Da tempo realizzo interviste con personalità della cultura vibonese, talvolta “nascoste”.
Oggi pubblico una piacevole, lunga, chiacchierata con Andrea Runco.
Leggetela, leggetela fino alla fine: Andrea è una personalità davvero profonda, che ha pubblicato e scritto tanto e che tanto ancora avrà da dirci.
m.v.
Andrea Runco, scrittore e poeta, nativo di Filandari, residente a Pernocari di Rombiolo, autore di diversi libri. Parlaci anzitutto di te, della tua infanzia…
A dir la verità sono nato ad Arzona nel 1952, all’epoca la frazione più popolosa del comune di Filandari. Sono il maggiore di otto figli tuttora in vita, quattro maschi e quattro femmine e altri due sempre più giovani di me, uno morto a tre mesi dalla nascita, l’altro appena nato.
Sono il primo nipote per i nonni materni, e il secondo per quelli paterni.
Di umilissime origini, mia madre proviene da genitori contadini che sbarcavano il lunario lavorando terreni presi in affitto dai cosiddetti “gnuri”. Mio padre anche lui apparteneva allo stesso ceto sociale, con la differenza che la maggior parte dei campi che lavoravano erano propri, perchè comprati da mio nonno negli anni venti del secolo scorso, durante una sua permanenza lavorativa in Argentina.
E nonostante ad ogni suo figlio che si sposava gli regalarono una tomolata di terra da seminare a grano per il pane della famiglia, ciò non era sufficiente per coprire anche le altre necessità. Quindi pure i miei genitori, cercarono di mettere a frutto altri appezzamenti presi in affitto, ma senza fertilizzanti per migliorare la produttività del suolo, i raccolti erano veramente magri.
Fu così che nei primi anni cinquanta, mio padre iniziò ad emigrare al nord Italia, dove come operaio addetto all’edilizia, per alcune stagioni trovò da lavorare in questo settore, da principio come manovale, poi col passare del tempo dopo aver imparato il mestiere, assunto con la qualifica di muratore, a quel tempo molto richiesti, perché si era in piena ricostruzione post bellica, ed a motivo di ciò, ritornava al focolare durante i mesi freddi, quando necessitava poca manodopera.
Raggiunta l’età di quattro anni, ricordo benissimo che in uno di questi andirivieni, mio padre tirò fuori dalla valigia un’armonica a bocca, gliela sentii suonare, rimanendo incantato per la soavità delle note. Gliel’aveva insegnata suo fratello maggiore, che a sua volta l’aveva imparata in Africa durante la prigionia. Gli chiesi se me la facesse provare, e nel darmela mi disse che era una: “Bravi Alpini”. Da quel giorno, quando mio padre non c’era, aprivo la valigia che era poggiata sopra una cassapanca, e infilando la mano in un cantuccio la trovavo sempre lì ad aspettarmi, la prendevo e sedendomi su un gradino, aiutato da un discreto orecchio musicale, cercavo di capire il modo corretto di usarla. Fu così che ogni qual volta lui tornava da Milano, io avevo modo di suonare un nuovo motivo, quindi prova oggi riprova domani, non sono diventato un virtuoso per l’impossibilità di averne una tutta mia, ma con immensa gioia, oggi la suono discretamente ricordando lui e mio zio, e lo faccio in particolare all’aria aperta, durante le serate estive, quando il creato è al massimo del suo fulgore con Selene che ci guarda sorniona, ed una pace cosmica pare abbracciare l’universo, estasiandomi al punto che mi sembra di levitare in una realtà ultraterrena.
Sono sempre stato un bambino attento a ciò che vedevo e curioso nell’apprendere qualsiasi cosa, per questo, ancor prima che altri mi insegnassero correttamente quel che avevo notato, limitatamente alle mie forze, ero già in grado di farlo da solo. All’età di sei anni, da mia madre ho ricevuto le prime indicazioni su come svolgere i lavori agricoli, e quindi sarchiare il grano, estirpare le erbacce dallo stesso oppure mietere e legare i covoni. E non solo, perché essendo magro il guadagno di mio padre, dopo la mietitura di questo cereale, per molti giorni si continuava a spigolare tra le stoppie, fin quando non si era certi che di spighe non se ne era persa neanche una.
A proposito di ciò, tra il 1958 – 1961, in compagnia di mia madre e di mio fratello più giovane di me di un anno, spesso mi è capitato di spigolare di buonora fino a circa le nove e trenta, poi si spulava quei sette – otto chili di grano che si era raccolto, e deponendolo in un piccolo sacco, me lo caricavo sulla spalla a mo’ di bisaccia, e con un altro sacchetto pulito e piegato in mano nel quale deporre la farina, mi avviavo lungo viottoli appena tracciati nei campi per recarmi a Ionadi (VV), dove lo portavo a un mulino per macinarlo. Una volta molito, il mugnaio si pagava il servizio tenendo per sé tutta la crusca e una parte del macinato. Poi con la rimanente farina, per circa due Km ripercorrevo la strada per tornare in campagna, dove mia madre già mi aspettava pronta per impastare delle focacce che per la fame, non potevamo attendere che lievitassero. Nel frattempo si accendeva il fuoco, sul quale si posizionava un tripode sormontato da un ripiano di terracotta, e qui si adagiava quella specie di ciambelle azime, che si cuocevano girandole ora da un lato ora dall’altro. Quello era il pranzo e simile era la cena.
Oltre ai lavori di cui sopra, vi era anche la trebbiatura sull’aia, con buoi o mucche, la cimatura del granoturco e a suo tempo, raccolta e sgranatura, lo stesso si faceva per i ceci, lupini,o faggiola che si legavano in mannelle per poi spulare i frutti contenuti nei baccelli.
Non dimentico le giornate in cui si congelava durante la raccolta delle olive e a proposito di queste, ad Arzona vigeva l’usanza di tenere per il proprietario la raccolta delle stesse dal giorno dei morti fino alla bacchiatura. Fuori da questo lasso di tempo erano libere e chiunque poteva andare a raccattarne errando da un uliveto all’altro. Quindi dove la famiglia era numerosa, se partecipavano in tanti riuscivano anche a produrre l’olio necessario per tutto l’anno. Però capitava spesso che noi ragazzi vendevamo quello che avevamo raccolto al frantoio o ad altri compratori. Per me, quel guadagno serviva per penne e quaderni, queste erano le sole caramelle che mi potevo permettere.
La mia generazione fin da subito incominciò ad essere accompagnata dalle scoperte e dalla tecnologia che avanzava con nuove invenzioni, ma ciò che negli anni contribuì a cambiare la società fu la televisione, che pian piano entrò in tutte le case e con essa una nuova informazione al passo coi tempi.
Io ebbi modo di conoscerla intorno ai quattro anni, perché un fratello di mia madre più anziano di me di nove anni, quando non era in campagna a causa del maltempo, mi portava a vedere la TV dei ragazzi presso la sala della Democrazia Cristiana o nella canonica. E quindi fin d’allora ricordo il famoso Western Rin Tin Tin. Ma non disdegnavo neanche la radio, infatti in casa ne avevamo una “Philips”, ed io quando mi era possibile la ascoltavo nel pomeriggio, perché facevano dei programmi per bambini, ma seguivo molto anche gli sceneggiati e racconti che spesso proponevano al pubblico.
Oltre a questo nuovo passatempo che la società ci stava offrendo, gli altri giochi con i quali mi dilettavo sono stati ciò che son riuscito ad inventare con la fantasia e costruire in proprio; la trottola, la lippa, ruote fatte con pezzi di tegola o legno, carretti messi insieme con pale di fichi d’india. A quel tempo chi poteva comprava qualche gioco fatto in lamiera stampata anche perché ancora non era stata inventata la plastica. A questi, spesso si sommavano i passatempi di società, durante i quali ci si sfidava in diverse gare, anche se il divertimento per antonomasia restava sempre il calcio, ma ohimè, non sempre praticabile per l’assenza di un pallone. Quando ciò era possibile, non di rado si svolgeva per le strade, che per assenza di veicoli, erano ancora territorio di improvvisati calciatori o nei terreni pianeggianti dell’immediata periferia del borgo, dai quali si era già immagazzinato il raccolto, ed anche se erano presenti delle stoppie, ci pensavamo noi con i nostri piedi scalzi a livellare il tutto con le numerose partite che giocavamo nonostante gli inciampi facevano saltare qualche unghia, oppure la pianta dei piedi malvolentieri accoglieva la puntura di una spina di siepe o di pruno.
