Il quarto capitolo di un libro che ho pubblicato di recente col marchio Mario Vallone Editore, intitolato “Maestri di color che sanno – contributi vari all’educazione ed alla Pedagogia”, scritto da un autore originario di Drapia ma residente a Milano di nome Franco Messina.
Capitolo IV:
MARIA BOSCHETTI ALBERTI
MARIA CAROLINA ALBERTI nasce nel 1884 a Montevideo (Uruguay), dove la sua famiglia si è trasferita temporaneamente, dall’originario Canton Ticino (Svizzera). Diventerà poi anche BOSCHETTI quando, nel 1920, sposerà Pierino Boschetti.
Qualche anno dopo la nascita di Maria, gli Alberti tornano in Svizzera. Maria si iscrive alla “Scuola Normale” (una scuola per Maestri), a Locarno. Terminati gli studi, inizia a insegnare già a quattordici anni, facendo credere di averne sedici, per la difficoltà di una regolare verifica sul Certificato di Nascita uruguayano, da parte degli Uffici elvetici competenti.
Nel 1916 si reca in Italia in “viaggio pedagogico”. Quel viaggio, scrive, “fu intrapreso con lo scopo apparente di studi nelle scuole per Anormali, e con lo scopo occulto di trovare una forma di scuola più adatta ai nostri tempi, più umana”. In Italia visita (a Milano e a Roma) soprattutto le Scuole Montessori: della Montessori assimila inizialmente il metodo, che però supera fin quasi ad abbandonarlo del tutto. Essa, infatti: “accostatasi al metodo Montessori durante la sua permanenza a Roma, viene poi maturando un suo metodo educativo che ripudia ogni materiale preformato e si affida essenzialmente alla libera iniziativa degli alunni” (Nicola Abbagnano-Aldo Visalberghi). Ciò che Maria fa, in pratica, all’inizio del suo magistero è di adattare “alla realtà rurale ticinese il metodo educativo di Maria Montessori, incontrando non poche difficoltà dovute alla diffidenza delle Autorità scolastiche locali e cantonali” (Mario Todeschini). Il successivo abbandono del Metodo Montessori si può in parte spiegare col fatto che Montessori si ispirava, almeno in un primo tempo, al Positivismo; mentre la Nostra si rifà in gran parte all’Idealismo. Suoi maestri sono soprattutto Giuseppe Lombardo Radice (massimo esponente in Italia della pedagogia appunto idealistica assieme al Gentile) e Adolphe Ferrière (ginevrino come lei).
Nel 1919 è a Muzzano, nel Canton Ticino, in una pluriclasse formata da una prima e una seconda. La scuola però verrà improvvisamente chiusa nel 1924. Di questa esperienza scolastica la Boschetti Alberti ci ha lasciato un importante documento: Il Diario di Muzzano. Lo stesso Lombardo Radice, illustrando l’esperienza boschetti-albertiana ai docenti italiani, definirà la scuola di Muzzano “una bandiera della riforma della scuola italiana”. Ma come: il Canton Ticino è in Svizzera… Lombardo Radice ha commesso un madornale errore di geografia? Non proprio: la sua dichiarazione è in parte dovuta al fatto che il Canton Ticino è italofono e confina con l’Italia per un tratto di Piemonte e uno di Lombardia, e comunque – cosa più importante – “il confine di Stato è irrilevante rispetto alla dimensione linguistica e culturale” (Todeschini). Continuando il suo discorso sull’Educatrice Ticinese Lombardo Radice aggiunge: “se io potessi le affiderei non una scuola di bambini soltanto, ma anche una scuola di maestri”. E perchè no?, si può aggiungere: pure una scuola di… Ministri (dell’Istruzione) e di un’intera Classe politica (più in generale).
Dopo Muzzano c’è Agno: altra località del Cantone svizzero. Pure qui Boschetti Alberti ha una pluriclasse formata da terza quarta e quinta, e successivamente un’altra pluriclasse composta da ragazzi fra gli 11 e i 15 anni (classi corrispondenti alla nostra Media inferiore). Nel panorama scolastico-educativo di allora La scuola di Agno costituisce “un’isola felice” (Carlo Talenti) che non solo è apprezzata da noti pedagogisti e psicologi europei come Pierre Bovet e Robert Dottrens, ma attira esperti e visitatori comuni da tutte le latitudini: i quali vi riscontrano “la scuola ideale, senza pesantezza di dottrinarismi, e pure la scuola di domani, la scuola dell’avvenire” (Aldo Agazzi). Ad Agno è alle dipendenze dirette del Ferrière, che in quel periodo ha un importante incarico educativo-istituzionale a Ginevra. Da questa seconda esperienza nascerà un altro prezioso documento: La Scuola serena di Agno. Si tratta di una relazione sul lavoro che Maria ha svolto nella scuola di Agno, ed è indirizzato al Ferrière. Nel 1934 è nominata Presidente della Società delle Maestre svizzere, sezione Ticino.
Nel 1948 è inprovviamente colpita da una grave forma di paralisi, dalla quale non si riprenderà più. Morirà nel gennaio del 1951. Nel 1946 il Governo cantonale del Ticino gli aveva conferito “un attestato di benemerenza per il mezzo secolo d’insegnamento in cui ha formato uomini liberi e cittadini schietti e responsabili” (Todeschini).
