L’età della pubertà era intorno ai tredici-quattordici anni, raramente prima, anche per scarsa e/o incompleta alimentazione.
I fidanzamenti, spesso, erano combinati dai genitori. Essenzialmente, come detto, si teneva conto di alcune cose: far sposare un giovane o una giovane di buon partito (chi possedeva terreni, animali, casa…). Però, spesso, non si concepiva né si accettava che una persona potesse “… ‘ncianari u scaluni”, cioè fare la proposta di matrimonio a qualche persona di ceto sociale diverso!
Un problema piuttosto spinoso, ma esistente in quasi tutte le famiglie, era che un fratello celibe era tenuto, quasi obbligato, a trovare marito alla sorella nubile (schetta), per cui si doveva cercare e trovare una soluzione comoda, di parte, e tale da poter fare un matrimonio “dubbru”, ossia che un fratello e una sorella potessero sposare una sorella e suo fratello! Questa era a dubbrera. Quasi per un impegno contrattuale tendente a “legalizzare” l’atto di fidanzamento, il futuro sposo mandava u ‘mbasciaturi a casa della futura sposa per chiederne la mano, per suo conto.
PRIMENTRATA.
“Concordato” il fidanzamento, questo veniva ufficializzato con l’atto formale della “prima entrata” (a primentrata), cioè, in un giorno concordato, il fidanzato, con i propri familiari e parenti più stretti, gli zii, si recava alla casa della fidanzata. Poteva accadere che la fidanzata fosse di un altro paese, e allora la primentrata costituiva l’occasione per conoscersi tutti i parenti. Ognuno portava un regalo alla fidanzata. Il fidanzato dava, e riceveva, l’anello di fidanzamento. Si compiva così l’atto ufficiale e formale del fidanzamento (u singu). Si realizzava il coronamento di un sogno d’amore, forse sbocciato, ma quasi certamente maturato con sguardi fugaci, magari per strada o in chiesa nel corso della messa o di qualche funzione religiosa. Il fidanzamento poteva durare anni, e si arrivava al matrimonio quando era certa, per la coppia, la possibilità di mantenere una famiglia.
MATRIMONIO.
Gli invitati, prima della cerimonia religiosa, andavano all’abitazione dello sposo e della sposa. Qui si beveva il rosolio (rasoliu) e si mangiava qualche dolce: taralli, pastette, e poi si andava in chiesa. Dopo la cerimonia religiosa, tutti gli invitati si recavano nella dimora degli sposi. Gli sposi si affacciavano dal balcone e/o da una finestra per omaggiare, con il lancio di dolci, le persone e i tanti bambini che li salutavano dalla strada sottostante. Quindi aveva inizio la festa con consumo di rosolio, taralli, pastette, vino, ceci secchi (ciciri calia), lupini, arachidi (manisi), fichi secchi. Si gozzovigliava fino a sera. Poi gli invitati davano il regalo agli sposi, che consisteva in una offerta in denaro, e se ne andavano. Quindi gli sposi, con i familiari, aprivano le buste con le offerte in denaro. Il primo giorno dopo il matrimonio gli sposi, tradizionalmente, pranzavano con brodo e carne di gallina. Ciò avveniva nella propria abitazione o a casa dei genitori. Per qualche giorno rimanevano in casa, a volte la sola sposa perché il marito andava a lavorare, per ricevere la visita di amici e conoscenti. Generalmente il regalo delle comari consisteva nel dono di una gallina, affinché la novella sposa cominciasse a formare un proprio pollaio.
Pasquale Vallone
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