Una riflessione del prof. Nicola Rombolà:
La lezione di Dante in questi dì:
l’illuminante viaggio della Comedìa e il follo volo di Ulisse
In questa emergenza la didattica a distanza si trasforma in istanza per la Coscienza: dalla maieutica del mito a quella delle parole, sulla rotta della virtute e canoscenza del XXVI canto dell’Inferno
Conoscerai come la Necessità, guidando la volta celeste, costringe gli astri a tenere i confini
Parmenide, frammenti
“La tecnica è di gran lunga più debole della necessità”
Eschilo, Prometeo incatenato
Psyché deriva da physèche che significa: ciò che sostiene e muove la natura. Téchne deriva da héxis noûs significa: esser padrone e disporre della propria mente
Platone, Cratilo
Considerate la vostra semenza/ Fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguire virtute e canoscenza./ Li miei compagni fec’io sì aguti, /Con questa orazion picciola, al cammino,/ che a pena poscia li avrei ritenuti;/ e volta nostra poppa nel mattino,/ de remi facemmo ali al folle volo…
(Inferno, canto XXVI, vv. 118-125)
“Maturare in silenzio, ‘lasciar maturare i frutti in un tempo che pare attardarsi infecondo’, è l’accettazione della misura: così che pazienza e solitudine sono le condizioni d’attesa; e d’altronde la misura non può nascere che da solitudine e pazienza, quando – nel paziente e solitario attardarsi entro il caos che pare infecondo – la misura dei confini umani – la misura prima della poesia – giunge a sanare il dissidio dell’animo e della sensazione, ed è un essere afferrati dalla grazia, un purificarsi nell’anonimità dell’uomo che fronteggia l’anonimità del Dio”.
Furio Jesi, Letteratura e mito
Nell’interregno del nostro cammin
Chissà cosa penserà il Sommo Poeta quando verrà a conoscenza che il 25 marzo gli è stato dedicato un giorno, “Dantedì” per ricordare l’inizio dell’immaginario viaggio ultraterreno (ma alcuni studiosi indicano l’8 aprile, sempre la sera del venerdì santo) quando correva l’anno in cui papa Bonifacio VIII aveva istituito il primo giubileo della storia, il 1300. Il padre della lingua italiana sarà soddisfatto dell’innesto al suo nome del sostantivo “dì” a mo’ di particella enclitica, come è accaduto ai cinque giorni della settimana dedicati alla Luna, a Marte, a Mercurio, a Giove e a Venere. La fantasia italica è proverbiale, anche la corruzione delle parole – e non solo- soprattutto da quando impera la prostrazione verso l’idioma “english”. Ci siamo salvati, forse per intercessione stessa del Sommo sceso dal cielo in terra a mostrare il miracolo dell’idioma del “sì”. Nel De Vulgari Eloquentia aveva distinto la locutio vulgaris delle lingue europee nell’idioma d’oc, d’oil e del sì. Con uno sforzo della fantasia, pari a quello del ministro per i beni e le attività culturali Dario Franceschini, come particella proclitica, mettiamo un bel “sì”. “Sì Dante, tu sei il Sommo Poeta e a te dedichiamo il 25 marzo, perché tu hai iniziato il viaggio di catarsi e di rinascita verso il Paradiso, dove ti aspettava Beatrice, a cui avevi promesso di scrivere un’opera che nessuno poteva mai immaginare di redigere con l’idioma del sì”. Siamo così, noi italica progenie in questo tempo di clausura, isolati e castigati dal pipistrello, l’uccello notturno che nei tanti oscuri voli, ha offerto al virus una corona da consegnare all’umanità nel primo ventennio del terzo millennio, per far espiare inconfessabili colpe, e ricominciare, si spera, un viaggio di catarsi dopo la tragedia: “Per correre miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro a sé mar sì crudele;/ e canterò di quel secundo regno/ dove l’umano spirto si purga/ e di salire al cielo diventa degno.” (Purgatorio, I canto, vv. 1-6)
Dante sì! che ci insegna come la conoscenza senza patimento non diventa né scienza, né coscienza: ci racconta che il viaggio è ispirazione e avventura dello spirito, ci mostra che l’oscurità va attraversata con la potenza profetica della visione attraverso il ben dell’intelletto e l’amore, e ci testimonia che l’esperienza umana è segnata da travagli che illuminano il cammino di ascesi fino a raggiungere le sfere infuocate dell’Empireo (empiryos, ardente): “luce intellettual piena d’Amore/ amor di vero ben, pien di letizia/ letizia che trascende ogni dolzor” (Paradiso, Canto XXX, vv. 40-42). Il viaggio verso la salvezza si coniuga con la fiducia in un sentimento che ha il potere di svelare tutto ciò che l’umana esperienza non può tradurre a parole: “Trasumanar significar per verba/ non si poria, però l’essemplo basti/ a cui esperienza grazia serba.” (I canto, Paradiso, vv. 70-73).
