“Una raccolta bella da leggere”

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La PREFAZIONE del libro “Giardinu di penzèri”, raccolta di poesie di Andrea Runco.

Circa centoquaranta poesie composte nell’arco di venticinque anni (dal 1995 al 2020) ma che spaziano oltre il tempo e i luoghi, andando a sfogliare un libro, quello dei ricordi, e offrendo spunti di riflessione anche sul presente, sui mutamenti sociali e individuali e sul concetto di benessere che prescinde dall’avere, dal possedere. Questa nuova raccolta di liriche dialettali di Andrea Runco è bella da leggere, fluida e musicale nelle quartine a rima baciata o alternata, ricca di termini vernacolari, alcuni dei quali ormai in disuso, e di nomi riferiti a località o personaggi che hanno accompagnato gli anni della sua fanciullezza spensierata e piena di sogni.

“Giardinu di penzèri” è come un libro di storia, per quel suo condurre il lettore lungo un mondo che è appartenuto ai figli del secondo dopoguerra, a coloro che negli anni ’50 e ’60 avevano poco ma erano felici, perché possedevano quei valori che si chiamavano amicizia, solidarietà, semplicità e preghiere a Dio per un futuro ancora solo sognato ma possibile. “Bastava pocu – si legge infatti in una delle poesie – Nu circu i bricichetta o di coddara… nu palluni sdirrunchiatu, tri casteja di nuciji… Bastava pocu, o tempu d’a figghiolanza, quattru alivi e n’affetta di pani pe’ nt’a panza, cercavamu pocu, cà non c’era nenti, ma èrimu figghiòli sani e cuntenti”.

Il tempo del poco e della felicità, quello descritto da Runco, in contrasto con quello dei tempi moderni in cui “non si usano libri e quaderni e si cerca navigandu nta riti, ma chi è?”. E, attraverso il gioco della memoria, l’autore ci riporta atmosfere della civiltà contadina, antichi mestieri, come quello della filatrice di lino, sua nonna, che “facìa ch’i ferra coppuli e cozetti, magghi, sciarpi e mantellini” oppure tradizioni ormai soppiantate dalla tecnologia, come l’uccisione del maiale, che era una grande festa familiare: “C’è cu arrusti fìcatu e maduja – scrive Andrea nella poesia U porcu – mbeci Micu unchia a vizzìca pe’ la nduja, e tra n’assaggiu e nu bicchèri i vinu cumincia a tavulata e lu festinu”. Bellissima e istruttiva, anche, la “Faràvula du pani” spiegata ai bambini e “A timogna”, la piccola montagna di spighe di grano che pare una chioccia. Luoghi e affreschi della memoria che narrano anche di mercati e antiche fiere, come quella “di Chiuppi” quando i contadini il 21 di giugno lasciavano la mietitura per andare nel margiu adiacente alla chiesa dove si vendevano “vozzi, cannati e cortari, mortara i lignu cu rivàci e casci chi parenu nu scrignu p’e ficu sicchi o pani tostu”.

Versi, ancora, in cui lo sguardo del poeta è rivolto al cielo, con le tenere preghiere alla Madonna affinché guarisca ferite e dolori o a San Sebastiano o Santa Marina, protettrice di Filandari, perché protegga “famigghi e cotrari”. Suggestive, poi, le pennellate sulle manifestazioni della natura, come la descrizione della nevicata (“Pannizzia”) o del sole di gennaio e del vento del Poro (“queta sa furia, fermati nu pocu, fandi u nescimu armenu fora, cà non avìmu ligna pe’ lu focu”) oppure della “Notte di tempesta” in cui “sbattendu murmuriava lu cannitu e u ventu  ntrizzava àrburi e arrami” . Tra le numerose pagine della raccolta, non manca, una vena di ironia, che emerge prepotente in alcune composizioni riferite alla modernità, come nella esilarante “I figghioli i mo chi aricchini nd’annu e labbra e o vijìcu, i capiji ànnu a crista i gaju brundu, tatuaggi quanti e duvi non vi dicu chi sembranu venuti i n’atru mundu” oppure alla “Pubblicità” che per attirare l’attenzione fa ricorso alla bella modella che “la natica o la minna dassa apposta jà scuverta”.

Non si può non sorridere, poi, nella lettura di “U pappagallu”, ispiratagli, probabilmente, durante una sua degenza ospedaliera, un pappagallo, quello che gira per le stanze dell’ospedale, senza ali e con un collo mozzato, con un manico sulla schiena… “Si ficcava nte lenzola e nescia poi fumiandu…”. Liriche, quelle di Andrea Runco, appese al filo della memoria ma anche del cuore, perché in ogni quartina il lettore ha un sussulto, una emozione, un sentimento nuovo che si chiama amore, quello per la donna amata o per il proprio paese (“cu vineji stritti e ‘mpisi e li casi ‘ncastejati”), un sentimento pervaso da sottile nostalgia per il tempo che passa e tutto trasforma, relegando nello scrigno dei ricordi persone e cose, situazioni e immagini che riaffiorano, ogni tanto, come fiori delicati e variopinti nel “Giardino dei pensieri”.

Franco Pagnotta

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MarioVallone

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