La PREFAZIONE dell’ultimo libro di Agostino Gennaro intitolato “Andrea Orlando (DA contadino-bandito-soldato A fattore, possidente-gentiluomo)” – Mario Vallone Editore.
Briganti e brigantaggio fanno parte della nostra storia, della nostra memoria, del nostro immaginario collettivo.
Non a caso la parola “brigante” evoca immediatamente un insieme di emozioni, fatti, giudizi non coincidenti in ciascuno di noi.
La figura del brigante è infatti, ancora oggi, divisiva. E lo è per un motivo concreto che ha ricadute politiche e culturali perché e in quanto evoca il potere e la rivolta al potere.
Si scontrano, perciò, due visioni antitetiche del brigante e del brigantaggio. La prima è quella dei potenti che dominano i popoli e sui popoli e che denunciano come pericolosa, eversiva, brigantesca qualunque forma di violenza ribellistica che contrasti il dominio.
Il brigante, in questa logica, è un nemico da annientare con ogni mezzo e nelle zone infestate dai briganti si inviano eserciti e si mettono in opera leggi speciali, corti marziali, esecuzioni sommarie. Il terrore è la medicina che il potere utilizza per estirpare il brigantaggio ed uccidere i briganti.
Per il potere non ha importanza la motivazione e neanche le modalità che assume la ribellione al dominio. Per essere condannati come briganti non occorre avere usato la violenza contro le cose o l’omicidio contro esponenti del potere. Basta anche la parola usata per denunciare le usurpazioni, i vizi, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che il potere consuma.
Non è casuale che come brigante sia stato trattato Cristo, il protagonista dei moti di Monte Amiata (Davide Lazzaretti). Il delitto consumato da questi ribelli pacifici è, infatti, comunque intollerabile per il potere e va punito. Erode deve uccidere Giovanni Battista che ne denuncia i vizi; Caifa e Pilato debbono preferire Barabba a Cristo e debbono – in particolare Caifa – subornare il popolo affinché tutto appaia legale e fatto con il consenso del popolo.
Allorché gli atti pratici e le azioni dei briganti si manifestano con violenza, chi governa si sente autorizzato ad usare senza limiti la forza dello Stato contro i briganti.
Non ha importanza la causa che produce il ribelle: esosità del fisco, violenza baronale sulle donne, angherie illegittime di potenti locali, fame e miseria come conseguenza di sfruttamenti schiavistici. Tutto questo non conta. Per il potere il dato fondamentale è la ribellione al potere stesso, che viene giudicata sacrilega e va punita con fermezza assoluta.
Rebus sic stantibus è evidente la nascita, il consolidarsi e il formarsi di una memoria popolare e di un giudizio su briganti e brigantaggio alternativi rispetto a quelli del potere.
Il brigante è un ribelle assetato di giustizia che non ha paura della morte, che lotta per il riscatto dalla povertà e dall’oppressione dei propri fratelli sottomessi e impauriti.
Il brigante toglie ai ricchi – bestiame, denaro, grano – e li distribuisce ai poveri. Affronta, armato con tecniche da guerriglia, le forze repressive dello Stato e continua questa lotta fino alla morte. Perché i briganti sanno che il loro destino è la sconfitta. Ma sanno anche che nelle condizioni di fame e di ingiustizia che opprimono i ceti popolari e, in particolare, i contadini nasceranno altri briganti. All’infinito. Perché l’ingiustizia ferisce l’anima degli uomini che sentono di essere nati per la libertà e che quindi preferiscono lottare e morire per la giustizia piuttosto che subire, rassegnati, un destino iniquo.
I briganti sanno benissimo che quel destino è frutto di uomini, prepotenti e feroci, che usano la forza per dominare su altri uomini.
Modificare i rapporti di forza e ribaltare il potere è perciò possibile. Il loro compito è dimostrare che questa possibilità è concreta. Allorché la forza del capobanda su un territorio è all’apice quella che conta è la sua legge, non la legge dello Stato. Il brigante diventa così il re dei boschi, il re delle montagne.
Il territorio di Spilinga, di Brattirò, di Monte Poro, delle Serre è stato uno spazio di briganti, brigantesse, brigantaggio.
Va ricordato che la geografia fisica di questo territorio era diversa rispetto all’oggi: i boschi erano, senza soluzione di continuità, estesi dalle foci dei torrenti alle colline di Monte Poro, alle Serre. Le paludi erano numerose ed estese e i torrenti stessi erano molto più impetuosi e travolgenti. I sentieri erano pochi; le strade sterrate e percorribili a cavallo o con carrozza, avevano dei passaggi obbligati e quindi erano facilmente controllabili dai briganti. Senza il loro lasciapassare nessuno poteva viaggiare sicuro.
Gennaro Agostino racconta, sulla base di adeguate ricerche documentarie e di verificate tradizioni orali, la storia di alcuni briganti di Spilinga e di Brattirò con cenni ai rapporti delle bande brigantesche del Monte Poro con la banda del Vizzarro nelle Serre.
I briganti e le bande raccontate dallo studioso sono in particolare quelle di Andrea Orlando di Spilinga e dei fratelli Rombolà di Brattirò.
Il racconto offre non solo la possibilità di conoscere le cause e le motivazioni che spingono Orlando e i Rombolà a scegliere le vie della ribellione sociale attraverso il brigantaggio. Illuminano anche sulle condizioni politiche della Calabria all’inizio dell’Ottocento.
Siamo anche nel decennio francese. I poteri passano rapidamente dai Borboni ai Giacobini e tornano ai Borboni (1799) poi arrivano i francesi (1806-1815) per tornare ai Borboni.
Le bande brigantesche si scontrano o si alleano sia con l’esercito borbonico sia con l’esercito francese. I briganti, cioè, fanno anche attività politica e stringono alleanze militari con i protagonisti di quelle vicende straordinarie.
Bande di briganti combattono a Maida (1806) e a Mileto (1807) insieme ai Borboni ed agli inglesi. Altri briganti – Andrea Orlando è tra questi – finiscono con l’allearsi con i francesi e con il diventare soldati e ufficiali dell’esercito murattiano.
I ribelli sociali, divenuti briganti per sete di giustizia e amore di libertà, possono cioè diventare soldati della rivoluzione.
Si capisce bene perciò come mai Giuseppe Garibaldi, il più grande dei condottieri italiani del periodo risorgimentale e unitario, abbia sostenuto la tesi che il decoro militare del soldato italiano sia incarnato dal brigante.
Garibaldi, come si sa, pensa ad un esercito di popolo che difenda la propria libertà e rispetti la libertà degli altri popoli o li aiuti a conquistarla. Il soldato deve, perciò, essere frugale, senza paura della morte, capace di combattere sia contro nemici appiedati sia contro nemici a cavallo, capace di attaccare e di ritirarsi velocemente perché conosce alla perfezione il territorio. E deve godere altresì dell’appoggio della popolazione.
Qualche decennio dopo Mao Tse Tung avrebbe detto del guerrigliero, del rivoluzionario – che combatte per la rivoluzione – che lo stesso deve essere e deve muoversi come un pesce nell’acqua.
In Italia i partigiani – dai nazi-fasciti definiti banditen e, quindi, briganti – hanno incarnato il militare sognato da Garibaldi e individuato nel brigante.
Alla distanza, in sostanza, i ribelli – ribelli per amore, ribelli per sete di giustizia, ribelli contro la fame – hanno vinto.
Gennaro Agostino ci riporta ai momenti storici nei quali il destino dei briganti era accompagnato dalla speranza di vittoria, ma portava ancora alla morte.
Prof. Saverio Di Bella
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MarioVallone