismo era obbligatorio per i bambini nell’anno di preparazione alla loro Prima Comunione.

Don Giuseppe fu molto vicino ai giovani,  che riusciva ad attirare con la sua gioia di vivere. Egli credeva fermamente nei giovani ai quali ha inculcato alcuni concetti basilari e fondamentali, due tra tutti: il perdono per un torto, per un’offesa ricevuta e l’amore per il prossimo.

 Caricava sulla sua macchina – utilitaria fino a 10 – 12 bambini e li portava a fare  scampagnate per passare un giorno in allegria e spensieratezza.

Organizzava con i ragazzi incontri di calcio abituandoli al rispetto dell’avversario, alla correttezza e alla lealtà. Non era importante vincere o perdere ma era essenziale e indispensabile rispettare l’avversario e/o il rivale, nel gioco come nella vita, e inculcava a tutti di curare, nella rivalità sportiva, il rispetto degli altri,  la lealtà e la sincerità. E alla fine della partita, l’arbitro don Giuseppe spesso comprava a tutti il gelato!

Con i giovani spesso giocava a “quattro e quattr’otto” : a turno uno doveva saltare sul corpo piegato di un altro poggiando le mani sui fianchi di questo come base di appoggio dopo una breve rincorsa. Una volta,  l’impatto fu forte e don Giuseppe avvertì un forte dolore alle costole. Fu necessaria una lastra ma non c’erano fratture.

Amava fare gite in bicicletta, di cui era un grande appassionato e lo si vedeva quasi tutti i giorni, in primavera ed estate, scarrozzare per le vie del paese, sulla sua bicicletta, sempre allegro. Trasmetteva a tutti l’entusiasmo gioioso del vero cristiano, spesso colorato e accompagnato da allegre e argute battute. Gli piaceva cantare coi giovani inni sacri e liturgici ma, anche e soprattutto, le canzoni più popolari.

Spesso mi faceva esternazioni, in segreto, su qualche giovane un poco irrispettoso; insieme passavamo in rassegna il loro ambiente familiare e le persone  frequentate. Poi decidevamo come comportarci per cercare di porvi rimedio: tante volte ci siamo riusciti, con reciproca grande gioia e soddisfazione.

Il suo cuore fu pieno di bontà verso i sofferenti e verso i bisognosi. Andava a trovare nella loro casa le persone anziane e allettate o impossibilitate a recarsi in chiesa e a loro portava l’Eucaristia. Spesso ci si incontrava a casa di qualche ammalato: io per curare il corpo e alleviare le sofferenze e lui per dare conforto.

Ogni anno,  nel mese di maggio,  portava la statuina della Madonna nelle case. Questa statuina rimaneva presso quella famiglia una intera giornata e l’indomani veniva passata nella casa successiva.  Al vespro vi si riunivano un gruppo di persone per recitare il Santo Rosario,  che è la preghiera in onore della Madonna. La recita completa del Rosario consiste in quindici decine di Ave Maria  e, ogni decina che comincia col Padre Nostro  e finisce col Gloria, si premette l’annuncio di un Mistero che è un episodio della vita della Vergine o di Cristo.

I misteri del Rosario sono quindici e si dividono in tre gruppi: Gaudiosi  (lunedì e giovedì): 1) Maria Santissima riceve l’annuncio della sua divina maternità, 2) Maria Santissima visita Santa Elisabetta, 3) Gesù nasce a Betlemme, 4) Gesù è presentato al Tempio e la Madonna viene purificata, 5) Gesù fanciullo disputa con i dottori del Tempio; Dolorosi (martedì e venerdì): 1) Gesù prega nel Getsemani, 2) Gesù è flagellato, 3) Gesù è coronato di spine, 4) Gesù caricato della croce sale il calvario, 5) Gesù muore in croce. Gloriosi (mercoledì, sabato e domenica): 1) Gesù risorge da morte, 2) Gesù sale in cielo, 3) Lo Spirito Santo discende su Maria Santissima e gli Apostoli, 4) Maria Santissima è assunta in  cielo, 5) Maria Santissima viene incoronata regina nella gloria del Paradiso.

