Il primo capitolo di un libro che ho pubblicato di recente col marchio Mario Vallone Editore, intitolato “Maestri di color che sanno – contributi vari all’educazione ed alla Pedagogia”, scritto da un autore originario di Drapia ma residente a Milano di nome Franco Messina.
Capitolo I: ANNA FREUD
ANNA FREUD, sesta (e ultima) figlia di Sigmund F. il Fondatore della Psicanalisi, nasce a Vienna nel 1895. Divenuta Maestra d’asilo, si dedica dapprima all’insegnamento. Ma è anche attratta dalla disciplina paterna e ad essa si dedicherà poco dopo, in particolare a quella infantile, “nella speranza di prevenire nei bambini in crescita inutili sofferenze e future malattie mentali” (Lottie M. Newman).
E’ del 1927 l’articolo Teoria dell’analisi infantile, importante contributo alla psicanalisi dei bambini, dopo il caso del “Piccolo Hans” descritto dal padre. Dieci anni dopo fonda, assieme alla collega Dorothy Birlingham, un asilo sperimentale per bambini piccoli.
Nel 1938, a causa dell’occupazione nazista, la famiglia Freud si trasferisce a Londra. Qui, ancora con Birlingham, Anna fonda una casa per bambini rimasti orfani di guerra, poi trasformata in un centro di cura e prevenzione per bambini e adolescenti. Questa esperienza suggerirà ad entrambe il libro Bambini senza famiglia: in cui “per la prima volta vengono studiate in modo sistematico le conseguenze sullo sviluppo infantile della privazione delle cure dei genitori” (Annalisa Ferretti Levi Montalcini); anche se il Capolavoro assoluto di Anna Freud è considerato L’Io e i meccanismi di difesa.
Nel successivo Normalità e patologia del Bambino viene presentato e svolto il concetto di “linee di sviluppo” del bambino, l’idea che lo sviluppo della personalità infantile avviene per tappe quasi indipendenti l’una dall’altra. Tale saggio rappresenta come una summa del pensiero dell’Autrice sulla psicologia e psicopatologia infantili.
Anna Freud muore a Londra nel 1982.
Torniamo a Normalità e patologia nel Bambino: importante, secondo me, allorchè vi si dice per esempio che solo cercando di capire (e di distinguere) ciò che nel bambino (ma vale anche per l’adulto) è normale da ciò che è patologico (ciò che noi adulti consideriamo tali) è possibile condurre l’analisi, ma soprattutto è possibile adottare un tipo di educazione anche su basi psicologiche. Anche per Anna Freud come per Sigmund i disturbi infantili sono per lo più di origine sessuale. Sì che “la mascolinità esagerata e l’aggressività molesta sono ipercompensazioni che tradiscono sottostanti angosce di castrazione”. L’opposto della tesi di Melanie Klein, secondo cui l’aggressività estrema sarebbe innata. (Per inciso: questa era anche la tesi di Lombroso, poi smentito).
Un altro fattore psicopatologico è la separazione madre-figlio nella primissima infanzia: “le violazioni del legame biologico madre-bambino, qualunque ne sia la causa, faranno sorgere una vera e propria angoscia di separazione”. (Giovanni Bollea parla di perdita dell’autostima da parte del Bambino). Inoltre, riprendendo il tema della repressione sessuale da cui deriverebbero gran parte dei disturbi del bambino, la Freud afferma che “è irrealistico da parte dei genitori contrastare l’autoerotismo pregenitale”. E poichè, anche, distingue fra piacere e dispiacere, ne segue che “le probabilità che un bambino rimanga psichicamente sano sono strettamente connesse con la sua reazione al dispiacere che sorge quando i derivati delle pulsioni rimangono insoddisfatti”. Inoltre la Freud, per quelli che piccolissimi non sono più, considera anche la sublimazione: “non vi è dubbio – dice – che la loro capacità di sublimare sia una valida salvaguardia per la salute psichica”. Infine, è presente pure quella che potremmo definire “individualità” e che per la Nostra sta a significare che: “qualità come il coraggio o la codardia, la generosità o l’avidità, la razionalità o l’irrazionalità vanno comprese in modo diverso a seconda dei diversi individui”; ma soprattutto significa che ogni bambino è un individuo a sè e va trattato come tale: clinicamente, psicologicamente, pedagogicamente. Per esempio: se all’attività erotica (lato sensu) del bambino, gli adulti associano la colpa (e succede quasi sempre), ne segue “la docile sottomissione, nella malattia, alle prescrizioni del medico”; pur se non sempre questo dipende “dai sensi di colpa, cioè dall’idea che la malattia sia una punizione ben meritata che il bambino si è attirata”. Quei sensi di colpa – commento io – sono i pregiudizi degli adulti: che troppo spesso cercano a viva forza di adultizzare i bambini, rendendoli psichicamente instabili e insicuri mentre, paradossalmente, all’estremità opposta, si cerca di “ultrainfantilizzarli”.
Sul rapporto tra psicanalisi e educazione Anna afferma che anzitutto “bisognerebbe precisare che la psicanalisi ha sempre manifestato il desiderio di porre fine alle limitazioni dell’educazione”. Occorre tener presente infatti che “il mondo esterno influisce sul meccanismo della nevrosi infantile molto di più che nel caso dell’adulto”; e l’educatore è appunto un adulto, e gli adulti, quasi sempre, tendono a colpevolizzare il bambino qualsiasi cosa faccia, che non si accordi con i canoni etici da essi stabiliti. Ecco allora che egli “possiede una doppia morale: una per il mondo degli adulti, e una per sè e i suoi coetanei”. Dopodichè: la psicanalisi è utile in pedagogia perchè “si sforza di riequilibrare i danni che sono stati fatti al bambino durante il percorso educativo”. Ogni educatore, dunque, dovrebbe conoscere la psicanalisi; ma anche ogni psicanalista infantile dovrebbe “essere fornito di nozioni, sia teoriche che pratiche, di pedagogia”. Ogni opera educativa quindi dovrebbe in parte ispirarsi alla psicanalisi, e non dovrebbe essere nè repressiva, in contrasto con gli impulsi primari, nè lassista, ma dovrebbe “trovare per ogni età del bambino l’equilibrio fra il concedere gratificazioni e il contrastare le pulsioni”. Non solo: è anche necessario compiere sul bambino una qualche anamnesi: “ampliare le ricerche fino al periodo che precede l’ingresso del bambino nelle istituzioni educative pubbliche e ai primi effettivi educatori della sua vita: al periodo quindi, trascorso in casa” prima di tale ingresso. L’anamnesi però l’analista la può fare solo basandosi su “ciò che gli dicono i genitori”, perchè il bambino “non ci sa dire granchè sulla storia della sua malattia”. Neanche questo però è sufficiente. Infatti, come rileva Anna Aluffi Pentini, per la Freud “l’educatore, dato il continuo confronto con individui in crescita, deve aver compiuto un percorso personale di comprensione delle proprie conflittualità infantili, onde evitare dinamiche relazionali che potrebbero risultare pericolose”.
Le tecniche di cui si devono servire sia l’educatore che, soprattutto, l’analista infantile, per la Freud sono almeno quattro: l’anamnesi di cui s’è detto, l’interpretazione dei sogni, il gioco, il disegno. Dei sogni Anna dice che quelli “dei bambini sono certamente più facili da interpretare” di quelli dell’adulto. Del disegno, beninteso quello spontaneo, dice che “ha spesso una parte di primo piano” e può sostituire, “per un certo periodo, quasi tutti gli altri modi di comunicare” del bambino. Del gioco pure ho detto.
Franco Messina
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