Omaggio a don Giuseppe a dieci anni dalla morte.
Prefazione, capitoli 1-2-3 del libro:
“Don Giuseppe Furchì: il suo cammino terreno” di Pasquale Vallone
(Thoth Edizioni di Mario Vallone -2012)
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PREFAZIONE
Con don Giuseppe Furchì abbiamo iniziato, a Brattirò, il nostro cammino per vie parallele, ma che spesso si sono intersecate.
Abbiamo avuto una missione, intesa come dovere di esercitare una mansione importante presso una comunità.
Così io iniziai da giovane medico a curare il corpo della gente e, nello stesso periodo, don Giuseppe iniziò a curare l’anima della stessa gente.
Sono per formazione, convinzione e fede, cristiano cattolico e non mi è stato difficile condividere esperienze con don Giuseppe, ognuno per la propria e nella propria professione, intesa come attività intellettuale praticata in maniera continuativa, abituale e quotidiana, svolta in condizioni di indipendenza e secondo i principi dello specifico ordine di appartenenza.
Abbiamo spesso condiviso gioie e dolori, trepidazioni e sofferenze.
Ci ha sempre accomunato l’interesse non personale, ma del prossimo e della collettività.. E noi la collettività, locale e non, l’abbiamo sempre aiutata e sostenuta… Ci abbiamo rimesso tempo e denaro, ma abbiamo agito sempre e comunque con la dignità morale della nostra condizione professionale che rende un uomo, laico o ecclesiastico che sia, degno di stima e di considerazione. Rispettando la dignità della persona umana.
Ci siamo sempre scambiati impressioni su varie persone, opinioni soggettive, giudizi istintivi e ponderati, sospetti, effetti esercitati sull’animo di qualcuno.
Ovviamente, tutti e due siamo stati depositari del segreto professionale, relativo a notizie su fatti e/o persone appresi nello svolgimento delle nostre funzioni e prestazioni professionali e ministeriali. Ma “qualcosa” su qualcuno ci siamo, a volte, vicendevolmente, fatto trapelare, senza ovviamente commettere peccato o trasgredire i limiti morali e i nostri doveri, né allontanandoci dalla nostra rettitudine e moralità.
E’ improbabile, comunque certamente difficile, se non impossibile, che possano andare d’amore e d’accordo un prete vecchio e un medico giovane o un medico vecchio e un prete giovane perché la differenza generazionale può comportare mancanza di concordia, di consenso e divergenza di idee e di opinioni. Ci possono essere certamente punti di convergenza, ma è difficile che ci possano essere vedute parallele; difficile ma non impossibile se si fa prevalere il buon senso, ovvero il giusto equilibrio nel giudicare e nell’agire, ciò che si chiama assennatezza.
Non così è stato tra me e don Giuseppe perché abbiamo intrapreso il nostro difficile cammino tra la gente tutti e due giovani, pieni di entusiasmo e di voglia di fare e fare bene dando e mettendo, nella nostra professione e nel nostro ministero, tutto il nostro impegno e il nostro entusiasmo nel rispetto degli altri, nel rispetto del prossimo, nel rispetto della dignità della persona umana.
Questo scritto vuole essere il modo migliore per ricordare don Giuseppe non solo ai giovani e agli anziani della parrocchia, ma alle generazioni future.
- I PRETI DI BRATTIRO’ NEL XX SECOLO
Don Ferdinando Rombolà nacque a Brattirò il 5 maggio 1864. Alla morte di don Raffaele Ruffa, divenne il parroco del paese il 24 agosto 1902. Don Ferdinando ebbe grandi meriti nella costruzione della chiesa madre mettendoci impegno e denaro. Morì la sera del 15 gennaio 1936, all’età di 72 anni, mentre beveva una zuppa di latte caldo seduto al braciere accanto alla sorella Caterina.
Era vescovo della diocesi monsignor Felice Cribellati (25 maggio 1885 Staghiglione, Pavia 1 febbraio 1952 Tropea). Alla morte di don Ferdinando Rombolà, monsignor Cribellati nominò parroco di Brattirò (17 gennaio 1936) un giovane sacerdote di Tropea, don Gaetano Cortese.
Fu da subito amore tra don Cortese e i parrocchiani che partecipavano nella totalità alle cerimonie e ai riti religiosi.