Da quella “mirabile visione ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei… quello che mai non fue detto da alcuna” (Vita Nuova, 1292-93, cap. XLII)” sono passati quasi 7 secoli e tre decenni. Dante compie il viaggio verso la luce dell’eternità e ritorna nel nostro mondo per svelarci, con l’ultimo verso del sacro poema, che è “L’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, Canto XXXIII, v. 145). Come il Sommo Poeta, anche noi, in questo interregno, ci ritroviamo trascinati nella più grande avventura dello spirito mai concepita: esistenziale, intellettuale e mistica. La potenza intuitiva della sua “luce intellettual piena d’Amore“, come una folgore, squarcia l’oscurità dei secoli e ci consegna, con il suo linguaggio figurato, simbolico e anagogico, un’umanità in esilio, smarrita, che va alla ricerca di una guida per uscire dalle tenebre dell’angoscia. Nel battito temprato dei versi del suo viaggio si stagliano come spettri, gli enigmi del nostro tempo, le nostre inquiete e tragiche esistenze, ma anche la via verso la redenzione.
Il beffardo sorriso della verità e la “beata ebetudine”
Immaginiamo un orizzonte aperto nella storia dello spirito e del progresso tecnico e scientifico: dal mitico furto del fuoco di Prometeo all’attuale furto, compiuto ai danni delle nuove generazioni dall’ambizione smisurata e illusoria attuato da avidi plutocrati e da poteri spietati ammantati del dono profetico dello spirito capitalistico e dell’etica protestante (M. Weber). Per la legge del contrappasso stiamo vivendo la discesa verso gli inferi con un processo involutivo antropologico, culturale e spirituale. Il cosiddetto “darvinismo sociale” in un contesto come quello attuale, erede dell’antropologia di matrice positivistica alla Lombroso e di tutte le teorie eugenetiche e razziste, ha prodotto come risultato l’imbecillità al potere e quindi al ribaltamento del concetto di evoluzione della specie, secondo il pensiero di C. Darwin: “Coloro che non ammettono l’evoluzione, guarderanno alle specie come creazioni separate, e in qualche maniera come entità distinte” (C. Darwin, L’origine dell’uomo, VII cap.). Abbiamo toccato con mano come, la “legge del più forte”, la lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale del più adatto (in passato giustificata con presunta superiorità o purezza della razza), abbia portato folli istrioni al potere e che nel corso della nostra storia, nell’era social, si è tradotta con la proliferazione irreversibile del consenso attraverso deliranti e aberranti suggestioni in pasto al popolo sempre più narcotizzato, manipolato e affamato di immondizie e di prodotto interno lordo. Un “martire” di questo delirio, Robert Kennedy, tre mesi prima di essere ucciso, nel marzo del 1968, (così come lo è stato il fratello presidente degli USA, John Fitzgerald, ucciso il 22 novembre 1963, a cui il premio Nobel Bob Dylan, in questi giorni, ha dedicato una lunga ballata, una sorta di lamento funebre, “Murder Most Foul), ha pronunciato un discorso in cui metteva in luce che cosa si porta dentro Pil: “… misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta” e “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.” Questa ultima riflessione, ci racconta quello che sta avvenendo in Italia, in Europa, negli USA e in tutto il mondo, dove i dominatori economici e politici hanno imposto la bibbia neoliberista del dio supremo del profitto e del lucro. Attraverso la menzogna del Pil e del denaro, per distogliere lo sguardo da quel che veramente si cela nelle viscere del corpo tumefatto di questa umanità, e con la promessa della polvere aurea accecante, si alimentano ignobili ipocrisie, spietati e mostruosi interessi, disumanità, l’affanno di onnipotenza e di possesso, e si instilla la “beata ebetudine” nelle vene delle comunità video e social. Ma è bastato un virus a fermare la folle corsa dell’immane macchina facendo emergere la verità di una società coperta di vanità. Nella “normalità” si commettevano delle enormità e il mondo, come il ciclope Polifemo ubriacato, veniva accecato dal tronco infuocato di Ulisse. Ora un microscopico parassita appare enorme e l’invisibile diventa più potente di ciò che si mostra visibile. Così siamo diventati attori non più sulla scena di un reality show, ma di un inverosimile teatro con il sipario calato, dove a recitare la nostra enorme fragilità, vulnerabilità e stupidità, ci sono l’ignoto, il grottesco, l’assurdo, il paradosso, l’incertezza, il dissidio, l’angoscia, il baratro. E ci ritroviamo a viaggiare in questa sospensione surreale di parole che interrogano il silenzio, mentre la verità si mostra con un sorriso beffardo.