All’inizio della sua opera di maestra, riferisce: “io consideravo gli scolari come barbari da incivilire, come fiere da ammansire”. Ciò dopo aver visitato una scuola milanese montessoriana. Le cose, però, sarebbero presto cambiate: e proprio in virtù di quella visita e di altre successive.
Dopo il viaggio in Italia, infatti, si propone e s’impone un nuovo programma, basato su due cardini fondamentali: “ordine e libertà: la libertà che è rispetto dei diritti dell’individuo, e l’ordine che è rispetto dei diritti della comunità”; essi saranno appunto i cardini sui quali s’impernierà tutto il suo lavoro di Educatrice e Maestra.
Il presupposto-chiave di tutto è però quello di creare una Scuola serena. La locuzione è usata per la prima volta dal Lombardo Radice in un pezzo che poi inserirà nel suo libro Athena fanciulla (sottotitolo: Scienza e Poesia della Scuola serena), e sarà ripresa dal Ferrière, che la inserirà in L’alba della Scuola serena in Italia. Essa, precisa l’Autrice, “è un tentativo di scuola nuova, e consiste nel dimostrare come sia perfettamente possibile portare nelle classi comuni i benefìci delle scuole nuove: libertà, autoeducazione, rispetto dell’individuo”. E poi: “rendere serena la scuola comune a questi figli di contadini e di operai, poveri ragazzi in generale, che sanno già le privazioni e le durezze della vita; far conoscere il bello, inebriare del bello questi poveri tipi, che hanno tanto di lurido e di squallido intorno a loro. Questo è lo scopo al quale tende la Scuola serena”. Anche i locali erano inadatti a instaurare un clima di serenità; e allora, annota: “cominciai l’educazione del senso estetico in un ambiente tutt’altro che estetico”.
All’inizio le cose non sono così semplici: c’è una “piccolezza” (così dice Lei) che non va: “pretendere una scuola ordinata da una maestra e da scolari non ordinati; dare la libertà a una maestra e a scolari non liberi. Volevano cominciare una scuola nuova con una maestra abituata alla scuola vecchia! Era un assurdo”.
Come uscirne? Saranno gli eventi a sciogliere il nodo. In ogni caso: libertà implica spontaneità, e: “tanto spontanei restano i bambini che al maestro diventa facile guidarli”. Perciò, “la parte dei maestri nelle scuole serene è di rispettare le leggi supreme della libertà, rispettare lo svolgersi delle individualità. Il resto verrà da sè”.
Ma: sotto l’aspetto propriamente didattico, come si concretizza la libertà? Secondo due modalità: libertà di maniera e libertà di tempo. Per la prima, ciò significa che ogni allievo può giungere sì, a possedere le stesse cognizioni di tutti gli altri, ma vi giunge a modo suo: “perchè c’è una legge di natura mirabile che dà ad ogni grado d’intelligenza, un suo particolare modo di sviluppo”. Quanto all’altra modalità, le cose non stanno diversamente: l’allievo infatti deve giungere al possesso delle conoscenze secondo i propri tempi. Questo perchè, precisa la Nostra, “non è naturale, non è umano tagliare bruscamente un lavoro intellettuale nella sua massima tensione. Nella Scuola serena si vedono con gli occhi e si toccano con le mani, i gravi torti che si fanno ai ragazzi privandoli della libertà di tempo”. Dalle due libertà o meglio: da quell’unica libertà che si presenta ma solo in apparenza in due differenti modalità, scaturisce l’ordine, non il contrario. Insomma: “si tratta non di voler prima un ordine nel quale concedere, a premio, la libertà, ma d’impostare una libertà che generi l’ordine” (Agazzi).
Quale metodo didattico Boschetti Alberti usa, una volta abbandonato il Metodo Montessori? Paradossalmente (ma il paradosso è solo apparente), si può dire che il metodo boschetti-albertiano è… il metodo di chi non ha metodo. Per meglio farci capire, la Ticinese porta alcuni esempi: “se i ragazzi ch’io ricevo nella scuola – dice – non conoscono il Ticino, io dovrò insegnare loro l’America? Se non sanno i fatti storici avvenuti ad Agno, dovrò parlare loro di Silla e Mitridate?”. Queste parole devono farci riflettere. Non è forse vero che ancora oggi, in tutte le scuole d’Italia (solo d’Italia?) e in quelle date classi, viene svolto – trito e ritrito – un unico identico programma? E la Nostra, rispondendo indirettamente a chi gli chiede che metodo usa, dichiara: “studio le manifestazioni dei miei alunni. Non faccio che notare ciò che più mi impressiona, e lo noto come grande novità”.
Pure, un… metodo la Ticinese ce l’ha, questo: “amore, amore! Ecco il mio materiale. Amore, amore! Ecco il mio metodo”. Scrive inoltre: “li amiamo questi nostri figli, dell’amore vero, che non conosce debolezze, ma che dà forza. E questa forza noi vorremmo infondere nell’animo loro perchè siano pronti alla vita; li volgemmo verso il bene. Da questo nostro desiderio di infondere nell’anima dei figli nostri il bene e il bello è venuta la Scuola serena”.
Per finire, due giudizi del Dottrens. Su Maria: “è dotata di qualità troppo alte perché si trovino molti che siano capaci di fare come lei”. Sulla Scuola serena: “è una forma interessante di Scuola attiva che a noi sembra dipendere strettamente, per riuscire, dalle qualità personali e dal prestigio dell’Educatrice. Essa è rilevabile, ad ogni modo, per l’alto valore educativo che la ispira”.