Nel 1957, ho frequentato un corso estivo propedeutico per l’ingresso alla scuola elementare, che quelli più anziani di noi l’avevano battezzato con l’appellativo di: “Scuola di campagna”, e tale era, perché è stato svolto proprio in pagliai dislocati nelle campagne più popolate, al fine di avere la presenza di un numero considerevole di allievi. L’impegno dei discenti era quello di avere quaderno a righe e a quadri, con una matita e relativa gomma, per imparare a scrivere e leggere alfabeto e numeri. Handicap della logistica era che spesso ci trovavamo a stare seduti sul pavimento in terra battuta dello stabile che ci ospitava.
Ma grazie a due mie zie, una paterna ed una materna più grandi di me di undici e dodici anni, che ormai avevano finito le scuole elementari senza la possibilità di proseguire, a quell’età sapevo già scrivere, perché pur di insegnarmi qualcosa, mi invogliavano dicendomi che dopo aver fatto un certo numero di pagine di vocali e consonanti, e in un secondo tempo anche di parole, mi avrebbero regalato un temperamatite o una gomma, ed io per amore della promessa fatta che a dir la verità rispettavano, passavo delle ore facendo compiti. Per questo motivo, in quell’anno, mia madre ne parlò con l’insegnante che veniva al mio paese, il quale per coincidenza iniziava il nuovo ciclo didattico giusto dalla prima classe. Dopo avermi messo alla prova, che superai brillantemente, mi fece andare normalmente a scuola, ma purtroppo accadde che altre signore che avevano figli della mia età, ma non scolarizzati come me, accorgendosi di questo salto che avevo compiuto, minacciarono l’insegnante di farlo espellere e quindi dovetti attendere l’anno successivo come stabilito dalle leggi in materia.
Iniziato regolarmente il primo anno, mi ritrovai nell’unica aula che avevo già conosciuto, seduto tra i banchi di chiara fattura austera, imposti dal regime che aveva maldestramente governato la nostra Italia per un ventennio. Infatti erano costruiti in legno a due posti, come le panche della chiesa solo che sul davanti avevano il piano di lavoro di colore nero lucido, inclinato come un leggìo, la cui parte in alto terminava in piano per una decina di cm, e in questa, al centro di ogni postazione, era ricavato un buco nel quale vi alloggiavamo il calamaio con l’inchiostro. Inoltre in prossimità del margine esterno, era ricavata una scanalatura concava profonda circa 10 mm. Che attraversava il piano per tutta la sua lunghezza e serviva per poggiarvi dentro la stecca con il pennino quando non si doveva scrivere. Lo stesso si incominciava ad usare verso la fine del primo anno, perché inizialmente si scriveva solo con la matita. Altra cosa importante del tempo erano i quaderni, che solitamente avevano la copertina in cartoncino rigorosamente verde, oppure nera lucida – martellata, e la costa delle pagine verde, bianco o rosso. Mi ricordo anche quando per la prima volta ci vennero consegnate gratis due penne: “BIC”, che fino ad allora non avevamo visto neanche al negozio dove compravamo l’occorrente per la scuola. Passati alcuni giorni di quel primo anno, ho incominciato a nutrire un sentimento particolare per una compagna di classe e non avevo occhi che solo per lei, la cui famiglia era più agiata della mia, quindi le poteva permettere di avere almeno il necessario in tutto.
E siccome le rispettive terre che coltivavano i nostri genitori si trovano vicine tra loro lungo la stessa strada, spesso all’uscita delle lezioni, attendevamo una maestra che provenendo da Scaliti, nel tornare a Vibo, faceva salire a bordo della sua Bianchina FIAT, la mia maestra e tre di noi bambini, solitamente uno ero io e una delle altre due era proprio lei nei confronti della quale mi sentivo a disagio, perché avrei voluto avere anch’io quel minimo necessario per una vita semplice si, ma non miserabile, anche perché sentivo di non aver fatto niente di male per meritarmi quella posizione di inferiorità che avvertivo dal profondo dell’anima.
Il dolore causato dal dito nella piaga mi feriva duramente anche a causa di quanto segue.
Per una strana combinazione, il parroco di Arzona aveva un metodo tutto suo per attirare i ragazzini, affinchè partecipassero alle funzioni religiose. Infatti a tutti quelli che durante le sere di novena in onore di qualche santo, riuscivano a vestirsi di chierichetto, venivano dati 10 lire per ogni presenza. Era questo un modo per cui ancor prima che la chiesa aprisse il portone, lì davanti si faceva la fila per correre in sacrestia e indossare la tunica, ed io ero uno di quelli. A quel tempo, i ministranti servivano la funzione inginocchiati sui gradini dell’altare, ma essendo senza scarpe, con lei seduta in prima fila, mi vergognavo dei miei piedi sporchi e dalle eventuali toppe ai pantaloni.
Questo ed altri accadimenti famigliari che non sto qui a narrare, seppur ero ancora in tenera età, mi hanno indotto a promettere a me stesso che se un giorno avessi formato una famiglia tutta mia, avrei fatto l’impossibile pur di non far sperimentare ai miei figli, ciò che io stavo soffrendo. Questi ragionamenti e le riflessioni in cui spesso mi soffermavo, hanno segnato profondamente la mia indole inducendomi a maturare precocemente, con una saggezza che è sempre andata oltre l’età che avevo. La quale, applicata su me stesso e le azioni da me scaturite, mi ha guidato durante l’esistenza a non compiere errori irreparabili di cui mi sarei certamente pentito.
Con questo modo di pensare ho cercato di rendermi indipendente dalla famiglia di appartenenza ancor prima di compiere diciannove anni.
Veniamo alle prime letture da bambino…
Come anzidetto, quando è stato loro possibile, le mie due zie hanno contribuito almeno nei miei primi tre anni di scuola a correggermi là dove sbagliavo qualcosa che loro reputavano errata. Ed anche se, spesso mi dicevano delle difficoltà da superare, io non mi avvilivo, anzi siccome ancora ricordavano qualche poesia, me l’hanno insegnata, addirittura una di loro che era fissata con la storia, mi ha fatto imparare quella dell’Egitto, quella di Troia e di Ercole, che a distanza di sessantacinque anni ancora ricordo. Le stesse le leggevo dal famoso “Sussidiario”, del quale ho ancora davanti agli occhi la copertina, dove risaltava la figura di: “Prometeo” incatenato ad una rupe e l’aquila che gli beccava il cuore.
Quando inizi a scrivere, soprattutto a comporre poesie?
Premetto da subito che leggere ed imparare cose nuove contenute tra le pagine dei libri, mi ha sempre affascinato, e ancor di più mi ha spinto a cercare di capire i messaggi che le poesie nascondono tra le pieghe dei versi e delle strofe. Per questo, fin da bambino, durante il periodo estivo, quando non si svolgevano lezioni scolastiche, oltre che leggere per svariate volte il mio libro di testo, cercavo agli amici più grandi e più piccoli di me, i loro libri che leggevo a turno e per più di una volta. Questa era la mia povera biblioteca che mi permetteva di apprendere e mettere a frutto il tempo.
Oltre a ciò, alcune volte riuscivo a barattare uno dei giochi che avevo costruito in cambio di un fumetto, che non solo lo rivisitavo tante volte, ma a rotazione lo usavo per scambiarlo con altri.
In quegli anni mi capitò pure di far parte di pluriclassi in quarta e quinta elementare, con la presenza di quasi 60 ragazzi tutti nella stessa aula. Di questi due anni mi erano rimaste alcune lacune, perché il tempo che il docente ha dedicato ad ogni classe è stato veramente poco, e quindi alcuni aspetti non sono stati sufficientemente approfonditi.
