Una vita tra gli ulivi

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Il prof. Saverio Di Bella
Il prof. Saverio Di Bella

C’è chi gli ulivi li taglia e ne stronca la capacità produttiva e il ciclo vitale. C’è chi gli ulivi li pianta, ne cura la crescita, ne raccoglie i frutti.

Perché c’è una cultura della vita e un amore incantato per la terra e per i suoi frutti nella civiltà contadina e c’è una pulsione di morte, una forza distruttrice che sostituiscono ai nostri giorni quella civiltà millenaria.

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Ho raccontato la fine violenta degli ulivi di Sant’Agata /Santagaseu. Ora ne racconto la nascita.

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Ci sono circa 9 km di distanza tra Santagaseu nel Comune di Drapia, agro di Gasponi e Torre Marino nel Comune di Ricadi, agro di Santa Domenica.

Santagaseu s’incunea tra colline pregne d’acqua e forma una conca ubertosa oggi abbandonata. All’inizio del Novecento aveva ancora gurne (fosse) d’acqua e pantani da bonificare. Torre Marino era una pianura fertile sul mare, di fronte alle Eolie.

A Torre Marino si coltivava grano, granturco, ortaggi e cipolla rossa di Tropea, non ancora famosa. A Santagaseu si lottava per rendere coltivabile acquitrini e siepi: una terra da conquistare alla coltura metro dopo metro, col sudore e la fatica quotidiana di una famiglia contadina piena di conoscenza adeguata sul come si rende fertile una terra incolta e di una volontà di ferro, indispensabili per vincere la sfida.

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Da Santagaseu partiva Betta, la nonna di questa storia, per andare a piantare o raccogliere la cipolla rossa a Torre Marino.

Un viaggio quotidiano, nella stagione della cipolla e nelle altre stagioni che richiedevano il lavoro dei braccianti. Il percorso veniva fatto a piedi. Il tempo dovuto: almeno due ore per andare e due ore per ritornare. Col buio sia l’andata che il ritorno, perché le ore di luce erano impegnate nel lavoro “a giornata”.

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Nei vivai delle marine le piccole piante di ulivo attecchivano e crescevano bene. Il trapianto nel terreno, dove avrebbero dovuto crescere definitivamente, appariva perciò facile e promettente. Olio ed ulive avrebbero garantito un pane più sicuro per la famiglia.

Inoltre quegli alberi erano bellissimi e Betta intuiva che chiedevano amore e davano amore e cibo.

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Chiese la prima piantina – gli fu data. La prelevò con la terra abbarbicata alle radici e per difenderla da rischi l’avvolse nto faddali (nel grembiule) e annodò u faddali nto scossu (alla vita e sul ventre).

Nel camminare verso casa sostenne con le mani il grembiule per evitare di sballottare il piccolo ulivo. Chi  ha osservato i gesti di Betta o quelli di altre donne come lei ha notato che i gesti sono esattamente quelli delle madri che portano i figli piccoli nto scossu. Le madri contadine di una volta, naturalmente.

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Betta, giunta a Santagaseu, pose faddali e ulivo a terra; scavò una fossa adeguata e lì pose la pianta d’ulivo, ricoprendo poi la fossa di terra e fumeri (letame).

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Altri ulivi seguirono il primo. Sempre nto scossu sempre col rito del piantare.

Betta sognava già gli ulivi alti e forti e il profumo dell’olio e il sapore delle ulive nella giara coi peperoni dell’orto, l’origano e il finocchio selvatico della collina del Cardillo con quelle tombe di ignoti antenati vissuti prima di Cristo e per i quali lei comunque si segnava con la croce e recitava un’Ave Maria e un Requiem.

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Gli ulivi attecchirono e crebbero tutto sommato presto. La terra era buona, le cure adeguate. Quando Betta raccolse, nto foddali e nto scossu, le prime ulive sentì la stessa gioia che aveva provato quando era rimasta incinta la prima volta: la donna dà vita ai figli, le piante ai frutti, Dio vita agli uni e agli altri.

D’altra parte a Dio aveva portato il primo rametto di ulivo attecchito e in crescita per farlo benedire la Domenica delle Palme. Dal ramo benedetto e dalle foglie di palma aveva ricavato il necessario segno di devozione e di benedizione per la casa e per i campi: rametti di ulivo e foglie di palme intrecciate aveva messo  al crocifisso del capezzale del letto e  alla croce di  canne piantata alla sommità del campo.

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Piantò altri alberi Betta: un noce, due ciliegi, nespoli d’inverno, aranci, limoni …

I bruti hanno annientato anche il noce; hanno tagliato le piante giganti di ciliegio – legno pregiato, mentre il tempo e l’incuria hanno consunto la vita delle piante di nespolo e stanno distruggendo gli agrumi.

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Alla civiltà della vita è semplicemente subentrata la cultura del profitto. Alla capacità di pensare e sognare e costruire il futuro, l’impulso a depredare la terra di tutto per un guadagno immediato.

In sostanza il divorzio tra terra e contadini, un divorzio coatto dato che i contadini non hanno avuto accesso alla proprietà della terra e sono stati spinti ad abbandonarla per andare in fabbrica, ha prodotto la desolazione delle campagne.

Rovi, boschi, acquitrini riconquistano gli spazi loro strappati da Betta e dalla sua famiglia.

Il silenzio copre le campagne e l’oblio cancella le storie di un amore tra terra e uomini che sembra lontano anni luce e quasi irreale.

Eppure è storia – storia quotidiana di milioni di uomini e donne che hanno reso il paesaggio agrario italiano un’opera d’arte.

Saverio Di Bella

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