Non si sa con precisione quando iniziò la pratica devozionale della recita del Rosario, ma si sa che furono i Domenicani a darne larga diffusione.

Papa Pio V, al secolo Michele Ghislieri, 220° papa (1566-1572), nel 1570,  riconobbe ufficialmente la pratica popolare della recita del Rosario e ne patrocinò la devozione in occasione della guerra contro i turchi. A ringraziamento della vittoria  dei Cristiani contro i Turchi, a Lepanto, (7 ottobre 1571) il Papa istituì la festa della Beata Maria Vergine della Vittoria che prese il nome di Festa del Santo Rosario (7 ottobre) che sarà estesa a tutta la Chiesa nel 1888 da Leone XIII, al secolo Gioacchino Pecci, 253° papa (1878-1903).

La sera di mercoledì della settimana santa, don Giuseppe celebrava una messa solo per gli uomini e tutti facevano la comunione. La chiesa, ogni anno, fu sempre piena con grande soddisfazione e appagamento di tutti.

Egli mantenne le tradizioni, salvo piccoli cambiamenti imposti dalla diocesi.

La tradizione è la trasmissione, da una generazione all’altra, di un qualsiasi elemento che riguarda il costume, gli usi, le abitudini, le consuetudini e  la cultura di un popolo.

Ma don Giuseppe fu anche un parroco innovativo e, pur condividendo le tradizioni e i valori socio- culturali della nostra parrocchia, ha dovuto conformarsi alla direttive della Diocesi e della Chiesa dopo il Concilio Vaticano II.

Dal 1985 fu pure parroco di Gasponi.

Dopo la morte dei genitori, dal 1990 andò ad abitare a Gasponi, in una stanzetta, presso l’abitazione del fratello più piccolo, Pasquale, e della di lui consorte, Di Bella Anna; qui trovò il giusto conforto della famiglia.

L’arredo della sua stanzetta era semplice, il minimo indispensabile, perché don Giuseppe non amava gli sfarzi, gli agi e le ricchezze, nemmeno per le cose personali. C’era un lettino, un guardaroba appena sufficiente per la sua biancheria, una piccola e semplice scrivania su cui poggiava un piccolo televisore, una statuina della Madonna e il Bambino Gesù. Io lo andavo a visitare quando aveva qualche acciacco e lo trovavo sempre nel suo lettino intento a leggere il breviario.

Il fratello Pasquale e la cognata Anna lo accudivano con le stesse premure e lo stesso affetto dei genitori. Con loro don Giuseppe divideva i pasti, poi se ne tornava nella sua stanzetta e, nella  propria intimità personale, stava  assorto nelle sue letture  e nella preghiera.

Anche dai parrocchiani di Gasponi fu accolto con gioia ed entusiasmo, amato e rispettato da tutti. Per i giovani si adoperò a creare un oratorio consacrato con il motto “Insieme per una nuova vita”. Rimase molto triste quando la piccola chiesa di Gasponi, nel 2008,  cominciò a cedere, si formarono crepe nelle mura e le autorità competenti ne decretarono la chiusura. Negli ultimi due anni di vita, fu costretto a celebrare i riti e le funzioni religiose in un piccolo edificio che, per necessità, doveva fungere da chiesa. Le autorità avviarono le procedure per la costruzione di una nuova chiesa, e, ironia della sorte, nell’omelia della sua messa funebre, il vescovo e il sindaco di Drapia annunciarono che le pratiche erano espletate dopo un iter piuttosto lungo, e si aspettava, imminente, di avere l’autorizzazione per l’inizio dei lavori.

Ma sono certo che don Giuseppe li ha ascoltati e ne ha gioito dall’alto dei Cieli.