Ottenuta la licenza della scuola primaria, ogni qual volta i miei nonni materni ricevevano notizie dai loro congiunti in Argentina, volevano che fossi io a leggere e rispondere a quelle lettere, e così di tanto in tanto mi davano 20 o 50 lire, che adoperavo per comprare quaderni e penne. In queste occasioni la mia mente fantasticava ad immaginare una terra così lontana oltre il mare, che nonostante l’età, ancora non conoscevo.
Però, ben presto mi resi conto che non avrei potuto continuare i successivi gradi di studio, e desiderando intensamente di farmi una cultura vasta e possibilmente classica con la conoscenza di latino e greco, chiesi a mio padre se poteva trovare una soluzione per mandarmi in seminario, ma fu vano, perché il vescovo di quel tempo mi accettava unicamente se pagavo la retta, ma essendo impossibilitato a questo esborso, la mia voglia di conoscere naufragò miseramente.
Però, con grande sacrificio i miei genitori riuscirono ugualmente a farmi frequentare la scuola media, che conclusi nel 1966. Per l’impossibilità economica di non poter continuare a studiare, rimasi a casa, e dopo che un giorno osservai attentamente un tecnico venuto per fare un impianto elettrico in una stanza, mi improvvisai elettricista, e da quel momento in poi ero io che facevo quel lavoro a casa mia e per i parenti che spesso mi chiamavano. A parte questo, che non era sufficiente per tenermi costantemente occupato, mi sentivo di essere in una posizione in cui la vita mi sembrava sospesa in balìa di un ignaro destino. Quindi, per non pensarci, oltre che andare in campagna per aiutare mio nonno già anziano, nei momenti di riposo intensificai ancor di più la lettura e guarda caso, sul ripiano di una nicchia ricavata nel muro di quell’abitazione rurale, giacevano tre libri impolverati che da tempo non erano stati aperti neanche per curiosità. Uno era un romanzo al quale mancavano la copertina e le pagine iniziali, ma nonostante ciò, lo lessi un’infinità di volte. Poi vi era un volume in lingua spagnola, che mio nonno aveva portato dall’Argentina, il cui titolo era: “La cuenta del mais” ovvero “La raccolta del granoturco”, lessi anche questo per più volte, impegnandomi nella traduzione in Italiano con l’aiuto di mio nonno che un po’ conosceva quell’idioma. L’ultimo testo che lì ho consultato per la volontà di conoscere termini non semplici da comprendere è stato un volume dal titolo: “La sacra liturgia”.
Però la smania non sopita di leggere delle poesie, dopo qualche tempo mi portò a fissare degli argomenti e su essi costruirci dei versi a metro libero, ma rigorosamente in rima, perché secondo me, il ritmo della stessa non solo facilita la memorizzazione, ma può indurre la recitazione ad una cadenza che ognuno può personalizzare.
Un’altra cosa che mi sono sempre imposto è quella di suggerire al lettore sensazioni ed immagini, affinchè si senta appagato dalla lettura, nonché dalla morale che solitamente viene suggerita nel componimento.
Le prime poesie le ho indirizzate ai bimbi della scuola primaria, perché ho sempre pensato che l’essere umano in buona parte è ciò che riesce ad apprendere nei primi anni di vita, e da ciò dipende il futuro dell’umanità. Infatti se un soggetto adulto è stato educato per essere un gran signore, potrà commettere qualche sbaglio, ma nel suo intimo qualcosa gli rimorde al punto da accorgersi da solo che un’eventuale smargiassata o una brutta azione nei confronti del prossimo, non è cosa da fare.
Quindi il mio intendimento è quello di educare bene i bambini non solo con i buoni esempi di cui ognuno di noi può essere portatore, ma anche dalle istituzioni a ciò preposte e a maggior ragione dalle scuole che devono essere sempre vigili a porgere i giusti insegnamenti culturali di cui hanno bisogno.
Ad un certo punto emigri per ragioni di lavoro. Nei tuoi versi però rimane sempre la tua terra e la tua amata compagna…
Come in altro punto specificato, sono il più anziano di tanti figli, motivo per cui buona parte del mio tempo libero l’ho impiegato per accudire loro, facendogli da madre, padre e fratello.
Poi nel 1967, mio padre venne convinto dal parroco di Filandari a farmi riprendere lo studio, suggerendogli di mandarmi all’Istituto Professionale di Vibo, dove allora si facevano unicamente dei corsi triennali di qualifica e, per poter accedere all’università, si doveva sostenere un esame integrativo per il passaggio all’Itis e qui continuare lo studio per il quarto e quinto anno al fine di conseguire la maturità. Così mi iscrissi a quella scuola, perché mi venivano rimborsati i soldi per il trasporto e i libri ce li davano gratis. A novembre di quel primo anno partecipai ad un concorso per una borsa di studio, al quale in mia vece aveva inoltrato la domanda lo stesso sacerdote.
Sostenni una prova scritta di Italiano, nella quale cercai di inserire alcuni elementi poetici, e a distanza di tre mesi mi comunicarono di essere uno dei vincitori con un assegno di 160.000 lire. Mio padre andò ad incassarlo e quando poi venne la fine dell’anno scolastico la scuola mi premiò ulteriormente con altre 30.000 lire come migliore della classe. Per gli altri due anni che seguirono, presi sempre gli stessi soldi confermati dalla media che mantenevo alta. Ci tengo a dire che a quel tempo 190.000 lire era il guadagno di quanto mio padre poteva percepire in quattro mesi di lavoro. Inoltre, per non pesare sul precario bilancio famigliare, durante l’estate me ne andavo in campagna con mio nonno, e lì mi applicavo per produrre tutto quello che riuscivo per la famiglia. Finalmente nel 1968, anche in casa mia fece ingresso un televisore “Telefunken”. La gioia fu immensa, perché anche i nonni sovente venivano a vederlo quando dicevamo loro che avrebbero trasmesso qualcosa di molto importante. Infatti l’anno successivo ci vide tutti insieme a guardarlo col fiato sospeso in occasione dello sbarco sulla luna, grande impresa compiuta dalla “NASA”, che consentì all’uomo di camminare sul nostro satellite e ritornare indietro senza danni per alcuno. Avvenimento che suscitò incredulità in molte persone, specialmente negli anziani, che non si spiegavano come tutto ciò si era potuto avverare.
Finita la scuola cercai nei dintorni un possibile lavoro, ma i tempi erano tristi, non era come adesso che i giovani, se vogliono trovano da lavorare nei villaggi vacanze o nei locali. All’epoca non c’era niente, restava solo di procurarsi una valigia e partire.
Infatti nel mese di luglio del 1970, conseguii il diploma di qualifica e giorno 11 settembre dello stesso anno, come manutentore di macchine e attrezzature, iniziai a lavorare in una azienda di oltre 300 addetti, con sede in Legnano (MI).
In Calabria avevo lasciato non solo la mia famiglia, ma soprattutto la ragazza con la quale ardentemente avrei voluto condividere il futuro. In questo periodo iniziai a scrivere alcuni componimenti a dir il vero un po’ acerbi, perché al professionale che avevo frequentato le materie di studio erano solo di natura tecnico-scientifica, quindi la letteratura che tanto amavo girava sempre lontana da me. Comunque nonostante fossero più appunti che poesie, almeno sapevano di nostalgia e di un amore che mi mancava. E nonostante le visioni di lei mi accompagnavano costantemente, la mia anima non trovava pace. Ma non era la sola cosa che affollava i miei pensieri, perché ben presto mi resi conto che se l’essere umano ha l’esigenza di soddisfare almeno le necessità più impellenti, a volte è costretto a vivere in un ambiente che seppur migliore di quello natio, ma lontano, spesso non accetta di buon grado questa situazione, perché dove nasce e si forma nei primi anni di vita, pone le radici che in un secondo tempo non è facile svellere per metterle a dimora in altro luogo. Purtroppo dove germoglia il seme, lì corre sempre il pensiero, che lusingato dagli affetti o da situazioni che fanno apparire idilliaco il mondo lasciato, si è tentati di ritornare sui propri passi. Infatti anche quando l’emigrante impone a sé stesso un comportamento distaccato, cela una normalità forzata, perché nel suo intimo rimane sempre una minima parte di quel cordone, che non gli permetterà mai di obbliare la sua terra.
