Ho realizzato una tanto lunga quanto piacevole e interessante intervista; protagonista: Teofilo Ruffa, drapiese trapiantato a Roma, personalità di spicco del nostro territorio, personaggio che ha avuto un ruolo di rilievo nel panorama politico anche nazionale, testimone di un’epoca.
Teofilo, che tra le altre cose è uno degli autori della mia casa editrice, racconta tutto il percorso della sua vita: l’infanzia, gli studi a Roma, l’esperienza nel PCI, l’attività giornalistica, i rapporti coi massimi dirigenti del partito, il lavoro alla Camera dei deputati e – non da ultimo – il legame col luogo natio.
Egli è un testimone oculare di decenni fondamentali per la nostra storia: ha assistito a cambiamenti forti, non sempre accettati serenamente, spesso dolorosi. Con lui abbiamo anche parlato della grande (e intramontabile) idea comunista, dei motivi della sua crisi-fallimento e della sua possibile rinascita in un futuro, magari non prossimo.
L’intervista, arricchita da aneddoti, spesso è stata interrotta da qualche singhiozzo: Teo è una persona molto emozionale, specie quando parla della sua terra non riesce a portare a compimento il discorso senza bloccarsi e tirar fuori qualche lacrima.
Leggetela; leggetela con attenzione questa intervista: ne vale la pena.
Grazie Teo.
Mario Vallone
Teofilo Ruffa, giornalista, scrittore, sempre legato alla sua Calabria, a Drapia in particolare, luogo dove è nato e dove ci torna oggi molto spesso. Parlaci anzitutto della tua infanzia a Drapia e della decisione di trasferirti a Roma per completare gli studi…
Non posso negarlo: sono legato alla Calabria, ai suoi paesaggi straordinariamente dissimili: strapiombanti scogliere sul Tirreno, arenili immensi sulla costa ionica; abetine sulle Serre e steppe riarse del Marchesato; lussureggianti boschi nella Sila e vertiginose gole in Aspromonte. Non so quale altra regione italiana possa vantare un simile tesoro. In questa regione, che negli anni giovanili ho percorso in lungo e in largo, sono nato: a Drapia. La mia era una famiglia di artigiani, ‘i ‘mbastari’: mio nonno e mio padre costruivano some per asini e muli. Su commissione e su misura; ma anche in serie per portarli alle fiere di bestiame della zona, quelle di Zungri e ’di Chiuppi’ (Mesiano). Ma la mia prima infanzia non la trascorsi a Drapia, bensì a Barbalaconi, piccolo borgo del Comune di Ricadi.
Come mai?
Nei primi anni ‘40, la mia famiglia si trasferì a Barbalaconi per seguire un fratello di mio padre, Gerardo, ’abbati Cilardu’, che di Barbalaconi era stato nominato Parroco. Rientrammo a Drapia agli inizi degli anni ’50, ma io in quegli anni ho vissuto a Tropea, ospite di una zia di mio padre, per poter frequentare, previo il cosiddetto ‘esame di ammissione’, la scuola media; la ‘media dell’obbligo’ non esisteva ancora. In quel periodo trascorrevo a Drapia solo i fine settimana e le vacanze. Fu il periodo della mia ‘scoperta’ di Drapia. Cominciai ad aggirarmi per i suoi vicoli, per le sue campagne, per la collina che la sovrasta, per i dirupi, pieni di piante di capperi, per i boschi, per gli affacci sul mare e su Tropea. Vedere il mare dall’alto, con lo Stromboli sullo sfondo, fu per me una scoperta. Conoscevo il mare, certo, e, avendo vissuto a Barbalaconi, non mi era ignoto quell’autentico tesoro della natura che è (o fu?) Capo Vaticano, il suo mare, le sue spiaggette, le sue scogliere. Barbalaconi è un borgo interno: piccolo, grazioso, ma il mare non si vede…
Amore per Drapia leggermente tardivo…
Non lo nego. Talvolta, riandando a quel periodo – l’età incalza, la nostalgia pure – si fa vivissimo il ricordo di quelle scorribande quando ai miei occhi il mare si infilava da ogni dove, i dirupi mi apparivano apocalittici, mentre una luce dorata e intensa disegnava contorni ombre e mi sembrava irradiasse ulivi e ginestre… Perché Roma, mi chiedi. Perché pensavo che a Roma avrei potuto trovare qualche ‘lavoretto’ per non pesare sulla famiglia, primo di sei figli, che in quel periodo aveva più di un problema economico: l’attività di mio padre era andata in crisi. Anche nel nostro territorio cominciavano ad apparire “Ape Piaggio’’ e furgoncini vari; l’utilizzo di asini e muli andava via via scemando: i basti non servivano più. Al mio primo anno a Roma, grazie a una “spintarella” riuscii ad ottenere un incarico di “istitutore” presso il Convitto Nazionale di Piazza Montegrappa (vitto, alloggio, 22.000 lire al mese, più una indennità di 250 lire per quella nottata in cui toccava dormire in camerata, assieme alla classe che ti era stata affidata. Per me non era poco.)