Il fuoco, Prometeo, Ulisse e il folle volo oltre le Colonne d’Ercole
L’ebbrezza folle del viaggio di Ulisse si spegne in quello stesso mare, implacabile come il suo ardore, che sancisce la catastrofe. L’ambizione umana che non conosce limiti è prefigurata da Dante nel canto XXVI dell’Inferno, quello in cui ci presenta l’eroe omerico che racconta la sua fine, spingendo i suoi compagni ad una impresa impossibile dopo la sua “picciola” orazione. Il suo incitamento a non fermarsi ma a ricercare “virtute e conoscenza” fino al punto di varcare le colonne d’Ercole, viene rappresentato simbolicamente attraverso la lingua biforcuta di una fiamma (con il suo complice Diomede, che rubò il Palladio a Troia). Si trovano nell’ottava bolgia, dove sono puniti i consiglieri fraudolenti. Ulisse non si smentisce e con il folle volo trasgredisce l’ordine imposto dagli dèi. La sua tensione conoscitiva aveva come scopo il mondo stesso, l’umanità, concepito da Dante quale prefigurazione della vera scienza di Dio. L’ardore verso la conoscenza, la sapientia mundi, lo ha condotto a compiere questo ultimo viaggio verso il naufragio nell’ignoto. Il Poeta non condanna l’ardimento di Ulisse, ma avvisa che senza la grazia di Dio non ci può essere salvezza. Nel suo naufragio naufraga la nostra stessa storia. Senza una visione, senza una guida che può illuminare il cammino, senza l’ispirazione di una forza trascendente, ad attenderci ci sarà la voragine dell’inferno. L’attesa si deve commisurare con la virtus e anche la pietas , che rappresentano, non solo cristianamente, ma eticamente, quella coscienza che impone un freno all’uomo, costringendolo alla misura, al limite, all’umiltà, all’umanità. Il filosofo tedesco Gunther Anders, in “Noi figli di Eichmann” (1964) prefigura che la smisuratezza conduca al mostruoso. Nell’era della supremazia della tecnica, l’uomo non è più in grado di prevedere gli effetti delle proprie azioni e dei propri comportamenti: “…quello che siamo capaci di fare (e quindi quello che davvero facciamo) è più grande di ciò che noi possiamo farci un immagine, vale a dire che tra la nostra capacità di produzione e quella d’immaginazione si è aperta una frattura, e che questa si allarga di giorno in giorno. Significa che la nostra capacità di produzione è illimitata, dato che l’incremento delle prestazioni tecniche non conosce limiti; mentre quella della nostra immaginazione è limitata per natura”. Per questo, afferma Anders, siamo diventati degli “analfabeti emotivi che dovendosi confrontare con dei testi troppo grandi, non si accorgono neanche più di averli davanti agli occhi”. Questo mondo oscurato ha generato e genera la ripetizione del “mostruoso”: il massacro nei lager è stato solo l’introduzione, perché “oggi il nostro mondo, nel suo insieme, si sta trasformando in una macchina, è in procinto di diventare una macchina”. L’uomo negli ultimi secoli ha giocato e sta giocando con il fuoco, come un bambino. Nell’Ulisse dantesco l’ardore della conoscenza rivela comunque un travaglio interiore drammatico, epico, titanico, indicando la vastità di quel mare infinito come il suo sogno, ma appare desolato come la sua umanità eroica. Nel canto XXVI dell’eroe omerico emerge il contrasto tra il terrore e il fascino del viaggio, tra l’esaltazione dell’umanità e il riconoscimento del suo limite. La catastrofe è insieme il suggello della grandezza dell’eroe e dell’onnipotenza di Dio. Francesco De Sanctis nella sua “Storia della Letteratura italiana”, ha compreso che “la concezione dantesca è una delle più tragiche che siano mai state concepite. S’incontrano insieme le più opposte passioni, l’allegrezza e il dolore, il porto e il naufragio”.
