La prefazione dell’ultimo libro da me pubblicato col marchio Mario Vallone Editore.
Il volume è stato scritto da don Pasquale Russo e si intitola, emblematicamente: “I borghi del Capo Vaticano”.
Il testo introduttivo del libro è a firma di Saverio Di Bella.
m.v.
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Lo spazio di cui Don Pasquale Russo ricostruisce e racconta la storia è quello del Capo Vaticano nell’attuale Comune di Ricadi. Borghi e villaggi dai nomi significativi che richiamano Santi – S. Nicola, S. Maria – o fatti naufragati e smarriti negli oceani del tempo. Un territorio i cui borghi facevano parte dei casali della città demaniale di Tropea. Città dalla quale sono stati staccati e resi autonomi, con la riforma amministrativa murattiana, che ha creato nuovi Comuni tra i quali il Comune di Ricadi nel 1811.
Questi casali sono iscritti di diritto nella storia e nel mito del territorio e degli uomini da millenni. Porto Ercole sarebbe stato fondato dall’Eroe che ha liberato gli uomini da tanti mali – l’Idra di Lerna per tutti – nei pressi dell’attuale borgo di Santa Domenica di Ricadi. Spartaco, il gladiatore ribelle che sognava la libertà degli uomini – selezionati per sostenere duelli mortali per la gioia crudele di plebei e di matrone crudeli – si rifugiò, per molto tempo, tra le grotte di Capo Vaticano.
Millenni dopo anche Giuseppe Berto avrebbe cercato un rimedio al male oscuro che lo divorava a Capo Vaticano, respirando l’aria salmastra del mare da cui nascono i miti e raccontando le tracce ultime di una civiltà in via di estinzione: quella contadina. Il grande scrittore ha capito la ricchezza della povertà ed ha raccontato i sogni e la grandezza di chi viene giudicato – troppo spesso – incapace di sognare, di capire, di giudicare in quanto è agrafo. Questo giudizio è dato da chi non ricorda che anche Omero era agrafo.
Don Pasquale ricostruisce le vicende di villaggi e borghi con passione direi pastorale – è parroco nelle ossa e nell’anima – e con l’attenzione ai fatti di chi sa bene che la storia si scrive sui documenti: documenti scritti, orali, cultura materiale, paesaggi agrari, mestieri, culti religiosi etc… Perché il racconto storico vive e parla di cultura se riesce a raccontare la vita delle generazioni passate; se suscita emozioni. Uno storico, come Don Pasquale Russo, cerca l’empatia che esiste tra chi vive oggi e chi è vissuto ieri, la continuità di una presenza degli uomini, i legami tra presente e passato e quindi ricostruisce una identità umana e territoriale che si sviluppa attraverso il tempo e che conduce all’oggi. La scelta metodologica di Don Pasquale Russo è rigorosa, impegnativa e i risultati raggiunti sono adeguati all’impegno profuso.
Il tempo, come abbiamo già visto, è quello della lunga durata del territorio da raccontare. Si parte dalle prime tracce di presenza umana su quelle contrade e ne segnano le vicende storiche fino ai giorni nostri. Questa scelta si accompagna con quella di seguire l’intreccio che pervade le vicende umane tra storia locale e storia delle formazioni statali più vaste al cui interno o sotto il cui dominio quelle vicende si sviluppano. Naturalmente nella concretezza della vita degli uomini, che si snoda generazione dopo generazione, tutto si conserva e tutto si trasforma. Cartina di tornasole di questa metamorfosi continua, applicata al territorio che resta come un dato fisico permanente, è l’origine della parola Capo Vaticano che Don Pasquale ricostruisce con meticolosa perizia ed affascinante erudizione.
Il territorio, raccontato da Don Pasquale, storicamente passa dalla civilizzazione greca alla civilizzazione latina, a quella bizantina, ai normanni, agli angioini, agli spagnoli, ai Borboni ai Savoia, al Fascismo, alla Repubblica. Tutti questi popoli lasciano tracce nella toponomastica, nelle costruzioni, nella coltivazione dei campi, nei riti funebri, nel fattore religioso. Su questo terreno naturalmente si afferma e vive ancora, con la sua forza plasmatrice, la religione cristiana di rito cattolico. Non a caso Don Pasquale racconta la storia delle Parrocchie, i Santi protettori, le ricchezze artistiche contenute nelle varie Chiesa parrocchiali, la presenza di Vescovi particolarmente attenti ai bisogni delle parrocchie. Don Pasquale ricostruisce anche la storia dei cimiteri, normalmente trascurata dagli storici che la ritengono marginale, mentre marginale non è.
