di Franco Pagnotta
riflessioni di Andrea Runco
L’amico Franco Pagnotta, ci delizia con l’ennesima opera di alto valore morale e sociale che ha voluto dare alla stampa, per renderci idealmente partecipi dei luoghi che furono propri e del suo vissuto giovanile, che in uguale misura hanno concorso a forgiargliene il carattere e la persona.
La stessa non a caso reca il titolo: “La meraviglia del poco”, perché affronta il problema dell’indigenza in cui versava la società del nostro territorio, negli anni che seguirono la ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, e in particolare il ventennio che abbraccia i primi anni cinquanta a quelli del settanta.
L’opera ha il pregio di farci sussultare il cuore, perché man mano che ne scorriamo le righe ci costringe a pause di riflessione più o meno lunghe, per elaborarne il contenuto e aspettare che i flash improvvisi che ci investono di quei momenti ormai lontani, si dileguino per far posto a ciò che ci propone il testo che segue, sempre ricco di descrizioni pronte a far scaturire forti emozioni.
“La meraviglia del poco”, così come l’autore ce la porge somiglia tanto al noto miracolo dei pochi pani ed altrettanti pesci che Gesù ha moltiplicato per sfamare la gran folla di fedeli che lo seguiva. E così il poco divenne molto e tutti si saziarono del necessario alla vita. Fu soprattutto la meraviglia degli Apostoli e di chi assistette in prima persona all’evento, convincendosi che quel poco era diventato molto per amore del prossimo.
Ebbene, l’ambiente che Franco abilmente è riuscito a riproporci tessendolo con l’uso della penna, ci fa notare che l’unica cosa di cui si era sazi, era la povertà, la quale non saltava casa senza produrre i suoi effetti. Era il tempo dei lavori umili che si svolgevano nei campi e dell’aiuto offerto agli amici per il misero desco di quella giornata, fraternamente e con amore condiviso con altri poveri.
I tanti sottotitoli entrano nel vivo della narrazione facendoci capire quante famiglie erano accomunate dalle stesse necessità. Infatti, molti nuclei famigliari si privavano della presenza del padre o dei figli maschi che già in età da lavoro si staccavano dal tetto domestico e partivano in cerca del pane d’ogni giorno, lasciandosi dietro una scia di lacrime che versavano e facevano versare, le quali, per lungo tempo hanno bagnato il suolo di questa povera terra che si privava di tanta gioventù, la quale si allontanava col dubbio di non rivedere gli affetti più cari.
Era il tempo delle nazionali senza filtro per i fumatori che se lo potevano permettere, altrimenti, per i meno abbienti c’era il trinciato che si avvolgeva in cartine, quando gli andava bene, altrimenti nell’involucro più sottile delle pannocchie, conservato al momento della raccolta. Le sigarette di marca qualcuna la fumavano, negli usati ritorni di emigranti che ad amici e parenti, ne regalavano qualche pacchetto proveniente da altre nazioni. Era il tempo che da chierichetti si serviva messa inginocchiati all’altare, non con un bel paio di “Lumberjack”, ma con la vergogna di mostrare le piante dei piedi scalzi e sporchi di terra, presa nel tragitto da casa fino in chiesa.
Era il tempo che gli spiccioli presi in occasione di qualche matrimonio e quelli dati dal nonno, se gli scrivevi la corrispondenza per la sorella che era in America, diventavano quaderni e penne. Franco rimembra le prime televisioni, gli vengo in aiuto ricordandogli la prima serie di: “Rin Tin Tin, la tv dei ragazzi, Ivanhoe e Robin Hood”, viste presso la sede della Democrazia Cristiana o in canonica.
E nonostante il tempo trascorso mi domando ancora: – perché amavamo fare sempre gli indiani -? Probabilmente, perché anche noi eravamo i più deboli come loro, ossia gli ultimi, oppure perché arco e frecce le potevamo fare subito con verghe di ulivo, invece le pistole, anche se giocattolo, bisognava aspettare la festa patronale che a volte ci permetteva di comprarne una con poche cartucce.
E che dire del periodo in cui lungo le strade si raccoglievano le ghiande e le olive e si andava a venderle per le cento o più lire che impiegavamo per altro più duraturo. A proposito di: “Santi, animali e uomini”, quante volte si piangeva per la morte di un capo di bestiame che improvvisamente veniva meno, esempio la mucca al momento di una nuova nascita. Erano lacrime, perché bisognava ristorare anche il padrone che l’aveva consegnata al colono col contratto del guadagno, e quest’ultimo, essendo già povero in canna, non sapeva come riparare il danno che gli era piovuto addosso.
Era il tempo in cui padri sapienti, con gran voglia di lavorare si ammazzavano di fatica, per consentire ai figli quel salto di qualità che poteva avvenire solo con lo studio. Ed era anche tempo di soddisfazione quando ciò avveniva. Era il tempo in cui l’innamoramento tra giovani, in nome di un bene superiore solamente ipotizzato, veniva sacrificato, perché si partiva lontano con la famiglia e forse non ci si rivedeva più.
Era anche l’alba dei mutamenti sociali che si affacciavano e non sempre si era pronti per accoglierli. Certo quei tempi furono uguali a tanti meridionali, lo comprendo e se ciò, può essergli di lenimento per il ricordo ancor vivo e doloroso che Franco porta seco, posso dirgli con le parole del sommo poeta Leopardi “oimè, quanto somiglia il tuo costume al mio”. Ed aggiungo: “Amico non ti crucciare, se la ferita è ancora aperta, in fondo eravamo ragazzi e ci bastava quel poco, per noi tesoro non da niente, che ci faceva scaturire la gioia vera ed essere felici, forse per questo, con un pizzico di nostalgia, ricordiamo quei giorni ormai lontani, perché in fondo era il tempo della nostra gioventù e quando c’è questa, tutto è superabile, perché il mondo ti sorride anche se non te ne accorgi.”
Concludo dicendo che se Franco, nella sua lunga carriera di docente, è riuscito a trasmettere queste schegge di saggezza ai suoi allievi, sicuramente gliene saranno grati per il resto dei loro giorni.
E quest’opera lo additerà d’esempio per molte generazioni.
Andrea Runco