Senza patimento non c’è conoscenza: il páthei máthos
Non si ha conoscenza senza patimento. Nei versi che Dante dedica alla figura di Ulisse, si coglie il topos del páthei máthos, espresso in maniera memorabile nell’Agamennone di Eschilo, quando il coro intona il famoso Inno a Zeus:
Zeus, chiunque egli sia, se è questo il nome, cui gli è caro essere invocato, così a lui mi rivolgo: nulla trovo cui compararlo, pur tutto attentamente vagliando, tranne Zeus, se veramente si deve gettar via il vano peso dal proprio pensiero. Ma chi a Zeus con gioia leva il grido epinicio, coglierà pienamente la saggezza. A Zeus che ha avviato i mortali, a essere saggi, che ha posto come valida legge “saggezza attraverso la sofferenza”. Anche nel sonno stilla davanti al cuore un’angoscia memore di dolori: anche a chi non vuole arriva saggezza.
Eschilo, autore della tragedia “Prometeo incatenato”, affronta i temi del male, del patire, del dolore e della paura che colpiscono gli uomini nei loro rapporti intimi con il divino e la società. Secondo una prima concezione, il male e la sofferenza erano determinati solo dall’invidia degli dèi, dall’hybris; ma più avanti acquistarono un nuovo valore diventando uno strumento per educare gli uomini alla giustizia, in quanto solo attraverso il dolore essi possono conoscere nel profondo se stessi: ritroviamo tale legge in tutte le espressioni letterarie collegabili al culto dell’Oracolo di Delphi. Anche Dostoevskij, nelle “Memorie del sottosuolo” nel suo lungo monologo, ripropone il problematico rapporto tra dolore, conoscenza e felicità: “Io sono convinto che l’uomo non rinuncerà mai alla vera, autentica sofferenza… Giacché la sofferenza è la vera origine della coscienza… In realtà io continuo a pormi una domanda oziosa: che cos’è meglio, una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze? Dite su, che cos’è meglio?” (cap. IX della prima parte). L’umanità, fin dal sorgere del mito, porta dentro di sé delle matrici primordiali, gli archetipi, scolpiti nell’inconscio collettivo, che hanno una funzione profetica, e ne scopre la loro potente voce che si rigenera, ed è sempre vitale la sua energia segreta, come affiora in questa riflessione del filosofo Salvatore Natoli:
“La felicità differisce radicalmente dal dolore, pur essendo altrettanto radicalmente coinvolgente. Chi soffre, infatti, non solo si interroga sulle ragioni del proprio soffrire, ma tramite la sofferenza eleva se stesso a problema, e per tale via s’interroga in generale sul senso dell’esistenza. (S. Natoli, La felicità. saggio di teoria degli affetti, 1996).