Hai vissuto il movimento del sessantotto, quindi hai iniziato a lavorare alla Camera dei Deputati… raccontaci qualcosa di questi anni.
Il ’68, dici. Ma io devo partire dal ’66. Fu l’anno in cui abbandonai il PSI. Anni prima mi ero iscritto a Gasponi, nella sezione fondata da Saverio Di Bella. Nel 1966 il PSI decise di unificarsi col PSDI e di dar vita al PSU. Non aderii, come non avevo aderito allo PSIUP, nato nel ’63, dopo la formazione del primo governo DC-PSI. Nel 1966, con altri compagni di provenienza PSI sparsi per l’Italia, pochi in verità, scegliemmo di far parte del Movimento dei Socialisti Autonomi: guardavamo con estremo interesse alla evoluzione del PCI dopo la pubblicazione del ‘Memoriale di Yalta’ (Togliatti, 1964). Non avevamo dubbi sul fatto che la nostra militanza, prima o poi, si sarebbe esercitata nel PCI.
In che anno ti iscrivesti al PCI?
Nel 1972, dopo il Congresso di Milano, quello che elesse Segretario Enrico Berlinguer. Ma torniamo al ’68. Perché sostengo che il mio ’68 comincia nel ’66? Nell’aprile di quell’anno, finiti gli esami, stavo ultimando la tesi di laurea, bazzicavo ancora l’Università. Avevo ottenuto da poco una collaborazione con un settimanale. Al Direttore proposi un servizio sulle elezioni studentesche per il rinnovo degli organismi rappresentativi di facoltà e di ateneo: era in corso la campagna elettorale. La mattina del 26 aprile di quell’anno mi aggiravo per i viali della Sapienza in cerca di curiosità, dettagli, previsioni. Tra il palazzo del Rettorato, la statua della Minerva e la facoltà di Lettere, gli studenti di sinistra stavano effettuando volantinaggio. D’un tratto odo urla, invocazioni di aiuto, vedo un accorrere di forze di polizia, verso la facoltà di Lettere. Ai piedi della scalinata che porta alle aule giace un corpo inanimato: è quello di Paolo Rossi, diciannovenne studente di Architettura. Paolo era stato scaraventato giù dalla scalinata da una squadraccia di neofascisti e nella caduta aveva sbattuto la testa: morirà nella notte. Gli universitari di sinistra, riuniti in assemblea, partecipai anche io, decidono di occupare l’Ateneo: è l’avvio di una reazione a catena che non si fermerà fino al movimento del ’68. Partecipai attivamente alle lotte di quella stagione e a più di una occupazione di facoltà e istituti. Ebbi un paio di denunce rimaste senza esito.
Ma non siamo ancora al ’68…
Vero. Ma il movimento nato dopo la morte di Paolo Rossi non si esaurì nel ’66. Da lì prese avvio quella stagione più ampia che segnò, non solo in Italia, la ribellione delle nuove generazioni attratte dall’ideale di rivoluzionare la società e la politica. Quel Movimento partì dalle Università, ma si estese alle scuole, alle fabbriche, alle piazze, contestando valori tradizionali e istituzioni. Io l’ho vissuto come la ribellione di una generazione e, per i miei personali trascorsi di militante di partito, come un fallimento delle politiche riformiste del primo centrosinistra. Riconosco che questa mia era una analisi parziale, se non infondata, dacché il ‘movimento del ’68’, partito dalle Università degli USA, si sviluppò con alterna fortuna, diversa durata, esiti contrastanti, in tutta Europa ed ebbe il suo momento clou nel maggio francese.
E il tuo lavoro alla Camera dei deputati?