Ecco perché le mie poesie, che siano esse in lingua o in vernacolo calabrese, oltre che di amore, sanno di lavori dei campi, di sudore e di pane appena sfornato e giochi di bimbi.
Hanno il tanfo di ferrovia, sono immagini di mani che salutano, suoni di treni che fischiano e dolore per le famiglie divelte per necessità. A seguito di quanto detto, non di rado si verificano ritorni azzardati che non promettono niente di buono, se non il riassaporare l’amarezza di veder che tutto è ancora immobile.
Per una serie di congetture, anche il mio sogno d’amore naufragò e le nostre strade si divisero per sempre.
A gennaio del 1972, con 25.000 lire in tasca, partii per il militare venendo incorporato nel: 33° Regimento Artiglieria da Campagna Folgore con sede a Gradisca d’Isonzo Pr. Gorizia. In questa veste raggiunsi il grado di Caporal Maggiore, ed una paga di 600 lire al giorno, che mi sono sempre bastati per le mie necessità. Infatti dopo aver trascorso 14 mesi e 10 giorni di naia, tornai a casa avendo in tasca 27.000 lire.
Il 2 maggio del 1973 ripresi a lavorare nell’azienda che avevo temporaneamente lasciato e ritornai in Calabria a gennaio del 1974. Qui ricominciai e direttamente dall’amore, perché dopo qualche giorno ebbi modo di conoscere mia moglie. Questa volta forte dell’esperienza lavorativa pregressa, non mi fu difficile trovare chi aveva bisogno della mia opera.
Ma l’ignoto è sempre dietro l’angolo ad aspettarti con le sue incognite, come successe a me. Infatti a quel tempo, presso un istituto professionale privato, iniziai a frequentare un corso di didattica per poi rimanere nella stessa scuola, in qualità di insegnante tecnico-pratico. Le lezioni, alle quali prendevano parte anche altri giovani, durarono sei mesi. La conclusione avvenne verso la fine del 1974 con un esame finale, durante il quale aiutai tutti gli altri partecipanti che erano nel mio stesso gruppo, perché non avevano esperienza lavorativa. E nonostante la prova d’esame l’ho eseguita meglio e in meno tempo degli altri, nella graduatoria finale, fui preceduto da un altro a cui avevo dato una mano, infatti lui era il primo ed io il secondo. La cosa mi diede parecchio fastidio, ma d’altronde lui aveva il fratello che già lavorava nell’amministrazione di quell’istituto, invece io ero solo un povero illuso che pensava di farcela con le proprie forze. Questa volta l’accadimento lo tollerai meglio, perchè nessuno venne assunto. Infatti l’ente Regione che doveva rifinanziare altri corsi di studio per ampliare l’offerta a possibili interessati a quel tipo d’istruzione, non mantenne le promesse, quindi non si concretizzò nemmeno una sola assunzione.
Finalmente il 6 aprile del 1975 mi sposai e l’anno dopo, la mia vita venne allietata dalla nascita di mia figlia Antonella.
Deciso di cercare sempre il meglio per la famiglia, ebbi modo di seguire un corso di formazione per entrare in un’azienda pubblica. E, nonostante ai parziali degli esami scritti e orali, mi fossi piazzato in buona posizione, la graduatoria finale non venne mai esposta alla visione degli interessati e a distanza di tempo vennero assunti i soliti noti.
Per un’altra azienda frequentai un corso gestito dal direttivo sindacale interno che dai suoi iscritti forniva gli istruttori pratici e teorici. Infatti per circa un anno, la sera dopo il lavoro, anziché tornare a casa, per tre volte alla settimana, mi fermavo a Vibo per prendere parte alle lezioni. Terminata la frequenza, sostenemmo le prove teoriche e pratiche, alle quali ero andato bene, ma alla fine anche qui, la graduatoria sparì e quando ormai sembrava tutto dimenticato, per le assunzioni adottarono altri criteri , così come avveniva in tutti i concorsi pubblici, che un tempo si facevano per lavare la faccia a chi aspettava di spegnere la sete di lavoro e di giustizia.
Nel frattempo continuavo a lavorare, ma nel 1981, l’azienda di cui ero dipendente, andò in sofferenza a causa di lavori che non le venivano pagati e da un calo di commesse. Quindi avvisate le rappresentanze sindacali, paventò la riduzione delle maestranze e la chiusura definitiva. Mi preoccupai non poco di questa situazione, e siccome in quell’anno era possibile inviare domanda di assunzione nelle scuole, vista la situazione che si stava creando, decisi anch’io di mandarla al Provveditorato agli studi di Ferrara. Nel mese di luglio di quell’anno avvenne la nascita di mio figlio Raffaele, che ci portò tanta felicità.
Poi a settembre ci lasciò mia nonna paterna e a novembre fortunatamente mi convocarono a scuola per un incarico annuale nel ruolo di assistente tecnico presso l’istituto professionale di Cento.
A dir la verità ero titubante se prendere servizio o meno, ma considerando il vuoto che si stava aprendo alle mie spalle e l’incertezza di garantire il pane ai miei figli, mi spinsero a stringere i denti ed accettai. Superate le difficoltà logistiche, non avevo altri problemi a coprire il mio ruolo lavorativo, perché dopo aver operato per almeno nove anni nelle aziende private dove avevo fatto ogni sorta di esperienza e superata qualsiasi difficoltà, il mio compito nella scuola lo svolgevo ad occhi chiusi riscuotendo il plauso degli studenti che avevano in me una guida sicura, e di tutto il corpo docente, nonchè dalla Presidenza, al punto che ero io il referente per tutti i colleghi che svolgevano incarichi tecnici in quell’istituto. Il mio cruccio era solo quello di aver temporaneamente lasciato in Calabria la mia famiglia. A motivo di ciò, per due anni sono andato avanti e indietro col treno mediamente ogni sette settimane, partendo da Bologna venerdì pomeriggio per essere di ritorno lunedì mattina alle 6.00. A seguito di tutti questi spostamenti e le preoccupazioni che non mi lasciavano mai, spesso mi immergevo nella scrittura di poesie, infatti non so quante le ho proprio editate durante questi viaggi di andata e ritorno, dove per un mistero mai svelato, trovavo ispirazione e linfa per digitare versi rimasti poi nelle mie raccolte in parte già pubblicate.
Una vita, la tua, sempre dedita al lavoro. Una vita, la tua, sempre dedita all’apprendimento, ai libri, alla cultura.
Trascorsi due o tre mesi da quando iniziai questo nuovo impiego, un collega del luogo con il quale lavoravamo nello stesso ruolo, mi propose se avevo voglia di fare delle ore extra al pomeriggio, gli risposi affermativamente e in men che non si dica mi trovai ad essere impegnato a tempo pieno. Ciò mi andava bene, perché questa occupazione aggiuntiva mi regalava belle soddisfazioni, ed anche un guadagno che non faceva male al bilancio famigliare.
A dicembre del 1982, colpito dal male del secolo morì mio padre all’età di 52 anni. La cosa mi turbò per parecchio tempo, ma col passare dei mesi la superai, anche perché a settembre del 1983, la mia famiglia mi seguì e finalmente trovai un po’ di pace. Questo mi giovò al punto che riuscivo anche a ritagliare del tempo per la mia formazione. Infatti per alcune sere della settimana, presso un Istituto professionale provinciale, con sede nella stessa città, ho seguito un corso di CAD-CAM, e dopo di questo a Ferrara un corso per conduttore di caldaie ad uso riscaldamento. In più, mi si era presentata un’occasione d’oro, perché dalla scuola in cui lavoravo, avevo la possibilità di prendere in prestito dei volumi e studiarli. Infatti visto che il lavoro non mi stancava quanto quello che svolgevo negli anni precedenti, prelevavo dei testi e durante la notte per alcune ore leggevo a letto tenendo sul comodino un dizionario enciclopedico per cercare il significato dei lemmi che non conoscevo. In questo modo ho letto una gran parte dei classici Italiani, tanti libri di poesia, ed anche qualcuno di narrativa. In particolare (Iliade, Odissea, Eneide, Divina commedia, La Gerusalemme liberata, Orlando furioso, Orlando innamorato, Il Decamerone e Il canzoniere ) li ho rivisitati più di una volta.