Nel racconto di Don Pasquale non mancano i pirati Turchi, le rivolte sociali locali (es. 1722 che vide i casali uniti contro Tropea; i terremoti – 1783; 1905) né manca l’attenzione al paesaggio agrario: dai gelsi, agli ulivi, alla cipolla rossa – ormai universamente nota come cipolla rossa di Tropea. Attenzione particolare viene infine riservata alle strutture culturali del territorio: l’accordo sulla celebrazione di Berto col Comune di Mogliano Veneto, luogo di nascita dello scrittore; la rete di Musei; la Biblioteca che raccoglie i libri del Prof. Arena, cultore di latino, Maestro di tanti studenti del Liceo Classico di Tropea.
Ammirevole, infine, lo stile nitido, preciso, soprattutto seducente. Il lettore avverte l’amore dell’autore per il territorio e per gli uomini che lo abitano, che costituiscono gli elementi chiave della narrazione storica dell’autore.
Una reazione soggettiva, mi sia consentita, date le emozioni provate nel leggere il lavoro di Don Pasquale. Attraverso la lettura dello stesso, io mi sono visto e sono stato proiettato in una fase fondamentale della mia infanzia e del mio viaggio attraverso la vita e la storia. Perché ho ritrovato Lampazzone, dove ho frequentato il secondo ciclo delle elementari ed ho preparato l’esame di ammissione alle scuole medie. Ho richiamato così alla memoria il Maestro Pugliese, geniale e lungimirante che aveva il coraggio di fare studiare Dante e alcuni passi della Divina Commedia a memoria e da fare commentare in quarta e quinta elementare. Così ho incontrato la Porta dell’Inferno, Farinata degli Uberti, il Conte Ugolino, Ulisse.
Mi si sono spalancati orizzonti che da allora in poi hanno fatto parte delle mie curiosità e dei miei interessi culturali. Arricchiti dal fatto che, contemporaneamente, mio zio Don Domenico, parroco di Lampazzone, mi faceva conoscere la Bibbia, riassunta per i ragazzi – la Creazione, Caino e Abele, Davide e Golia, Mosé, Cristo.
Si può dire perciò che i miei orizzonti culturali si sono creati allora, irrorati anche dalle letture dei libri della Biblioteca di Don Gerardo Ruffa, Parroco di Barbalaconi. Il Maestro Pugliese teneva ancora in classe, dietro la lavagna, una testa d’asino in cartapesta – retaggio dell’era fascista – che si raccontava fosse stata messa a coprire la testa di ragazzi non molto portati allo studio. La cosa che mi sorprendeva positivamente era, per quanto riguarda le attività del Maestro, il fatto che coltivasse personalmente i terreni, impiantasse vigneti e suonasse l’organo nella chiesa parrocchiale. Ci dava così un’esperienza umana e di vita che è stata altrettanto importante dell’insegnamento. Il lavoro intellettuale poteva benissimo accompagnarsi con il lavoro manuale.
Anche lo spazio della mia giornata era quella di Lampazzone, Ricadi, Brattirò, Gasponi soprattutto d’estate. Uno spazio attraversato a piedi lungo sentieri e fiumare. Uno spazio segnato profondamente dal fatto che nelle campagne di Lampazzone si coltivava ancora il lino la canapa. L’arbusto aveva bisogno di essere macerato in fosse piene d’acqua, lungo il greto delle fiumare. In quella cosiddetta di Spilinga, che faceva da confine tra Brattirò e Lampazzone, si scavavano delle fosse (gurne) da riempire d’acqua deviando, portandovi attraverso lo scavo di un fosso una parte dell’acqua carpita al torrente. Nella fossa venivano messe a marcire le piante di lino e di canapa raccolte in fasce e il trasporto avveniva sulle spalle degli uomini e sulla testa delle donne. Una fatica pesante perché il cammino tra il villaggio e la fiumara era da fare attraverso sentieri scoscesi, in discesa per portare le piante di lino e di canapa al torrente, in salita per riportare le stesse piante al villaggio al fine di continuare la lavorazione richiesta (manganare, etc).