Come in una parabola, l’Homo Sapiens oggi si ritrova ripiegato indietro e si scopre figlio ma anche orfano del mito. Il mito racconta la storia profonda, lontana, arcana, sacra e profana dell’umanità, e svela, se interrogato, la chiave per poter immaginare il futuro, e paradossalmente, gettare luce nell’oscurità del presente. Ma è nello scavo del presente che si apre la via verso il futuro. Ulisse utilizza il fuoco per accecare il ciclope Polifemo, dopo averlo ingannato. Simbolicamente eredita l’astuzia che Prometeo usa per rubare il fuoco a Zeus e donarlo al genere umano. Dal mitico furto si è generata la tecnologia attuale, che ha varcato i confini umani, rappresentati dalle Colonne d’Ercole. Il folle volo della tecnica e le sue applicazioni attuali hanno spalancato il varco verso il trans o post umano. Su questo scenario inquietante si era soffermato, nei primi anni Cinquanta, sempre il filosofo Anders, quando alcuni scienziati e filosofi cominciano a definire una nuova visione del futuro, e danno corso alla corrente del transumano o postumanesimo. Nell’opera “L’uomo è antiquato” (1956), Anders prefigurava che, “come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso: si ‘trascende’ sempre di più e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale”. L’uomo si affida alla tecnica e alla tecnologia dell’intelligenza artificiale per sentirsi più sicuro e più potente, in quanto sente come, tra gli altri esseri viventi, di essere più debole. Questa fragilità lo spinge non verso l’umiltà, ma ad essere smisurato, ad essere preda della hybris). Ma l’incompiutezza e la precarietà dell’essere umano lo fanno sentire “soggetto a rischio” rispetto agli altri esseri viventi. Lo sottolinea il filosofo Arnold Gehlen, in quella che è la sua opera più significativa, intitolata proprio “L’uomo” (1940). Focalizzando l’attenzione proprio sul comportamento dell’uomo, in una riflessione non solo filosofico-antropologica, ma anche etologica, spiega: “L’uomo è l’essere che agisce. In un senso che dovremo precisare meglio, egli non è ‘definito’, è cioè compito a se medesimo; è, come si può anche dire, l’essere che prende posizione. Gli atti del suo prender posizione verso l’esterno chiamiamo azioni, e, proprio perché egli è anche compito a se medesimo, prende posizione verso se stesso e ‘fa di se stesso qualcosa’. Lungi dall’essere un lusso superfluo, questa ‘incompiutezza’ appartiene alle sue condizioni fisiche, alla sua natura, e sotto questo profilo l’uomo è un essere cui inerisce la disciplina (Zucht): autodisciplina, educazione, ‘disciplinamento’ (Zuchtung), nel duplice senso di acquisizione e di mantenimento di una forma, sono tra le condizioni di esistenza di un essere non definito. E in quanto l’uomo, che non ha altro fondamento che se stesso, può anche mancare a tale compito tanto necessario alla vita, ne viene che egli è l’essere precario, ‘soggetto al rischio’, con una possibilità costituzionale di fallire. L’uomo è infine l’essere che antivede e provvede (worsehend). Come Prometeo, è obbligato a dirigersi su ciò che è lontano, su ciò che non è presente nello spazio e nel tempo; vive – a differenza dell’animale – per il futuro e non nel presente”. Questa post modernità, che ha ereditato il dono di Prometeo, che si trova “in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale” (G. Anders, L’uomo è antiquato), non ha una visione, imprigionata nel vortice della velocità, non è in grado di osservare il divampare del presente e di conseguenza, sarà destinata a bruciare il futuro. Il fuoco non è dono che arde, ma brucia e la tradizione diventa cenere, parafrasando la metafora coniata dal compositore Gustav Mahler: “La tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”. Quella fiamma è diventata una potenza concentrata in poche mani che diventano sempre più smisurate, in quanto potrebbero annientare l’umanità in un attimo. Questa empietà porta da un lato, ad essere divorati dal Minotauro, e dall’altro, all’intervento