Questo giovò molto alla mia preparazione e al morale, perché senza venir meno ai doveri di padre e di marito, son riuscito a colmare qualche mia lacuna, grazie anche alle manifestazioni culturali che si svolgevano in città, alle quali partecipavo con tutta la famiglia.
In questo periodo incominciai a inviare alcuni dei miei componimenti a qualche concorso letterario che si svolge in Italia. E a dir la verità in qualcuna delle mie rade partecipazioni, ho conseguito ottimi risultati. Ciò mi ha ulteriormente invogliato a proseguire sulla strada della conoscenza che avevo intrapreso da qualche tempo.
Fu anche il momento in cui dei miei componimenti sono stati pubblicati tra le pagine di alcuni periodici nazionali.
In questo lasso di tempo in cui ero emigrato con tutta la famiglia, ritornavamo in Calabria solo per le vacanze estive ed eravamo felici della nostra vita. Ma raggiunta l’età di 33 anni, un macigno mi franò addosso, perché scoprii d’essere affetto da una malattia genetica, che se avesse progredito velocemente, mi avrebbe lasciato al buio per tutta la vita. Non volevo crederci, dato che all’inizio mi sembrò solo un cattivo presagio, perché già da tempo avevo avvertito alcuni sintomi che non mi sembravano tali da raggiungere lo stadio ultimo paventato dala dottoressa che mi aveva fatto da oracolo. Ardentemente sperai che Dio avesse pietà e mi lasciasse nelle condizioni in cui ero, per dare alla famiglia tutto quello di cui avevano bisogno.
Nello stesso anno, dopo aver superato il concorso a titoli ed esami, entrai di ruolo come dipendente della Pubblica Istruzione e da lì in poi inoltrai richiesta di trasferimento in Calabria, dove avevo lasciato la casa di proprietà arredata e pronta a riabbracciarci.
Nel mese di ottobre 1987, una brutta nuova mi raggiunse, perché venne a mancare il mio esempio di vita, ossia il nonno paterno del quale porto il nome, con cui trascorsi molto tempo lavorando spalla a spalla, ed anche scherzando quando se ne presentava l’occasione.
Finalmente torni in Calabria….
Dopo l’ennesimo rinnovo, nel 1989, è stata accolta la mia richiesta di trasferimento che insieme alla mia famiglia accettammo di buon grado, ma anche con un pizzico di indifferenza, perché conoscevamo l’ambiente lasciato. Nonostante ciò, e qualche incongruenza che ho dovuto chiarire con l’amministrazione provinciale di Catanzaro che mi doveva accogliere, siamo ritornati al punto di partenza. L’impatto non è stato positivo, però quello che ci siam detti in famiglia è stata la necessità di proporci agli altri con una visione nuova per cercare di migliorare le cose negative che esistono nella nostra società meridionale.
Da subito feci amicizia con il nuovo sacerdote del paese che stava sostituendo quello più anziano, già in pensione. E trovandolo aperto e al passo coi tempi, gli proposi se mi dava una mano a fondare un centro studi e organizzare un concorso di poesia per le classi quinte della scuola primaria del comune, nonché un gruppo di preghiera sotto la sua guida. Con slancio aderì alla mia idea e per alcuni anni la cosa andò avanti bene, ma siccome le spese di eventuali manifestazioni le pagava l’associazione col ricavato delle quote che i soci versavamo mensilmente. Dopo alcuni anni che ormai il direttivo non era più nelle mani dei fondatori, per dissidi sorti tra le persone che lo costituivano, il tutto si dissolse nel nulla.
A novembre dello stesso anno morì mio nonno materno, che aveva un ingegno superlativo, perché sapeva fare di tutto e bene, da lui ho imparato ad intrecciare panieri e canestri di vimini. A marzo del 1990, ho ripresentato domanda di trasferimento in prov. di Vibo Valentia. Poi a maggio venne a mancare mia nonna materna, che secondo me era l’amore fatto persona, infatti da quando io ricordo, non l’ho mai sentita pronunciare una sola parola con astio o disappunto, per lei tutto era perdonabile o si poteva accomodare senza danno per nessuno.
Nel mese di luglio sono stato trasferito presso l’ITIS di Nicotera VV, dove mi sono occupato di alcuni laboratori attrezzati di macchine didattiche a controllo numerico computerizzato e informatica.
Quindi scrivi, scrivi, scrivi…. poesie e romanzi. Illustraci, brevemente, ognuno dei tuoi libri, di quelli finora pubblicati.
Nonostante questi passaggi da un territorio all’altro, e di mansioni lavorative diverse, la mia verve poetica non si è mai spenta, anzi sta continuando tutt’ora.
Nel 1998 si è sposata mia figlia, e come avevo già previsto anche lei e la sua famiglia emigrarono a Torino. Dopo due anni dal suo matrimonio, nacque Davide il mio primo nipote, e qui ricominciarono le pene, perchè erano lontani da noi. Ad un certo punto mi sembrò di poter condurre una vita meno frenetica e dedicarmi maggiormente alla passione letteraria. Invece la morte del cuore scese su di me, perché nel 2004 diventai cieco assoluto e non vi fu riparo. L’evento mi gettò nello sconforto più nero, e l’abisso del tartaro si spalancò davanti a me inghiottendomi. Pur di sfuggire ad una sofferenza così grande a più riprese mi augurai la morte, ma poi da buon cristiano pensai che Dio era questo che voleva da me e mi stava mettendo a dura prova. Mi venne alla mente il povero Giobbe e dedussi che il Creatore sicuramente non mi avrebbe lasciato senza una consolazione. Quindi imboccai questa nuova strada e tuttora cammino ed opero in un mondo parallelo a quello che gli altri esseri viventi conoscono. Il mio, anzicchè di luce ed immagini, è fatto non solo dell’oscura tenebra del destino, quanto dell’indifferenza dimostrata anche da alcuni di coloro che si pregiavano di essere miei amici o parenti, se non altro, per tutte quelle volte che ho risolto loro problemi che gli erano capitati addosso, ed ora passandomi davanti, sicuri che io non li possa più riconoscere, mi hanno levato anche il saluto che per educazione non si nega neanche ad un estraneo o un nemico.
Comunque la fortuna ha voluto che essendo stato un esperto informatico, ho installato sul mio PC una sintesi vocale che mi permette di poter leggere e scrivere, e compiere tutte quelle operazioni che mi sono necessarie, tipo collegamento in rete, gestione della posta elettronica, stampa, masterizzazione di CD, scansione e acquisizione di testi ed immagini, che in questo campo mi rendono sufficientemente autonomo. L’applicazione di questa tecnologia mi sta dando l’opportunità di continuare una vita dignitosa non isolata dal resto del mondo, e proseguire a comporre e rivedere i miei scritti per poterli affinare ad essere pubblicati.
Nel 2005 nacque Mattìa, fratello di Davide. Poi nel 2007, mio figlio si laureò in medicina e nel 2013, si è sposato. L’anno dopo nacque Andrea il suo primo figlio e nel 2019, vennero al mondo, Samuele fratello di Davide, e Lorenzo, fratello di Andrea.
E inutile dire che essere nonno di tanti nipoti mi rende felice, ed orgoglioso, anche perché da un po’ d’anni, abitano tutti in paesi non lontani da casa mia, e quindi ho modo di averli spesso vicino. Ciò concorre a non farmi pensare continuamente alla mia situazione. Questa felicità trova anche fondamento nel fatto che la musa non mi ha abbandonato e quando ella si manifesta, in qualità di umile servitore mi prono al suo cospetto e lascio che faccia di me il suo confidente, il messaggero ed il suo oracolo. E niente mi importa, se in questi anni in cui la tenebra mi ha offuscato gli occhi, spesso i miei canti sono flash di ricordi, lo specchio del mio dolore, e la speranza posta in colui che tutto regge.