Ebbe inizio nel settembre del 1972, presso il Gruppo parlamentare del PCI: addetto stampa, si diceva così, allora. Ho appena ricordato che mi ero iscritto al partito nelle primavera di quell’anno. Fui chiamato a Montecitorio da Alessandro Natta, neocapogruppo: lo avevo conosciuto due anni prima, quando gli avevo chiesto e, con mia grande sorpresa, mi aveva concesso una mini-intervista sulle sue preferenze in tema di musica leggera e canzonette. Forse era stato colpito dalla mia sfacciataggine. L’inizio non fu facile: entravo in un mondo a me sconosciuto, con riti e rigidità insospettate. Per darti un’idea: le interviste le potevano concedere solo i vertici del partito; gli stessi Presidenti dei Gruppi parlamentari potevano intervenire, pressocchè esclusivamente, sulla stampa di partito: l’Unità e Rinascita. L’attuale Presidente della Corte Costituzionale, Augusto Barbera, deputato PCI per cinque legislature, ogni volta che capita di incontrarci, mi ricorda, divertito, la circolare della Presidenza del Gruppo a tutti i deputati con la quale si raccomandava loro di parlare con i giornalisti solo per mio tramite. Poi le cose cambiarono, non per mio merito, ma per l’evoluzione del PCI, anche nei rapporti con la stampa, definita “borghese”. Il mio lavoro divenne più facile e mi regalò più di una soddisfazione.
Per esempio….
Rapporti più distesi con i colleghi della carta stampata, delle radio, delle televisioni e, sul piano interno, quella di vedermi proporre l’incarico di progettare la riorganizzazione-potenziamento della intera struttura di servizio del Gruppo e di assumerne la direzione, lasciando l’ufficio stampa. Passai giornateda incubo. La prima tentazione fu quella di dire: no, grazie. E lasciare il Gruppo. Avevo ancora la possibilità di tornare al mio primo lavoro, ma a condizione di trasferirmi a Milano o di fare il pendolare. Ne discussi lungamente con mia moglie e alla fine accettai la proposta: da Capo ufficio stampa, così era cambiata la definizione del mio ruolo, divenni Direttore Generale del Gruppo, figura professionale per quei tempi inedita, sconosciuta sia alla Camera che al Senato.
Incarico pesantuccio, mi pare di poter dire…
Non c’è dubbio. Questo incarico mi obbligò ad avere rapporti non più solo con colleghi, ma con i vertici politici e amministrativi della Camera e degli altri Gruppi. In questa veste conobbi tre futuri Presidenti delle Repubblica, uno solo del mio partito, Giorgio Napolitano, con i quali ci si dava del tu. Quando, maggio 1992, pochi giorni dopo la strage di Capaci, andai a salutare il Presidente Scalfaro, appena eletto Capo dello Stato, che lasciava Montecitorio per trasferirsi al Quirinale, egli mi fece il più gradito complimento che abbia mai ricevuto: “Ti ho apprezzato e ti apprezzo perché non sei uomo di vetrina, ma da magazzino”. Non trovai modo e parole per ringraziare, ma in quella valutazione mi sono riconosciuto e mi riconosco. Non ho mai cercato le luci della ribalta. Qualche anno dopo il Presidente Scalfaro mi nominò Cavaliere della Repubblica.
Che ricordo hai, in particolare, del segretario Berlinguer? Hai avuto modo di incontrarlo di persona?
In ragione del mio lavoro ho avuto modo di incontralo diverse volte. Era un deputato disciplinato, quando lo si chiamava a venire in Aula per un voto importante, accorreva, non chiedeva il perché. Ti racconto l’ultimo mio incontro con Berlinguer. È un inedito assoluto.
Racconta…
Non sarò breve. Era un caldo pomeriggio di fine maggio 1984: si era da poco conclusa alla Camera la battaglia dei deputati comunisti contro il decreto scala-mobile, il cosiddetto ‘decreto di San Valentino’ per la data, 14 febbraio, in cui era stato emanato dal Governo Craxi. Per l’ostruzionismo messo in atto dal PCI, la prima versione di quel decreto non era stata approvata entro i sessanta giorni previsti dalla Costituzione e il Governo era stato costretto ad adottarne uno nuovo. Questa seconda versione in quelle ore era in discussione al Senato. I deputati erano tutti in giro per l’Italia: era in pieno svolgimento la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. D’improvviso, e senza il consueto preavviso da parte dei suoi collaboratori, negli uffici del Gruppo arriva Berlinguer. Sorpresa e stupore tra le compagne addette alla segreteria. Mi avvertono subito della presenza del Segretario: in assenza dei vertici politici del Gruppo, anche essi impegnati in comizi, incontri, assemblee pubbliche, tocca a me fare gli onori di casa. Un po’ stupito, accompagno il Segretario nello studio del Presidente del Gruppo. “Faccio qualche telefonata…” mi dice. “Il solito whisky”?, chiedo. “Sì, grazie” e accenna un sorriso. Nell’attesa, accende l’immancabile sigaretta. Arriva il whisky. Berlinguer, come al solito, lo allunga con un po’ di acqua e, bicchiere in mano, si dirige verso un terrazzino attiguo che affaccia proprio su una delle più famose gelaterie del centro di Roma: il bar Giolitti di via Uffici del Vicario. Faccio per allontanarmi e lasciarlo alle sue telefonate, ma mi fa cenno di restare e di seguirlo sul terrazzino.
