“Il recupero della Memoria” – Pasquale Vallone 2008 (vai al precedente post sull’argomento)
Cap. 1.1 – RITRATTO DI VITA DELLA CIVILTA’ CONTADINA A BRATTIRO’
Attrezzi agricoli
Il duro lavoro dei campi veniva praticato con l’ausilio delle braccia e con l’aiuto dei buoi, poiché a quei tempi non c’erano macchine agricole.
- Aratro attrezzo per l’aratura.
Era tirato dai buoi che venivano aggiogati al “juvo” per il collo tramite due cinghia di cuoio (pajiura). Strutturalmente l’aratro era composto da un legno lungo circa 4 metri (virga) unito al giogo da un perno (ciavi) che entrava in due fori combacianti. La “virga” era incastrata nel “dentale”, alla cui punta veniva inserito il vomere (gommara) che doveva solcare il terreno.
Lateralmente al dentale c’erano due legni: le “pinne”, che avevano la funzione di allargare il solco.
Poi c’era la “cata” che veniva impugnata dal contadino, e serviva per dirigere l’aratro affinché solcasse il terreno in modo rettilineo. In essa era inserita la “manuzza”, un pezzo di legno trasversale al quale venivano spesso legate le corde (paricciari) per mezzo delle quali i contadini guidavano i buoi aggiogati. Un legno (spata) con un cuneo (cugnu), incastrato tra la virga e il dentale, li teneva uniti.
Dopo l’aratura, cioè prima della semina, la fresatura veniva fatta con il “ragho”. Questo poteva essere di due tipi: lineare e a virga. Quest’ultimo formato da rami di giunco opportunamente intrecciati.
Aratro e ragho venivano legati al giogo (juvu) con la “torta”, la quale era un ramo di giunco o di olmo che veniva messo sopra della paglia accesa in modo che ne bruciasse la corteccia, e il legno divenuto surriscaldato era opportunamente torto, cioè avvolto ripetutamente su se stesso facendo perno su un tronco d’albero, nel senso della lunghezza, per renderlo più compatto, robusto, duraturo e resistente.
La “torta” serviva appunto per legare al giogo qualsiasi attrezzo agricolo: aratro, carro, ragho, erpice…
Negli anni ‘50 compare l’aratro di ferro a doppio vomere e con due ruote. La bure o timone, in ferro, congiungeva ad una estremità il giogo e all’altra il vomere, e davanti c’era il coltro, una lama in ferro atta a tagliare verticalmente il terreno. L’aratro di ferro veniva tirato, a fatica, dai buoi, e l’uomo gli doveva far fare un giro su se stesso, tramite una impugnatura a manubrio, la stegola, che permetteva di ricominciare a solcare la terra in senso opposto.
- Zappa attrezzo agricolo manuale.
Era la maggiore “nemica” del contadino. Si vangavano principalmente i vigneti, che non si potevano arare non essendo disposti a filari.
Il desiderio principale dei nostri padri era quello di cercare un lavoro diverso, anche molto lontano, per esempio nelle Americhe, pur di affrancarsi dal lavoro faticoso e poco redditizio dei campi e nella speranza di un avvenire migliore per i figli.
Si racconta di un compaesano (Micu ‘u Buffiteu) emigrato in Argentina che trovò lavoro in una azienda agricola, il quale appena vide, in un angolo di un pagliaio, una zappa esclamò: “Smaliditta, arrivasti ‘ccà prima ‘i mia!”.
- Erpice attrezzo agricolo frantuma-zolle
Era generalmente costituito da un telaio in legno o in ferro sul quale erano inseriti dei denti fissi. Un altro tipo d’erpice consisteva in un quadrato di legno rozzamente connesso.
L’erpicatura del terreno era secondaria e complementare all’aratura. Le zolle erano sminuzzate con conseguente livellamento per coprire i semi.
- Carro veicolo da trasporto
Mezzo indispensabile per il contadino, era così formato: davanti c’era il giogo (juvu) una robusta asta di legno leggermente arcuata, che si poneva sul collo di una coppia di buoi, legati per mezzo di due lunghe cinghia di cuoio (pajiura). Il giogo veniva legato, per mezzo della “torta” di giunco , alle “cosce” del carro che ne costituivano la struttura. Sul piano orizzontale delle “cosce” si inchiodavano delle tavole che formavano la base del carro (stamigni). Lateralmente e verticalmente ad esse venivano inchiodate delle sponde, dette “panicastri” che così chiudevano il mezzo agricolo nella sua volumeria. La parte posteriore e il davanti del carro erano chiuse dai “timpagni”, strutture quadrangolari di tavole inchiodate. Da sotto il veicolo, robuste balestre lo collegavano agli assi delle ruote. Queste erano costituite da un cerchione di ferro di circa 5 cm di spessore con 12 raggi di legno che erano infilate in un asse. Il mezzo frenante era rappresentato dalla “martellina” a forma di T capovolta, collegata, da sotto la base del carro, alle ruote, per mezzo di due pezzi di ferro. La si tirava con una corda per l’azione frenante. Il carro serviva anche per il trasporto dello stabio. Quando si pulivano le stalle, il letame veniva ammonticchiato nell’aia formando così un cumulo (u munzeu i fumeri) che riampiva un pezzo di aia chiamata “a gurna du fumeri”; questo poi era distribuito e disseminato nei campi. Il carro pieno del materiale più vario (frumento, paglia, fieno…), costituiva la “carrata”.
Apieno carico, quando il contenuto era abbondante e si poteva arrivare ad alcuni metri di altezza, si imbracava il tutto con due lunghe corde (sciarti) che venivano stirate facendole avvolgere attorno ad un legno cilindrico, “‘u sbirriceu”.
Pasquale Vallone