Per quanto fin qui detto, posso affermare che la mia produzione poetica non è scaturita dal nulla, e da quando per gioco mi sono imposto di scrivere qualche strofa in rima, è trascorso quasi un sessantennio, e oggi ho al mio attivo 833 componimenti in lingua e 250 in vernacolo, più altri ancora da rivedere. A questi miei, ho aggiunto due romanzi.
I libri che finora ho pubblicato sono: due raccolte di poesie in vernacolo calabrese come si parla nel comprensorio di Monte Poro, altre due sillogi sono in lingua, e ancora due sono i romanzi.
Il contenuto dell’opera in parte è racchiuso nel titolo, il quale vuol significare che i componimenti sono idonei per essere letti in ogni stagione dell’anno e della vita.
In questo caso sono un insieme di poesie vernacolari, cronologicamente il prosieguo del primo volume; infatti sono 140 componimenti che a partire dal 1995 coprono un arco temporale di venticinque anni. I temi trattati sono lo specchio della società di quegli anni, e nostalgicamente sottolineano un mondo che è andato perso e che mai più potrà rivivere, se non nella fantasia, la quale, potrebbe essere suggestionata solamente con una buona lettura del testo. Quest’ultimo, con alcuni scritti in esso contenuti, ricorda i problemi in cui è caduta la società moderna. Altri componimenti satirici chiamano in causa i responsabili che ci governano, altri ancora pongono all’attenzione degli organi competenti lo sfacelo in cui è caduta la sanità nazionale. Non mancano riferimenti autobiografici, ed altri ancora sono di natura religiosa, per voler significare che l’ultimo appiglio alle nostre sofferenze e necessità è sempre Dio, il quale governa l’universo e la storia.
Aggiungo che per meglio far comprendere il significato di parole e frasi ormai desuete, contenute nel volume, l’ho dotato di un piccolo glossario che tenta di chiarire al meglio detti termini.
Sono 184 componimenti che comprendono il periodo tra dicembre 1969 e luglio 2022. Già dal titolo si capisce che il volume tratta temi che riguardano i bambini e la loro fanciullezza, nel periodo in cui manifestano tutta la loro meraviglia ogni qual volta vedono un qualcosa di strabiliante. Dal sottotitolo si può intendere che essi sono componimenti innocenti adatti alla loro età.
Lo scopo della raccolta è quello di veicolare esempi di altruismo, di rispetto del prossimo, di pace, amore, accoglienza, condivisione, mano tesa e avere in obbrobrio, la guerra, l’odio e la vendetta, ed insegnare loro i sani principii del vivere civile per un’umanità migliore.
Egli dopo una vicenda per un amore passeggero, si innamora di una bellissima donna compaesana di Nicola, che sposa dopo circa un anno. Da lei ha un figlio e in seguito ne vengono altri, ma per sua sfortuna morti già alla nascita. Passa il tempo e muore anche l’unico figlio, e dopo anche lei. Federico rimane solo e distrutto, ma non vinto, perché con la sua proprietà, riesce a dar lavoro alla povera gente, e di buon cuore, così come aveva sempre fatto, continua a far del bene a chi ha bisogno di lui. Ma quando è ormai alla soglia della vecchiaia, ed ha passato numerose esperienze e vicissitudini, per una strana combinazione del destino, conosce un’altra donna. Col suo consenso la sposa e finalmente, dopo aver sofferto tanto, ha tre figli uno più bello dell’altro, quindi ha realizzato il sogno di avere una famiglia, rendendosi conto che Dio lo aveva oltremodo premiato, sicuramente perché non aveva dubbitato o perso la fiducia in Lui, finendo i suoi giorni felice e in pace.
Ti sei, quindi, occupato anche di storia locale e di storia religiosa…
Il germe della storia forse è stata proprio quella mia zia a inculcarmelo, non lo so. Però, devo confessare che sono un appassionato di questa materia, perché leggendo gli epici, a volte mi immedesimo al punto che mi sembra di essere io uno dei protagonisti dell’azione che sto leggendo. Una mera teoria dice che nel nostro “DNA”, dovremmo avere geni, o frammenti di essi in cui c’è una memoria codificata a partire dai nostri progenitori più lontani, quindi se qualcuno dei miei avi ha avuto esperienza di combattimenti specialmente in epoca medievale, ciò è rimasto in qualche infinitesima parte del DNA che è giunto fino a me facendomi rivivere quei frangenti. Ad ogni buon conto, siccome mi premeva conoscere le origini del mio paese e dei quartieri appartenuti a Mesiano, unitamente a mio fratello Salvatore abbiamo condotto una ricerca su diversi volumi prestatici dalle due biblioteche di Vibo, ed altri documenti consultati presso la diocesi di Mileto, all’archivio di stato di Catanzaro, all’archivio comunale di Filandari e nei registri delle singole parrocchie che ci interessavano. Ovviamente ci sono rimasti da esaminare: l’archivio Regio di Napoli, e quello del collegio greco di sant’Atanasio in Roma, dove con certezza vi sono parecchi documenti che ci potrebbero dare ulteriori notizie, sia in campo storico che religioso. Ma abbiamo la convinzione che la maggior parte di questa documentazione è su pergamene, quindi per noi che non conosciamo latino e greco e per la nostra condizione di non vedenti, abbiamo rinunciato. Comunque il materiale raccolto ci ha permesso di ipotizzare un qualche insediamento di quello che potrebbe essere stato Mesiano, già al tempo delle sub-colonie Magno-Greche, e poi in epoca romana. E con certezza dalla fine del nono secolo ai giorni nostri. In questo excursus abbiamo notato l’importanza di Mesiano e dei suoi quartieri, ed inevitabilmente anche il suo declino a causa di eventi geologici che modificarono il territorio su cui era eretto, nonché del feudalesimo, che non aveva più ragione d’esistere per la conseguente razionalizzazione di quegli insediamenti fino ad allora in mano dei cosiddetti nobili, passati ad altre entità che li stanno ancora governando. Infatti con la venuta dei Francesi, nei primi anni del 1800, Filandari è divenuto comune e gli sono state abbinate quattro frazioni (Arzona, Scaliti, Pizzinni e Mesiano). Anche Rombiolo è divenuto comune e gli sono stati abbinati Presinaci, Pernocari, Orsigliadi, Garavati e Moladi. L’altro comune formatosi dagli ex tredici quartieri è Zungri, al quale è stato abbinato solo ( Papaglionti.
Nel condurre la ricerca di cui sopra, abbiamo notato che nel nostro territorio le comunità dei primi secoli d. c. non di rado sorgevano intorno alla fortezza del vassallo o a ridosso di insediamenti religiosi. Ed è anche vero che le due cose erano talmente compenetrate tra esse, al punto che dichiarare guerra all’uno, significava far guerra anche all’altro, il quale per solidarietà correva in aiuto. Questo, indipendentemente dal tipo di dottrina che si professava, l’importante era essere alleati tra loro. La storia ci dice che le popolazioni
del nostro territorio erano politeiste, ma col passare del tempo hanno subito l’influsso della religione ortodossa finendo con l’adozione della stessa. Poi verso la metà dell’undicesimo secolo, in seguito alla discesa in Italia dei normanni Roberto il Guiscardo D’Altavilla e del fratello Ruggero, re di Calabria e Sicilia, dopo che assoggettarono i vari insediamenti indigeni al loro potere, gli imposero la religione cattolica sotto l’autorità del papa.
Il lavoro appena citato, è stato raccolto in un volume intitolato: “Filandari e quartieri”, pubblicato nel 2014.
Una cosa che parimenti alla storia dei popoli da sempre mi affascina, è proprio la religione cristiana, derivata da quella ebraica, che noi consideriamo sua progenitrice. Probabilmente essa è stata la prima in assoluto a concepire il Creatore dell’universo come il solo ed unico Dio, in cui credere e sperare.