Da quello che mi stai raccontando, Berlinguer non era cosi scostante come si raccontava…
Scostante per niente, riservato sì, scostante mai. Ma riprendiamo il racconto. Lo seguo sul terrazzino. Osserviamo la folla che a quell’ora, gelato in mano, gremisce la strada. D’improvviso, mi chiede quasi in un sussurro: “Siamo riusciti a far capire fino in fondo le ragioni, politiche, oltre che di merito, della nostra battaglia contro il decreto”? “L’impegno è stato massimo, nel Parlamento e nel paese; qualche risultato, anche se non sufficiente, l’abbiamo ottenuto, abbiamo fatto cadere la prima versione del provvedimento…” osservo. Berlinguer non replica, mi guarda ma non replica. Il suo silenzio e il suo sguardo mi inducono a ritenere che giudica inadeguato il mio balbettìo. La sua domanda, aveva una dimensione più vasta del merito del decreto, del suo percorso parlamentare. Capii che i quella domanda c’era come un assillo: quanto, e come, la vicenda del decreto aveva influito e stava influendo nel rapporto tra il Partito e la società nel suo complesso, come e quanto il partito era riuscito a far capire la portata dello scontro che non era solo di merito, ma direttamente politico? Rientriamo in stanza, lo lascio alle sue telefonate e attendo nel mio ufficio. Prima di andar via vuole passare a salutare le compagne. Lo accompagno e lo accompagno anche lungo il corridoio, alla Camera i corridoi sono lunghissimi, che porta agli ascensori. Mi chiede qual è lo stato d’animo delle compagne e dei compagni di San Lorenzo. Sa che, a dieci anni dalla mia prima esperienza, sono stato di nuovo chiamato alla guida della sezione territoriale. “C’è un po’ di scoramento… il tema delle elezioni europee non è molto sentito… Prevale la rabbia per come sono andate le cose sul decreto, e anche un po’ di delusione, nonostante l’impegno e la mobilitazione…” “Bisogna reagire, reagire con forza. Bisogna mettercela tutta, ancora di più…” e sorridendo, con una espressione un po’ sardonica.: “Stai di più nel quartiere e meno alla Camera…”. Questa volta capii subito a cosa alludesse. Sapevo che non era soddisfatto di come sul piano parlamentare era stata condotta la battaglia contro il decreto e che, in ragione di ciò, i suoi rapporti con l’allora Presidente del Gruppo, Giorgio Napolitano, erano tesissimi, sull’orlo della rottura. Mi guardò e, quasi per attenuare la portata dell’esortazione a stare di meno alla Camera, aggiunse: “Se i compagni ti hanno voluto di nuovo alla loro guida è perché ti stimano, hanno fiducia. Non li deludere… Parlate con tutti, non solo con i compagni, non solo con quelli che materialmente vengono colpiti dal decreto. La campagna elettorale è una straordinaria occasione di confronto anche con chi è lontano da noi. Bisogna mettercela tutta”. Ripenso spesso a questo scambio di battute. E ogni volta mi si stringe il cuore. Lui, anche in quelle giornate, ce la mise tutta, fino allo spasimo. Fino a quella tragica serata di Padova del 7 giugno, quando durante un comizio fu colpito da emorragia cerebrale. Morì l’11 giugno. Una agonia durata quattro giorni che tenne col fiato sospeso l’intero Paese.
Arriviamo agli anni ’90. Cade il muro di Berlino. Dal PCI nascono mille rivoli ma il partito principale scaturito da esso sono i DS. Tu come hai vissuto quella svolta, non solo come militante ma anche come dirigente?