Ma il vescovo dopo pochi mesi destinò don Cortese alla parrocchia di Falerna e a Brattirò fu mandato (23 agosto 1936) un prete di Santa Domenica di Ricadi, don Michele Loiacono (14 marzo 1902 / 27 gennaio 1984). I brattiroesi si ribellarono e, nella totalità, disertarono la chiesa; iniziò quel periodo, intriso di infiniti eventi, tristemente noto come “a lotta di previti” durato circa tre anni! Ma il popolo vinse la sua battaglia con la diocesi e a Brattirò fu mandato, nel 1939, al posto dell’odiato don Michele Loiacono, un prete accetto: si trattava di don Pasquale Bagnato.
Il parroco don Pasquale Bagnato (13 febbraio 1901 / 8 gennaio 1975) che tutti ricordiamo come Abbati Pascali, è stato il sacerdote della formazione di quelli della mia generazione; è stato il sacerdote che ci ha visto nascere, che ci ha somministrato il primo dei sacramenti: il battesimo.
Il battesimo (dal greco baptismòs: immergere) è il primo dei sette sacramenti ed è quello che cancella il peccato originale, cioè il primo peccato commesso da Adamo ed Eva nel paradiso terrestre. Per tale colpa tutti gli uomini, tranne Maria Santissima, nascono nello stato di peccato originale, cioè privi della Grazia santificante, e nella peccabilità.
Il battesimo è detto porta dei sacramenti perché è necessario per ricevere validamente gli altri sacramenti.
Ma l’abbati Pascali è anche il sacerdote che ci ha impartito la Prima Comunione.
E’ stato un prete molto legato alle tradizioni e ha sempre fatto di tutto per mantenerle.
Verso la fine degli anni ’60, ha fortemente voluto e ha istituito una seconda processione in onore dei SS. Medici Cosma e Damiano, da farsi la seconda domenica dopo la festa del 27 settembre di ogni anno. Il motivo fu che il giorno solenne dei festeggiamenti dei SS. Medici, cioè il 27 settembre, a mezzogiorno, momento della processione per le vie del paese alla fine della Messa solenne col panegirico, quasi tutte le donne del paese, ma certamente le nostre mamme, erano impegnate in casa a preparare il pranzo per i familiari e per gli ospiti, parenti e/o amici, venuti da altri paesi.
E allora l’abbati Pascali ritenne opportuno fare una seconda processione, alla quale potessero partecipare tutti i parrocchiani.
Negli ultimi anni del suo ministero sacerdotale, esattamente nel 1973, la malferma salute lo costringeva a farsi affiancare e/o sostituire, spesso, da un giovane sacerdote di Tropea, un certo don Giuseppe Furchì…
Così abbiamo cominciato a conoscere quel giovane prete che proveniva “… dal Campo di Tropea e apparteneva ai “casciola” (soprannome del padre) e ai scarzi” (soprannome della madre).
L’8 gennaio 1975, don Pasquale Bagnato “abbati Pascali” ci lasciò. Volle essere seppellito nel nostro cimitero e tra la nostra comunità congregata per “vivere” in eterno tra i “suoi “ parrocchiani. Gli successe, divenendo parroco di Brattirò, il giovane sacerdote don Giuseppe Furchì.
- LA FAMIGLIA
E’ nato da una umile, semplice e modesta famiglia di onesti e laboriosi agricoltori, come infinite altre famiglie.
Il nonno era di Brattirò, si sposò con una ragazza di Tropea e si trasferì in località “Campo”, dove svolse il lavoro di agricoltore e dove formò la sua famiglia.
La loro casa non era isolata ma ce n’erano altre vicine e, di fronte all’abitazione, avevano un pagliaio, deposito e ricovero per gli animali: mucche, maiali, galline. Tutt’attorno c’era un’aia e un bellissimo e verde prato.
Il papà, Francesco (23 giugno 1898 / 14 marzo 1990) “u ‘zu Cicciu”, era persona caritatevole e di grande e umana bontà, un vero galantuomo. Ha combattuto nella Prima Guerra Mondiale e raccontava sempre gli orrori della guerra, portatrice di distruzione, rovine e sventure. La cosa che più lo rattristava erano stati i tanti morti, le tante giovani vite spezzate cui aveva contribuito a dare una pietosa e cristiana sepoltura.