di Nemesis, la personificazione della giustizia in quanto garante di misura e di equilibrio, dell’ordinamento della natura e politico-sociale. E’ già in atto la punizione che ristabilisce l’ordine compromesso dal superamento dei limiti (hybris). Prometeo è stato incatenato alla rupe per aver oltraggiato Zeus; anche Ulisse spinge al folle volo i propri compagni dopo averli esortati alla virtute e canoscenza e sono stati inghiottiti da un vorticoso flutto. Oggi l’umanità è incatenata alla rupe invisibile del coronavirus, e il sospetto che sia stato creato dalle mani imprudenti dell’uomo in qualche segreto laboratorio, inquieta ancor di più. Con la sua incommensurabile genialità Dante, nel concepire la figura di Ulisse, ha intuito e profetizzato il paradigma della nostra condizione attuale, umana, esistenziale, antropologica, sociale e storica. Da una parte il desiderio smisurato di essere sempre più potenti e più sicuri, di poter controllare e dominare la natura attraverso la tecnica; dall’altro l’ambizione di oltrepassare i confini, le Colonne d’Ercole; ma dietro incombe una grande incompiutezza, una enorme fragilità esistenziale e spirituale. Anche Stefano Rodotà (giurista e politico, 1933 – 2017) aveva sollevato questi dubbi in un articolo intitolato “Siamo umani o postumani” pubblicato su la Repubblica (11 giugno 2011), partendo dalle parole di Francesco Bacone scritte nel 1627 (in Magnalia naturae , in appendice alla “Nuova Atlantide”): “Prolungare la vita: ritardare la vecchiaia: guarire le malattie considerate incurabili: lenire il dolore: trasformare il temperamento, la statura, le caratteristiche fisiche: rafforzare ed esaltare le capacità intellettuali: trasformare una corpo in un altro: fabbricare nuove specie: effettuare trapianti da una specie all’altra: creare nuovi alimenti ricorrendo a sostanze oggi non usate”. Così commenta Rodotà: “Lontane dal tempo, queste due posizioni riflettono modi assai diversi di guardare al ‘trascendersi’ della persona, con un passaggio dallo sguardo ottimistico lanciato sul futuro da Bacon ad una riflessione sulla quale incombe la bomba atomica, che segna drammaticamente l’uscita dalla guerra, ma ipoteca in modo altrettanto drammatico il futuro. Oggi, realisticamente, il destino del genere umano appare affidato a scienza e tecnica, che lo liberano progressivamente da caso o necessità, fino a prendere congedo dalla natura. Di fronte alla radicalità di questo passaggio l’etica torna prepotentemente in campo, la politica si divide, il diritto si interroga sul proprio ruolo. Parole nuove ci accompagnano – biopolitica, bioetica, biodiritto. È con esse, l’umanità sembra voler ‘uscire da se stessa’ nel senso che si svincola dalla pura logica darwiniana, affidandosi ad una evoluzione tutta legata ad una tecnica direttamente governata dalle persone”. Nel già citato libro del 1964, “Noi figli di Eichmann”, Anders si era spinto ancora oltre, con una visione più radicale: “Quanto più si complica l’apparato in cui siamo incorporati, quanto più si ingrossano i suoi effetti, tanto meno vediamo, tanto piccola si fa la nostra chance di comprendere i procedimenti di cui noi siamo parti o condizioni. Nonostante il nostro mondo sia fatto dall’uomo e sia mantenuto in movimento da noi tutti, a causa del fatto che esso si sottrae alla nostra immaginazione e alla nostra percezione diviene di giorno in giorno più oscuro. Tanto oscuro che non riusciamo a vedere il suo oscuramento. L’ingenua speranza ottimistica del XIX secolo, quella secondo cui la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la chiarezza dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in tale speranza, non solo è un semplice relitto dell’altroieri, ma è anche una vittima degli attuali gruppi di potere; cioè vittima di quegli oscuri uomini dell’era della tecnica che hanno tutto l’interesse a mantenerci all’oscuro sulla realtà dell’oscuramento del nostro mondo, producendo ininterrottamente quest’oscurità…”.