Della cosiddetta “svolta della Bolognina, novembre 1989, non mi convinsero modo e momento. Troppa emotività. Eccessivamente lungo il percorso: due anni. E inutilmente complicato: due Congressi. E forse queste scelte e questo modo di procedere, non sono stati estranei a quella operazione suicida che al Congresso conclusivo, Rimini 1991, fece mancare a Occhetto i voti necessari a essere eletto Segretario. Ma appoggiai la ‘svolta’, e votai SI’ al cambio del nome. Non mi convinse quella improvvisa accelerazione. Nel partito era in corso da qualche anno la discussione, forse troppo a lungoprotrattasi, sul suo essere, sulla sua collocazione internazionale. Ricordo, alla rinfusa, alcune prese di posizione di Berlinguer: dicembre 1975, manifestazione pubblica in onore di Dolores Ibarruri, la ‘Pasiobaria’: Berlinguer è necessario liberarsi, “con audacia e intelligenza da scolastiche applicazioni della dottrina, da orientamenti non più adeguati all’esperienza e alle nuove condizioni storiche”; giugno 1976, intervista a Gian Paolo Panza, Corriere della Sera, sul sentirsi “più sicuro sotto l’ombrello della Nato”; 1978 intervista a Eugenio Scalfari, Repubblica, “rinnovarsi nella continuità”. E ancora lo strappo da Mosca, mi pare 1981, quando, a Tribuna Politica, afferma che si è esaurita “la spinta propulsiva” della Rivoluzione di ottobre. Potrei continuare per ore nel ricordare scelte e decisioni del lento, forse troppo lento, ma lineare, percorso del PCI verso la sua piena autonomia. Potrei continuare a lungo, ma riconosco che questo processo non si sviluppò con coerenza dopo la morte di Berlinguer. Anzi, il suo successore, Natta, si recò a Mosca, in un viaggio preparato da Cossutta.
Dopo Natta, Occhetto. Un salto generazionale non da poco…
Quel ’salto’ riguardò la generazione di Napolitano, Rechlin, Lama, personalità di assoluto rilievo…Lo giudicai necessario. C’era grande fermento nel partito, si discuteva di tutto, pure del nome, anche se la questione ‘nome’ non veniva annoverata tra le più urgenti. Tanto che lo slogan-parola-d’ordine del 18° Congresso, quello che elesse Occhetto Segretario, (Roma, marzo 1989) recitava: “Il nuovo PCI in Italia e in Europa. È il tempo dell’alternativa”. E i manifesti di propaganda della campagna elettorale per il Parlamento Europeo, qualche mese dopo, a giugno, affermavano: “Dai forza al nuovo PCI”, “In Europa. A sinistra con il nuovo PCI”. In quel giugno, il nome, Partito Comunista Italiano, nessuno pensa di cambiarlo. Sempre in quel giugno, intervista a l’Espresso, Occhetto sostiene che il problema del nome “è secondario”. E Claudio Petruccioli, il suo più stretto collaboratore, membro della Segreteria Nazionale, di fatto il “numero 2“ del partito, a ottobre, in un’altra intervista, cito a memoria, afferma che sul nome non si deve scherzare e che un partito deve cambiare nome solo quando sente di avere responsabilità insostenibili verso il paese in cui opera. Che cosa è successo in quel 1989 dal marzo/giugno del “Nuovo PCI” di Occhetto, dall’ottobre del non scherziamo di Petruccioli, al novembre con la proposta, improvvisa, di cambiare nome? Due cose sul piano internazionale: la feroce repressione di Piazza Tienamen, a Pechino, nell’agosto, e il crollo del “muro di Berlino”, il 7 novembre. Su Tienamen la reazione di Occhetto fu esemplare: netta condanna e subito in piazza. La caduta del muro di Berlino fu invece vissuta come una folgorazione e, ritengo, utilizzata anche un po’ strumentalmente. Quel muro scricchiolava già da anni. Ai suoi piedi, da anni, giacevano macerie non invisibili. Ma non voglio annoiare oltre misura i tuoi lettori…
Continua, continua….
Non mi provocare, Mario. Anzi, nel montare questa amichevole chiaccherata, taglia senza pietà. Ma non voglio sfuggire, e come potrei, all’ultima parte della tua domanda sul come ho vissuto ‘la svolta’ non da un punto di vista generale, da dirigente, ma nella concreta, quotidiana esperienza della Sezione PCI del quartiere San Lorenzo a Roma.
Chi vinse a San Lorenzo?