Durante questi anni dello svolgimento del suo ministero sacerdotale, fu anche Assistente ecclesiastico degli Scout di Tropea.

Una domenica, si era nell’inverno del 2000, alle 10 si udirono le campane della chiesa di Caria suonare a festa. Era il sacerdote che chiamava i parrocchiani all’ascolto della Santa Messa. Ma non si trattava del parroco reggente perché c’era  dissidio e astio con  i parrocchiani e questo si era un po’ allontanato dalla parrocchia; a chiamare i parrocchiani era don Giuseppe, di sua iniziativa e senza chiedere l’autorizzazione del vescovo. Poi il vescovo ritenne opportuno allontanare da Caria il parroco, assegnandogli un’altra parrocchia della diocesi, e  mandò don Giuseppe il quale ha dovuto moltiplicare le sue forze per il tanto lavoro. Ma con  la volontà, l’umiltà,  la dedizione e la caparbietà, riuscì a far fronte, pienamente, al suo dovere sacerdotale.

Entrò subito nel cuore dei cariesi e ricevette tante manifestazioni di affetto e di stima. Ripristinò la casa parrocchiale che era in una condizione di semi-abbandono e ne fece il ritrovo per i giovani e con i giovani. A Caria, fu amministratore parrocchiale dal 2000 fino al 2006.

Tutti quei parrocchiani presenziarono ai funerali e furono molto addolorati della prematura dipartita.

  • l’ORTU DU     PREVITI

La casa canonica e l’ “ortu du previti“ annesso, sono stati, da sempre, per noi di Brattirò, un luogo di ritrovo e di ricreazione. Ci sono da oltre cento anni. La casa canonica era una casetta fatiscente, poi fu ampliata.

Don Ferdinando Rombolà, parroco di Brattirò dal 1902 al 1936, non abitò nella casa canonica ma nella casa della sorella Caterina, nella piazza principale del paese, al piano terra, all’angolo con l’attuale via Posta.

Alla sua morte gli successe il giovane sacerdote di Tropea, don Gaetano Cortese. Costui giunse nella parrocchia il 17 gennaio 1936. Il nuovo parroco, assieme alla madre, Anna, andò ad abitare in una casetta adiacente alla chiesa, nell’attuale piazza  Duomo, di proprietà della famiglia “Massaro“.

Ma dopo pochi mesi, don Cortese, fu mandato nella parrocchia di Falerna e al suo posto arrivò, il 23 agosto 1936, un altro giovane parroco: don Michele Loiacono.

A Brattirò, iniziò, dal 1936, quel periodo tristemente noto come “ a lotta di previti “ che si protrasse fino al 1939. Considerato il clima di avversione e di astio che si era creato,  il vescovo monsignor Felice Cribellati “obbligò“ il parroco, don Michele Loiacono, a dimorare nella casa canonica anziché viaggiare da Santa Domenica, dove abitava. Dopo vicissitudini intensamente e drammaticamente vissute in quel periodo durante “a lotta di previti“, arrivò, nel 1939, un nuovo parroco: don Pasquale Bagnato. Costui abitò, assieme alla madre Domenica (Donna Micia) e alla perpetua Mariarosa (Mararosa), nella casa canonica.

L’”ortu du previti” è stato, da sempre, sinonimo di luogo di incontro, di svago e di passatempo, tra giovani e meno giovani, che qui si trovavano per trascorrere insieme qualche ora in compagnia e in allegria.

Per orto si intende una superficie di terreno destinata alla coltivazione di piante erbacee commestibili, cioè gli ortaggi, associate talvolta ad alberi da frutto. Non era questa la finalità di quel terreno attorno alla canonica. Aveva, invece, le caratteristiche dell’orto familiare, ossia un appezzamento di terreno di estensione piuttosto limitata, situato attorno all’abitazione e recintato.