Insieme alla moglie era venuto a vivere a Brattirò, nella canonica, quando il figlio Giuseppe divenne parroco della nostra comunità.
A tutti raccomandava “Voliti beni a Peppinu mio”.
La mamma, Lo Scalzo Maria (10 settembre 1904 / 11 dicembre 1982), “a ‘za Maria”, era una donna affabile, semplice e buona. Frequentava i riti e le funzioni religiose e se ne tornava a casa senza pettegolare con nessuno. Svolgeva con amore e dedizione le faccende domestiche.
Negli ultimi mesi di vita ha sofferto tantissimo per una grave e inguaribile malattia. La medicavo con amore e con minuziosa applicazione. Spesso don Giuseppe si faceva forza e voleva assistere alle medicazioni per dare coraggio alla mamma, sebbene a quella vista soffrisse tanto e ne rimaneva fortemente provato.
U ‘zu Cicciu casciola e a ‘za Maria a scarza misero al mondo sei figli, tutti maschi: Girolamo, Antonio, Mercurio, Gaetano, Giuseppe e Pasquale. Erano una famiglia unita e patriarcale, dove il capostipite o il membro più anziano aveva più autorità e controllo su tutti gli altri membri.
- LA FANCIULLEZZA
Don Giuseppe Furchì nacque a Tropea il 21 maggio 1940. Era il quinto di sei fratelli. All’età di due anni fu operato di ernia inguinale a Messina. Come a ogni bambino, gli piaceva giocare con i suoi fratelli e con i coetanei. Nell’aia e nel verde prato che circondava la loro casa, gli piaceva correre e rincorre le galline. Con i fratelli, d’estate, nella propria campagna, costruivano un pagliericcio tra i rami di un albero e li gli piaceva appisolarsi tra il canto degli uccellini. Qualche volta, i suoi fratelli più grandi lo portavano al cinematografo; gli piacevano i film comici, non violenti, e gli compravano il gelato. D’estate lo portavano al mare.
L’aria salubre dei campi e le bellezze della Natura furono sempre la sua gioia e il suo diletto. Qui trovava pace, serenità e contemplazione: quasi dialogava con tutto il complesso degli esseri e delle cose che compongono l’Universo ossia il Creato.
Il piccolo Giuseppe frequentava, da bambino, la chiesa dell’Annunziata di Tropea, località “Campo”, sotto la guida di don Giulio Spada. Sentiva come un richiamo interiore che lo spingeva verso la Chiesa. Finiti i giochi coi bambini coetanei, avvertiva un impulso nell’animo che lo portava nella chiesa dell’Annunziata dove provava serenità e gioia: percepiva che quella era la sua casa!
Frequentava da bambino, con attenzione e apprendimento, il catechismo che si diceva “vajiu a dotrina”.
La catechesi (dal greco katechèsis : istruzione a viva voce) è l’istruzione orale di argomento religioso impartita dai parroci o da persone autorizzate; fu istituita presso ogni parrocchia con l’obbligo di frequentarla la domenica o un altro giorno della settimana, generalmente, ma non sempre, il sabato.
La catechesi cristiana iniziò con la prima Pentecoste in forme varie per preparare coloro che volevano ricevere il battesimo.
Dal secondo secolo, si ebbero scuole di catechesi: importante quella di Alessandria fondata nel 180 da san Panteno (140 – 200), un filosofo siculo convertitosi al cristianesimo. Tali scuole esponevano ai pagani i principi del Cristianesimo. Dopo l’editto di Milano o editto di Costantino, promulgato a Milano nel febbraio 313 dagli imperatori Costantino il Grande e Licinio con il quale fu riconosciuta ai cristiani la libertà di culto e fu posto termine alle persecuzioni, la catechesi cominciò a preparare i catecumeni (dal greco katechùmenos: che riceve l’insegnamento) che sono coloro i quali, avendo aderito alla fede cristiana, si preparano a ricevere i sacramenti della iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia).
Giuseppe, da fanciullo, portava con sé in chiesa i suoi compagni di giochi, i quali erano stimolati principalmente dai suoi comportamenti di amore cristiano e di rispetto verso tutti.
Nasceva, in lui, e si solidificava nel suo animo la vocazione.
Fece la Prima Comunione nel 1950 con i bambini suoi coetanei e col fratello Pasquale che era più piccolo. Gli regalarono un orologio, che fu il suo vanto.
p.v.
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