A San Lorenzo vinse il NO. Per dir così, subii una sconfitta politica poiché la mia posizione, pur problematica sul metodo, come ti ho appena detto, era di dire SI’ alla ‘svolta’, SI’ al cambio del nome. Fu un confronto aspro, lungo, duro, con il rischio, sempre incombente di rotture anche sul piano personale. Questo rischio sapemmo evitarlo.
Riusciste ad evitarlo?
Si, ci riuscimmo. E ci riuscimmo, ritengo, in forza del lavoro compiuto negli anni precedenti quando, oltre alle lotte vittoriose per dotare il quartiere di servizi essenziali: asilo nido, consultorio familiare, centro anziani, acquisizione al Comune di un parco di proprietà privata, abbattimento delle baracche, ma anche perché fummo fortemente impegnati nella difesa dell’agibilità democratica del quartiere.
Agibilità democratica, in che senso?
San Lorenzo tra il 1977 e il 1981, visse momenti drammatici: la “cacciata di Lama” dalla Sapienza, l’Università è nel quartiere, lo sta fagocitando; l’assassinio dell’agente di P.S. Passamonti; l’assalto, con mitra e bombe, da parte dei terroristi neri guidati Giusva Fioravanti, alla redazione di Radio Città Futura: cinque donne ferite, una resa invalida; la sparatoria contro la sede della Sezione Universitaria del PCI; l’assalto, da parte dell’Autonomia Operaia alla Sezione territoriale del PCI; ripetuti scontri, non sempre verbali, tra noi del PCI e attivisti del Collettivo di via Volsci. Anni nei quali ogni qual volta programmavamo uscite per volantinaggi, affissioni, giornali parlati o altre iniziative pubbliche, la prima preoccupazione era quella di predisporre ‘misure di autodifesa’.
Anni di piombo, vennero definiti…
Si, anni in cui a noi militanti del PCI, non fu risparmiato nulla: pensa all’omicidio, del compagno Guido Rossa assassinato a Genova dalle Brigate Rosse il 24 gennaio 1979. A San Lorenzo subimmo minacce, incendi di automobili, inseguimenti, furti. Per un lungo periodo, a sera, terminata l’attività politica, non si è andati più in trattoria, come da antica tradizione: era necessario accompagnare a casa, in gruppo, il segretario della Sezione, compagno più direttamente minacciato. Questo cemento ci ha legato e, anche se non ce l’ha fatta a impedire la diaspora seguita alla ‘svolta’, e non poteva farlo, ha consentito di mettere al riparo i rapporti interpersonali.
Vi frequentate ancora?
Con quelli rimasti nel quartiere, sì, quasi metodicamente. Con quelli trasmigrati in altri quartieri della Capitale un po’ meno. Due anni fa, 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCI, ‘svoltisti’ e no, abbiamo preparato un volume fotografico “Il popolo di Gramsci Togliatti Longo Berlinguer”, che ricostruisce la storia dei comunisti di San Lorenzo dal 1921 al 1989. Da quella iniziativa è nata anche una chat ‘libro fotografico’, tutt’ora attiva che ci consente contatti quasi quotidiani e periodici incontri, mangerecci ma non solo.
Oggi il Comunismo praticamente è sparito o comunque rimane concretamente ben poco di ciò che era la grande idea comunista. Secondo te, in futuro, potrebbe in qualche modo riattecchire su scala globale questo movimento? Se si, in che modo, attraverso quali modalità?
Non mi chiedere di fare il profeta, ma non sfuggo al tuo incalzare. La grande idea rimane. Ha attraversato la storia dell’umanità: da Platone a Tommaso Moro, al nostro corregionale Tommaso Campanella, alla elaborazione di Marx ed Engels. Ma “il comunismo realizzato”: Unione Sovietica, Paesi dell’Est europeo, Cina, Cambogia e altri luoghi, ha fatto non solo rinsecchire l’idea, ne ha avvelenato le radici. C’è poco da sperare per il futuro prossimo. Non so se e quando la ‘grande idea’ comunista riattecchirà. Di una cosa sono certo: l’idea un sistema sociale nel quale i mezzi di produzione e quelli di consumo siano sottratti alla proprietà privata e trasferiti in proprietà comune; l’idea che la gestione e distribuzione di essi venga esercitata nell’interesse di tutti i suoi membri, non è morta, non morirà. Troppe ingiustizie, troppa miseria, troppe diseguaglianze, caratterizzano il mondo in cui viviamo. Pensa solo alle migrazioni, che non riguardano l’Italia, Lampedusa o Cutro e non sono un problema di ordine pubblico. In questi anni, anni di opulenza per una parte del mondo, milioni di essere umani, rischiano ogni giorno la vita, fuggono da miseria e oppressione, non solo dal continente africano, quello più vicino a noi. Invadono il mondo dei ‘ricchi’, ne evidenziano contraddizioni e limiti. Stentano ad integrarsi, anche quelli di seconda o terza generazione, come dimostrano le periodiche rivolte nelle banlieuses parigine, nei quartieri periferici delle città tedesche e, allo stato in minor misura, nelle periferie delle grandi città italiane. Sorgono ghetti, imperversa lo sfruttamento, monta la rabbia. E le guerre…Non so dirti se, come, dove, quando, l’ideale comunista risorgerà. Una certezza, non entusiasmante, mi accompagna: a questa resurrezione, ovunque dovesse manifestarsi, in qualunque epoca dovesse prender forma, io, per ragioni anagrafiche, non potrò assistere.