Oltre il nostro destino: il supplizio di Sisifo
Dal mito di Ulisse e di Prometeo a quello di Sisifo. La Divina Commedia è un viaggio escatologico, catabasi e anabasi: alla discesa negli inferi corrisponde l’ascesa verso la luce del paradiso. La condizione di beatitudine raggiunta da Dante con il suo viaggio di espiazione, ha come contraltare il mito di Sisifo, evocato dallo scrittore Albert Camus, che prefigura una visione distopica (simile a quella di Anders) della condizione esistenziale dell’uomo post moderno. Nella riflessione di Camus a dominare è l’assurdità della vita: del male, della sofferenza, del dolore. La domanda di senso sul destino dell’uomo contemporaneo e della sua estraneità dal mondo (l’affronta nel romanzo “Lo straniero”, 1942), sembra senza alcuna giustificazione, facendo emergere la precarietà e la fragilità dell’essere umano, da quando ha smarrito i suoi punti di riferimento, le sue certezze. Dante dopo lo smarrimento nella selva oscura ha trovato la forza morale, spirituale, intellettuale per proseguire il suo viaggio verso la redenzione attraverso la luce della fede e dell’amore. Camus sperimenta la desolazione dell’uomo contemporaneo che naviga solitario e senza rotta (già interrogata tra gli altri da T.S. Eliot nel poema “La terra desolata”, The waste land, 1922), abbandonato nell’ignoto e nella sua tragica lotta, che è la sorte a cui va incontro il personaggio mitico Sisifo, costretto a espiare un supplizio eterno. In un passaggio del suo discorso pronunciato in occasione del ritiro del premio Nobel del 1957, Camus pronuncia queste parole: “Ogni generazione si crede votata a rifare il mondo. Ma la mia generazione sa che non lo rifarà. Il compito è troppo gravoso. La mia generazione si impegna solo a impedire che il mondo si disfi, si distrugga […] nel suo sforzo maggiore l’uomo può soltanto proporsi di diminuire aritmeticamente il dolore del mondo.”
Questo limite o senso di impotenza di fronte alla manifestazione per lui assurda del male, della sofferenza e del dolore, e quindi di una visione tragica della vita, lo enuncia in modo compiuto nel libro “Il mito di Sisifo” scritto nel 1942, in piena seconda guerra mondiale: “Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.” L’assurdo è penoso e la presa di coscienza di esso frustra e macera, ma rappresenta una sfida intellettuale ed esistenziale. La soluzione a questa condizione che sembra senza via di uscita, la trova prima nell’accettazione del proprio destino e nell’assurdo che lo contrassegna, attraverso una rivolta tenace, in una titanica tensione esistenziale per mettersi all’estrema prova per diventare più grandi del proprio destino; poi nella solidarietà umana, espressa nel romanzo “La peste”, pubblicato nel 1947. “La peste”, che prefigura quello che sta accadendo in questi giorni, appresenta perciò un superamento del senso tragico e assurdo dell’esistenza umana e ci indica l’uscita dal labirinto in cui ci troviamo oggi. È un altro viaggio nella selva oscura ma senza Virgilio e Beatrice. A decidere del nostro destino, dobbiamo essere noi, con la nostra intelligenza, con i nostri sentimenti e soprattutto, con la luce della nostra coscienza. Come aveva prefigurato Leopardi ne “La Ginestra”, la risposta alla domanda di senso della vita è data dalla solidarietà, dall’aiuto reciproco, dalla “social catena”, dalla fraternità, dal sentimento di pietas, dal sentirci tutti una comunità, laica e cristiana, in lotta per dare risposte alla sofferenza e al dolore: e non certo homo omini lupus. Questo significa ancora che è fondamentale la coscienza etica per riscoprire la bellezza del dono, in senso sia materiale che spirituale, verso il creato e le sue creature: trovare una luce che possa illuminare il cammino per uscire dalla condizione infernale in cui ci troviamo, come aveva immaginato Italo Calvino nell’ultimo dialogo con l’estremo oriente tra l’italiano Marco Polo e Kublai Kan ne “Le città invisibili”. Alla fine del viaggio, così riflette Kublai, mentre sfoglia nell’atlante le carte delle città “che minacciano negli incubi e nelle maledizioni”: “Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”. E Marco Polo, come sigillo al suo immaginare e descrivere le città invisibili, risponde: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce ne uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto da non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Attenzione e apprendimento continui: per poter sperare di uscire dall’attuale inferno. A partire dalle parole e dal loro etimo:
Psyché deriva da physèche che significa: ciò che sostiene e muove la natura.
Téchne deriva da héxis nous che significa: esser padrone e disporre della propria mente.
Nicola Rombolà