E siccome, la Bibbia è per i cristiani la fonte dove attingere per conoscere le fondamenta di questa filosofia bisogna leggerla nella sua interezza, per avere sufficienti notizie idonee a soddisfare ogni dubbio o curiosità.
In essa sono riportate le vicende che hanno interessato i personaggi che per un motivo particolare hanno lasciato l’impronta nell’eternità come esempio da seguire, anche se, non esenti da fragilità che hanno sempre superato con l’aiuto di Dio. Tutti gli accadimenti nei quali è stato coinvolto Israele, popolo definito eletto, non sempre sono stati facili da comprendere e l’hanno segnato nel profondo. Ciò a causa delle proprie iniquità, che Dio gli ha fatto notare di volta in volta, meritando per questo l’allontanamento della sua presenza e della sua grazia.
Con umiltà mi sono accinto a leggere questo libro nella versione integrale, il cui tomo non è meno di un dizionario enciclopedico, ma l’ho fatto con amore e desiderio di conoscenza, perché in esso cercavo delle risposte, e per non trascurare niente, credo di averlo rivisitato almeno tre volte. A questo, aggiungo che fin da bambino, quando proiettavano dei film in piazza durante i festeggiamenti in onore di qualche santo, non ho mai perso una sola visione di tutti quelli che trattano i temi e i personaggi contenuti nella storia d’Israele e della cristianità. Tutto questo mi ha fatto comprendere il passaggio dal Vecchio al Nuovo testamento, e quindi un diverso modo di concepire la divinità, non più permalosa e vendicativa, ma sempre pronta a perdonare e soffrire per l’umanità che egli stesso ha creato.
Forte della convinzione del Dio in cui credo, nel tempo mi sono accinto a redigere un corposo testo in cui è presente una raccolta di tutti quei canti religiosi tradizionali nel vernacolo parlato nel comprensorio del monte Poro. Il lavoro l’ho fatto affinché non si perdessero questi componimenti che non di rado raggiungono una liricità così alta e coinvolgente, al punto che l’esecutore si immedesima da sentire che la sua anima si fonde con qualcosa di indefinito e sovrumano che gli dà pace.
Aggiungo che per fare il lavoro contenuto nei due libri, ho esaminato centinaia di testi, al fine di individuare quelli più integri e poi, ad ognuno di loro ho abbinato gli altri che recavano lo stesso titolo e il testo somigliante nel quale trasparivano maggiori alterazioni. Quindi con la pazienza di un restauratore, la dove mi è stato possibile ho cercato di ricostruire integralmente i versi e le strofe nel canto preso a base, e gli altri, che avevano varianti sostanziose al componimento in esame, dove ne è valsa la pena li ho corretti e lasciati in questo stato.
Sei anche un cultore del dialetto quindi…
A proposito del dialetto, visto il mio trascorso di emigrante, ho avuto modo di conoscere tanta gente di diverse provenienze, quindi tranne tre o quattro di quelli parlati nelle regioni italiane, gli altri riesco a comprenderli sufficientemente e là dove mi è capitato ho letto anche testi scritti, specialmente a partire dall’Abruzzo e Molise e in direzione sud, ad eccezione della Puglia, tutte le altre regioni Sicilia compresa, ho fatto un viaggio nelle varie parlate locali per individuare meglio come apporre i tanti segni grafici di troncamento o elisione, che spesso vengono inseriti dai vari autori. Nel fare ciò, ho notato che ognuno fa a modo suo. Quindi la regola che io pensavo di adottare sui miei scritti, l’ho cestinata, rendendomi conto che l’apposizione dei segni grafici non rappresenta maggior chiarezza, anzi fa apparire il vernacolo una specie di italiano di secondo ordine, giungendo al convincimento che ogni dialetto è da considerare come una delle tante versioni volgari dell’Italiano, che si è evoluto come la lingua patria, rimanendo solo una parlata locale e che quindi se le due cose si sono parimenti evolute vanno bene anche se non ci sono segni grafici che possono fare intendere un’elisione o un troncamento che noi non pronunciamo, perché assorbito da una fonetica che assume diverse sfumature a secondo, del territorio dove si vive e si pratica il vernacolo, senza inficiare la comprensione del linguaggio a chi ascolta. Quindi dopo la mia prima pubblicazione di testi dialettali, in quelli rimasti ho cercato di usare i segni in discussione, là dove è stato necessario
La stessa cosa si può dire di alcune lettere o consonanti che si mutano in altre a seconda del territorio, come nell’esempio che segue. Ponendo Mesiano VV, come centro di una mia ricerca, posso asserire che in alcuni paesi, la lettera “j” nella parlata corrente subisce dei mutamenti al punto che viene sostituita con altri segni. Infatti un gruppo di paesi per dire “lei”, dicono, “ija”, dove la “j” greca, viene pronunciata con la stessa fonetica come se si dicesse jonio. In altre comunità la stessa “j”, viene pronunciata secondo la fonetica francese. In altri centri per dire lei, addirittura la j usata nel primo e secondo gruppo, si trasforma in d. Quindi dicono ida. Quanto appena detto l’ho riscontrato anche visionando due dizionari del territorio in questione, i cui autori sono, del primo Galasso Lorenzo, risalente agli anni ‘20 del secolo scorso, il secondo di Carè Placido Antonio, pubblicato a cavallo del 2000, entrambi di Nicotera (VV).
Come sopra detto, scrivo anche in vernacolo calabrese, perché spesso mi capita di editare qualche componimento dove la satira mette sotto accusa qualcosa o qualcuno, e così facendo la presa in giro sembra più genuina. Inoltre lo faccio, perché il dialetto mi sembra più congeniale per esprimere concetti che solo l’uso dello stesso con i suoi doppi sensi, o con i suoi sottointesi permette di essere più efficace nella comunicazione, quando la stessa è da porgere a chi non è nelle condizioni di comprendere pienamente la lingua patria.
Com’è cambiato il mondo, parlo soprattutto della nostra realtà vibonese-calabrese, negli ultimi decenni? Un tempo vi era molta più umanità e solidarietà anche se problemi non mancavano: ma gente si rispettava e si aiutava reciprocamente molto di più rispetto ad oggi…
Questa domanda, per l’ennesima volta mi costringe a tornare indietro nel tempo a partire dalla mia figliolanza, della quale ho ricordi da quando avevo tre anni d’età. E quello di cui non posso dimenticare, è la bellezza del creato che mi circondava, per la flora e la fauna che allietavano l’universo, non ancora contaminato e a misura d’uomo. Per mantenerlo tale, inconsapevolmente contribuivano i poveri contadini costretti a lavorare i latifondi dei nobili, i quali pretendevano che non venisse toccata una foglia di quello che possedevano, quindi la povera gente, pur di non subire eventuali ritorsioni del padrone, non si azzardava di tagliare o bruciare qualcosa prima di aver chiesto il permesso al proprietario. Per questo motivo, il territorio così salvaguardato, non era altro, che un’oasi bella come l’Eden.
La gente lavorava i campi trovandosi solidali tra loro, perché si aiutavano senza nulla pretendere, se non il misero pranzo di mezzogiorno, quando si prestava la propria opera per tutta la giornata.
Il nostro territorio era povero si, ma pieno di umanità, perché nonostante non si possedesse nulla, si accoglieva sempre il misero; un mendicante non veniva mai mandato indietro senza niente, e quando c’era un pezzo di pane, si condivideva con chi soffriva la fame. Non circolavano brutti ceffi per molestare ragazze o donne giovani che liberamente partivano di casa per andare in campagna anche fuori mano, o da una parente. I bambini potevano fare altrettanto girovagando anche per le vie del paese senza incorrere in qualcuno che potesse mettere in pericolo la loro innocenza.