L’orto attorno alla canonica, di nostra memoria, ai tempi del parroco don Pasquale Bagnato, era diviso in due zone. Quella adiacente al cancello d’entrata era una superficie piana, ricca di erba, ben curata, e con tanti alberi da frutta: aranci, limoni, mandarini. Invece, nella parte posteriore, nel lato sinistro, proprio dietro la casa canonica, c’erano palme da datteri con fusto cilindrico sottile su cui erano evidenziate le cicatrici delle foglie cadute con frutti in grandi grappoli. Erano i datteri, ossia bacche ellissoidali, dalla polpa dolcissima e con un seme durissimo. C’erano pure palme di San Pietro con fusti che raggiungevano i 3 – 4 metri, foglie palmate e frutti in densi grappoli.

Il giorno prima della Domenica delle Palme, il parroco autorizzava una persona a prendere, dal cuore dell’albero, le foglie di palme più tenere e bianche che venivano distribuite a noi bambini perché, il giorno successivo, li portassimo in chiesa assieme ai rami di ulivo per la benedizione. C’era anche una fontana con annessa una piccola vasca di raccolta dell’acqua. Questa zona dell’orto era incolta, con tante spine ed erbacce e in alcuni punti era impenetrabile.

Così era L’ “orto” fino agli anni 60. Poi fu ampliata la stanzetta a pianterreno sotto la casa canonica, mentre l’adiacente orto fu ristrutturato. Furono tagliati tutti gli alberi di alto e medio fusto, fu ripulito dalle spine e dalle erbacce e il tutto divenne un ampio spiazzo pavimentato.

Il parroco don Pasquale Bagnato, in quegli anni, comprò un televisore e tutte le sere tanta gente andava a vedere i programmi perché all’epoca solo pochissime famiglie potevano permettersi un televisore in casa.

I programmi più seguiti erano “il Musichiere“, presentato da Mario Riva e “ Lascia o Raddoppia?”, presentato da Mike Bongiorno con la valletta Edy Campagnoli che, specialmente noi ragazzi, conoscevamo perché era la moglie di Lorenzo Buffon, il portiere dell’Inter e poi del Milan, nonché della Nazionale.

Il parroco si prodigava a riunire i giovani per i quali comprava libri (della BUR), riviste, e per i bambini i giornalini, allora andavano di moda Topolino e il Grande Black. Si giocava anche a carte, sotto il controllo del parroco.

Dopo la morte di don Pasquale Bagnato (1975),  venne ad abitare nella canonica il nuovo parroco don Giuseppe Furchì assieme ai genitori. Costui fece ristrutturare la canonica e sistemò i bassi rendendoli agibili e accoglienti.

L’ “orto”  ebbe la sistemazione definitiva che vediamo tutt’ora e fu creato un bellissimo campetto di calcio. Le tante salette al piano terra furono sedi di riunioni di vari gruppi parrocchiali, degli scout, tanto cari a don Giuseppe, dei bambini, dei ragazzi e dei giovani che, a gruppi, trovavano il modo di trascorrere qualche ora in allegria e in compagnia, spesso ballando e cantando, con, sempre, in prima fila, don Giuseppe, creatore e animatore.

Spesso vi si organizzava la recita di qualche commedia o di qualche spettacolo coi bambini, specialmente in  occasione della festa di San Pietro, il Patrono della parrocchia.

Dall’arrivo di don Giuseppe, l’ “orto”,  il giorno della Prima Comunione, è stato punto di incontro dei bambini che dovevano fare la loro Prima Comunione e dei  loro genitori; poi, in processione, col parroco in testa, si andava in chiesa per la bella e indimenticabile cerimonia religiosa.

Ogni anno, a tutti i bambini che facevano la loro Prima Comunione, don Giuseppe regalava, una Bibbia in formato piccolo. Divenuti adulti, tantissimi se la portano appresso, in un borsellino. Ricordo più gradito, non poteva esserci!

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