A Lampazzane imparai anche a conoscere il linguaggio delle campane: a festa, all’arme, per i morti: tre rintocchi per le donne, quattro per gli uomini e così via a salire per le cariche ecclesiastiche. E imparai a suonarle anche a gloria. Questa voce delle campane indicava la morte e l’accompagnamento al cimitero di un bambino morto a pochi giorni o a pochi mesi dalla nascita, e comunque in tenerissima età. L’anima del pargoletto volava direttamente in cielo, per questo le campane suonavano a festa. In netto contrasto con quel suono festoso era il volto della madre che, unica, accompagnava il morticino al cimitero, portandolo in una cassettina fatta con tavole di scarto. Solo un pezzo di lenzuolo copriva il corpicino del piccolo defunto, se apparteneva ad una famiglia povera. Accanto alla madre c’era mio zio Domenico, il parroco, con i paramenti previsti e l’aspersorio ed io come chierichetto che portavo il turibolo.
Naturalmente mi affascinava l’uso dei soprannomi, che era quasi una necessità perché nomi e cognomi si ripetevano, i soprannomi no, indicavano una famiglia e una persona precisa all’interno della famiglia di appartenenza. Era una usanza presente in quasi tutti i Paesi e le cittadine della Calabria. Alcuni dei soprannomi me li ricordo ancora: Tarau, u Zerfinu, u Sergenti, u Colonnellu, u Madonnaru, u Papa, Tavella, u Pirettu, u Gnuri, l’Africanu, a Palumba. Lì ho conosciuto l’esistenza del servo pastore – u farracchju – si trattava di bambini dagli 8 ai 14 anni inviati dalla famiglia di appartenenza presso un massaro che li doveva nutrire ed ospitare in un pagliaio nel proprio podere. Ai genitori sarebbe stato dato un tomolo di grano ogni anno fino a 11 anni; due tomoli dagli 11 ai 14 anni. A 14 anni la famiglia di origine se lo riprendeva perché ormai era cresciuto abbastanza – maturo – per fare il bracciante o il pastore.
A Lampazzone ho conosciuto anche la piante dei lumini, la cui foglia era utilizzata per le lucerne ad olio. Ho ascoltato anche il suono cupo delle fiumare rese gonfie d’acqua dagli inverni piovosi e dalle nevi che si scioglievano a Monte Poro. Il rombo dell’acqua infuriata tra le gole era terribile. Il ponte che collegava Lampazzone a Brattirò diventava pericoloso e intransitabile; i mugnai erano costretti a chiudere, per precauzione, i mulini ad acqua per qualche giorno. Le acque impetuose trasportavano spesso carogne di animali morti, in particolare agnelli e pecore. A Lampazzone ho vissuto, come spettatore, una passione d’amore travolgente. Un uomo si era innamorato follemente di una ragazza. I genitori di lei erano contrari alle nozze e u Pirettu tentò di rapirla. Il rapimento fallì. La ragazza venne chiusa in casa e guardata a vista dai genitori. Ma nessuno osò chiedere la sua mano. U Pirettu incuteva rispetto e timore: nessuno poteva immaginare come avrebbe reagito un innamorato pazzo a quella che avrebbe considerato una offesa intollerabile, e cioè la richiesta come sposa della ragazza che lui aveva scelto per sè. Dopo un anno circa i genitori della ragazza si rassegnarono all’ineluttabile e i due giovani convolarono a legittime nozze. Ho sempre immaginato che sono vissuti felici e contenti. L’amore condiviso non può che essere premiato.
Le suggestioni prodotte nella mia mente mi hanno portato un pochino lontano dal testo, al quale ritorno brevemente. Oggi Ricadi e l’intero Comune sono cambiati e vivono altre storie. Capo Vaticano è uno dei centri più noti della Calabria ed è una delle capitali del turismo calabrese. Decine di migliaia di turisti, italiani e stranieri, passano le vacanze in questi luoghi baciati dalla bellezza. Assistere ad un orizzonte chiuso dalle Isole Eolie e che fa intravedere in lontananza la Sicilia; sapere che quello è un mare attraversato dal mito delle Sirene e di Ulisse e che quei luoghi hanno attirato l’attenzione e suscitato emozioni in registi come Luchino Visconti e Virgilio Sabel contribuisce a farci capire la fortuna che abbiamo di vivere in un pezzo di Paradiso in Terra. Questo Paradiso va conservato integro nelle sue bellezze naturali e storiche.
La rete di Musei e di Biblioteche sorta per iniziativa di più innamorati del territorio nel Comune di Ricadi, e nei Comuni limitrofi, costituisce, d’altra parte, la prova di un impegno che si proietta come un ponte intellettuale e valoriale tra passato, presente e futuro.
Saverio Di Bella