Parliamo ora del tuo legame con Drapia, tuo paese natio, dove – come detto – sei nato e dove oggi ti rechi spesso, specie in estate. So che hai sempre avuto a cuore questi luoghi e li hai sempre supportati, promossi e sostenuti. Come lo hai vissuto in passato e come lo vivi ora questo legame?
Ho trascurato Drapia per troppo tempo. È vero, come tu dici, che ho supportato Drapia e il territorio, anche al di là del nostro Comune, quando ho potuto, come ho potuto. Ma non mette conto parlare di ciò. In questa fase della mia vita rimpiango di aver trascurato Drapia per molto tempo. Mi rincuora il fatto che, nonostante ciò, essa mi aspetta, ogni anno, come se non l’avessi mai lasciata. Scriveva Cesare Pavese ne ‘La luna e i falò’, qui la citazione è precisa: “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nelle genti, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. E Drapia mi ha aspettato, e mi aspetta, ogni anno…La pianto qui perché, a 82 anni suonati, sono diventato facile preda della commozione.
Secondo te, persona che ama e conosce la zona, di cosa ha bisogno oggi Drapia, inteso sia come paese capoluogo, sia come territorio comunale?
Drapia capoluogo dovrebbe cominciare a pensare a come ridurre il più possibile e a come contenere gli effetti collaterali, non tutti positivi, della realizzazione, che sembra imminente, della strada di collegamento diretto con Tropea: aumento del traffico, necessità di parcheggi, impennata nella compravendita delle antiche residenze a cui, inevitabilmente, seguirà la ristrutturazione. Il rischio concreto è che vengano cancellate le peculiarità del Corso e delle viuzze, tessuto urbano che ha pochi eguali nella nostra provincia. In secondo luogo recuperare edifici iconici come ‘U Curtigghiu’, lungo il Corso e la Chiesetta, della Madonna del Carmine, proprietà privata, di fronte Municipio. E poi, la valorizzazione di luoghi e percorsi naturali, ricchezza paesaggistica di non scarso rilievo che potrebbe diventare anche fonte di ricchezza materiale. Sull’intero territorio comunale: qualche settimana fa il Consiglio Comunale ha approvato Il ‘Piano Strutturale Comunale’ (PSC). È lo strumento giuridico-progettuale che guiderà, superato il vaglio della Regione, lo sviluppo del nostro territorio. Dovrebbe garantire una crescita ordinata, razionale, capace di impedire scempi come quelli che si sono realizzati, o sono in fase di realizzazione, nella Piana di Sant’Angelo; di contrastare la tendenza a far divenire il nostro territorio, un immenso ‘villaggio vacanze,’ caotico d’estate, deserto d’inverno. Urge adeguare il sistema viario alle nuove necessità, e garantirlo dal punto di vista della sicurezza. Il nostro territorio è ricco di meraviglie e cultura che andrebbero valorizzate, messe a sistema. Pensa solo allo straordinario patrimonio archeologico, che Agostino Gennaro ha magistralmente documentato in “Tesori da valorizzare”, da te pubblicato. Ricordo, alla rinfusa, dimenticando più di qualcosa: la necropoli di Torre Galli, la Grotta di ‘Santu Liu’, le tombe tardo antiche. E le chiese…Non solo quelle parrocchiali, ma anche Sant’Agata, Santu Cocimeu, la chiesetta di Sant’Angelo. E i ‘luoghi dell’anima’, come i mulini di Drapia e di Brattiro’… Un museo, accelerando il lavoro che, mi si dice, è in corso. E i percorsi naturalistici, a partire dal ‘Cammino di Ulisse, devastato dagli incendi dell’estate scorsa. È utopia mettere in rete tutta questa ricchezza, superando ogni campanilismo? È utopia pensare a una app? Ci sarebbe di che riempirla. Il nostro territorio non è solo mare, non è solo ‘sagre’, pur necessarie. È anche natura e storia.’