Nelle case non si rubava, e non perché come qualcuno ancora asserisce che la legge vigente era quella fascista. In verità non accadeva perché chi abitava era padrone solo della povertà che aveva addosso, quindi non c’era niente da depredare. Si può dire lo stesso delle costruzioni rurali, perché gli eventuali animali di grossa taglia erano proprietà del signorotto, e siccome non si scontravano tra loro, il fenomeno dei furti era pressocchè inesistente.
Era il tempo in cui l’emigrazione verso altri stati ed altri continenti era in piena come un fiume, che continuamente dissanguava il nostro territorio delle forze lavoro e di quelle famiglie che si lasciavano alle spalle affetti che non avrebbero mai più rivisto. Questo insieme di cose spesso ha contribuito a formare il carattere degli abitanti, tale da cercare il meglio per sé stessi e le famiglie. Infatti questo processo è approdato ai giorni nostri, con tanti vantaggi per tutti e in particolare per i giovani, che ormai non desiderano più un pezzo di pane, ma si danno ai paradisi artificiali. Non indossano più l’abbigliamento del fratello a cui ormai sta stretto. Non gli basta più la cena in casa, sicuramente molto più gustosa di quella di una volta, pretendono andare in pizzeria. Non gli basta vedere in santa pace la televisione o ascoltare musica, devono andare in discoteca per sballarsi. Non amano avere rapporti diretti con amici, il telefonino ha soppiantato una pacca sulla spalla, ha abolito una sana chiacchierata a cavalcioni su un muretto, non consente un gesto d’amore ed un bacio reale ad una ragazza.
Queste nuove tendenze e nuove tecnologie, stanno spersonalizzando l’essere umano che è diventato un automa, senza affetti e per giunta scontroso, il quale sembra governato da un’intelligenza altro che aliena, ancor peggio, perché incomprensibile e distruttiva.
Dell’ambiente posso solamente constatare che l’abbiamo reso una discarica a cielo aperto, e i miasmi veramente stanno raggiungendo altre galassie. Conseguenza di ciò, è l’annientamento della persona che nonostante le scoperte mediche e scientifiche di ogni giorno, soccombe a causa di malattie sconosciute che si manifestano anche con epidemie planetarie alle quali, spesso non si riesce a porre un freno e debellarle per non mettere in pericolo il genere umano.
Io ti ho conosciuto diversi anni fa grazie all’amico in comune Franco Pagnotta. Sono onorato di essere tuo editore. So che hai del materiale ancora da proporre. Senza anticipare contenuti dettagliatamente, dicci però qualcosa…
Mario, aver fatto la tua conoscenza, è per me un immenso piacere, e ti prego di credere che le mie parole, non sono di circostanza, lo sento nel profondo del cuore, anche perchè l’occasione mi ha dato una spinta a non cedere alla disperazione. Anzi mi ha incoraggiato a proseguire su questa strada intrapresa, per me non facile, ma con la voglia e lo spirito giusto di vincere ogni difficoltà, e raggiungere risultati soddisfacenti. Quindi ti ringrazio di vero cuore e ti sarò eternamente riconoscente.
Per quanto riguarda ciò che ancora non ho pubblicato, posso dire che ad eccezione delle ultime due voci di quanto appresso, l’altro è materiale già pronto per la stampa. Di questo faccio un breve cenno:
1 – Terre e genti del sud, è una raccolta di poesie in lingua sul tema dell’emigrazione.
2 – altra raccolta di poesie in lingua a tema vario.
3 – ancora una silloge di poesie in lingua a tema vario.
4 – raccolta di canti religiosi vernacolari della tradizione.
5 – raccolta di saggezze popolari religiose in dialetto.
6 – 2 commediole di un atto ciascuna in vernacolo .
7 – 1 raccolta di novelle non ancora completa.
8 – 1 romanzo in fase di stesura.
Un’altra cosa. Sei molto apprezzato anche come autore di recensioni. Ne ho lette tante e pubblicate tante sul mio blog.
In merito ai libri, che per tua gentile concessione ad oggi ho avuto modo di leggere. Per alcuni di essi mi sono umilmente permesso di esprimere alcune mie riflessioni sulle opere in oggetto. E le ho redatte con la consapevolezza che non possono essere delle vere e proprie recensioni, perché non mi ritengo all’altezza di poter esprimere simili giudizi. Per me è solo un modo di sostenerti moralmente ed avvalorare le tue scelte editoriali, nonché l’opera culturale che svolgi in questo territorio difficile da condurre al suo stesso bene, e che solo per questo, meriteresti un aiuto da parte delle autorità locali.
Durante presentazioni di libri di altri autori spesso intervieni e nel dibattito aggiungi sempre qualcosa di interessante.
Sempre in virtù della cortesia che mi usi per poter leggere con attenzione i libri di cui sopra, in questo modo mi dai l’opportunità di poter prendere visione del contenuto ancor prima della presentazione e quindi trovo sempre un modo di esprimere una visione personale, di una parte o dell’intera opera presentata al pubblico.
Cosa stai leggendo in questo periodo?
Prima che mi mandassi la presente, da qualche giorno stavo già leggendo alcuni libri di narrativa, che un amico scrittore mi ha concesso di leggere e sui quali gli esprimo la mia opinione.
Un autore vibonese che ultimamente ti ha emozionato, indica sia un poeta sia un narratore.
In questi ultimi tempi ho avuto modo di conoscere personalmente alcuni scrittori del vibonese, i quali, sono dei veri e propri vulcani inesauribili per la fantasia usata e per la feconda verve narrativa. Però, non toccano il cuore del lettore, quindi alla fine non resta niente, se non la sensazione di aver letto un qualcosa che somiglia molto a una pagina di cronaca di cui presto o tardi, ci si dimentica.
Invece c’è di bisogno che rimanga impresso, in modo che sia il seme che una volta sparso dia frutti d’ogni bene per chi ne ha di bisogno.
Attualmente nel nostro territorio, conosco un solo autore che gli è congeniale andare oltre la struttura narrativa, perché i suoi racconti fanno vibrare le corde dell’anima, non sono libri di avventure o di fantasia, ma il vissuto di ogni ragazzo o adulto di questo territorio, che immediatamente dopo la seconda guerra mondiale ha dovuto compiere delle scelte di vita uniche ed irripetibili. Si è dovuto accontentare del poco che si aveva,e degli umili giochi da condividere con il resto dei congiunti o di altri piccoli amici che possedevano ancor meno. Ha dovuto tirar la cinghia per il magro desco. E per la festa del paese, magari ha calzato scarpe solo lucidate. Il suo vissuto è molto simile al mio, quindi posso dire che eravamo i ragazzini che avrebbero desiderato cose solo sognate, e mai sarebbero diventate realtà. Siamo quegli stessi adolescenti che divenuti adulti, abbiamo dovuto lasciare gli affetti più cari per un sogno o un pezzo di pane.
L’autore a cui alludo è Franco Pagnotta di Filandari (VV), e lo menziono, non perché gli voglio rendere la cortesia che mi ha già usato, ma perché sono convinto della mia scelta per giunta confermata ampiamente dalle riflessioni, che in tempi non sospetti, mi sono umilmente permesso a redigere sulle opere che ha portato a conoscenza del vasto pubblico che lo segue, e al quale auguro ancora tanta voglia di regalarci il fior fiore della sua saggezza.
Per quanto riguarda la poesia, non mi è difficile scegliere un autore vibonese contemporaneo che ha scritto qualcosa di molto bello. Si tratta di Michele La Rocca, che a proposito dell’amore, ha osannato la figura della sua donna come meglio non si può. E lo ha fatto con molti componimenti, con i quali tocca nel profondo la sensibilità dell’anima che si estasia per la delicatezza dei contenuti e l’alta liricità raggiunta in alcuni di essi, dai quali si capisce che l’autore, forgiato da una profonda conoscenza del linguaggio poetico e letterario, con padronanza assoluta ne ha tessuto la trama, senza pavoneggiarsi per questa sua eccellente dote, che ha applicato con l’umiltà di chi nel migliore dei modi vuol manifestare il proprio stato d’animo, profondamente prostrato da inguaribile doglianza.
Grazie Andrea.
Ad Maiora.
m.v.
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