Assieme a me (io solo in veste di editore e impaginatore) abbiamo realizzato un magnifico libro fotografico, presentato nel corso di una partecipatissima serata tenutasi a Drapia nel 2022. Quella presentazione è stata un doveroso e sicuramente gradito omaggio, soprattutto alla tua persona… parlaci di questo libro e di quella serata.
Mi metti in difficoltà: non amo parlare di me e delle cose che faccio, ma non posso sottrarmi alla domanda. Soprattuto perché viene da te che della pubblicazione ‘Drapia. Frammenti di storia’ e della sua presentazione in piazza sei stato, quanto meno co-protagonista. Per l’impegno e la pazienza che hai messo nella preparazione del libro, per la passione con cui ne hai condotto la presentazione in quella calda serata di agosto 2022. Il libro non mi sembra una grande opera: prova a ricostruire, su testi altrui, la vicenda storica di Drapia dalle sue origini ai giorni nostri. Credo che abbia colmato una lacuna, e che da questo dato sia nato l’interesse. Mi auguro che stimoli ricerche e studi più approfonditi. È vero, la sua presentazione in piazza fu una iniziativa partecipatissima, seguita dal pubblico con grande attenzione: due ore e mezza di discussione non sono facili da sopportare. Per me fu una serata memorabile: non per l’omaggio alla mia persona, ma perché l’ho vissuta come occasione di sdebitamento nei confronti di Drapia. Non posso negare che mi siano rimasti nel cuore la partecipazione e l’affetto dei miei compaesani.
Cosa ci dici delle altre iniziative culturali con l’associazione “Drapia in corso” che hai presieduto per due anni? Siete riusciti a promuovere un paese di poco più di cento abitanti attraverso la cultura.
È un giudizio lusinghiero, che accetto volentieri, anche a nome di tutti gli altri soci. Abbiamo gettato un seme su un terreno a Drapia mai arato. Siamo riusciti a coinvolgere i ‘drapioti superstiti’ che alle iniziative proposte dall’Associazione hanno aderito con slancio: 120 partecipanti al concorso fotografico 2022; 60 partecipanti alla visita guidata sui tornanti del ‘pettu ‘o chianu’; 75 partecipanti alla visita guidata al mulino Loiacono sulla fiumara Burmaria. Grande partecipazione allo spettacolo teatrale itinerante ‘Daprètes, i portoni parlano’. 16 partecipanti, 3 di Drapia, al concorso di pittura estemporanea del 2023. Alcuni artisti partecipanti a questa estemporanea hanno donato all’Associazione le loro opere: abbiamo organizzato un’asta di beneficenza e con il ricavato abbiamo acquistato un defribillatore che, nelle prossime settimane, verrà installato presso il Municipio. Infine, mi piace ricordare il favore, quasi entusiastico, con cui i drapioti hanno accolto l’iniziativa ‘Sognando un museo’, volta alla valorizzazione delle attività lavorative tradizionali del borgo. Due stagioni intense, ricche di risultati e partecipazione, di cui, assieme ai miei compagni di viaggio che ringrazio anche in questa sede, vado orgoglioso. Due esperienze esaltanti sì, ma per la mia età faticosissime. Per questa ragione ho lasciato la Presidenza dell’Associazione, alla scadenza del mandato biennale previsto dalla Statuto, e anche l’Associazione stessa allo scopo di fare largo a forze più giovani e fresche. In chiusura, consentimi un ringraziamento a quanti, sponsor e sostenitori, hanno voluto supportare l’Associazione e le sue attività: un grazie particolare a te, sponsor della prima ora, e a Domenica Mamone e alla Società Tropis Hotel che non ci hanno fatto mai mancare un generoso sostegno economico.
Altre pubblicazioni in vista?
Mi frulla in testa un’idea, caro Mario e, forse, prossimamente ti romperò l’anima. Penso sia giunto il momento di valorizzare luoghi e percorsi trascurati, abbandonati, maltrattati. La mia idea è, prima di tutto, provare a farli conoscere per farli amare e rispettare. Penso perciò a una sorta di ‘guida’: tante foto, poco testo, notizie storiche limitate all’indispensabile.