Giugno 1992. In un villaggio della Somalia, si consuma un eccidio di inaudita ferocia. I cadaveri non vengono seppelliti. Perché, dichiara una delle protagoniste: «Manca chi avrebbe la forza per farlo». È questa una delle immagini più angoscianti che si legge nelle prime pagine de Le rughe del sorriso, recente pubblicazione a firma di Carmine Abate.
Essa è un’opera che stimola sia l’attenzione che la riflessione del lettore. Lo introduce con delicatezza, ma allo stesso tempo con realismo, in una storia contemporanea che scuote nel profondo la coscienza umana.
Alle immagini cruente, se ne sovrappongono, tuttavia, anche altre segnate da un’umanità senza tempo e senza confini. Il libro, a ben pensarci, non è molto differente, nella sua impostazione, dalla produzione letteraria dell’autore.
I temi del dolore, della violenza fisica e morale e dell’emigrazione prevalgono anche in questo romanzo dello scrittore di Carfizzi. Essi sembrano quasi traslati in un mondo e in una realtà differente. In sostanza, non mutano le tracce della trama letteraria, ma i protagonisti.
L’autore muta la prospettiva, ma tiene saldi i suoi riferimenti culturali.
Anche il linguaggio rimane sostanzialmente immutato. Carmine Abate ha sempre avuto la capacità di contestualizzare i modi di parlare dei protagonisti dei suoi romanzi. E lo fa anche in questa sua opera. Lo stile dell’autore rimane infondibile. Non appena parla del gioco del tressette, fa riferimento al padre del protagonista, ricordando la sua “spertizza cartigna”.
La trama del libro è a tratti straziante, ma anche avvincente e intrigante.
L’autore rifiuta impostazioni rigidamente manichee. Il bene e il male sono presenti sia al di qua che al di là del Mediterraneo. Persone di pace e di vedute moderne, al pari di malvagi e delinquenti sono presenti in Africa come in Calabria. Le vicende sono saldamente ancorate all’effettualità delle dinamiche collegate all’immigrazione.
Non si registrano compiacimenti letterari, scosse moralizzatrici, pregiudizi di natura ideologica. Le vite dei protagonisti sono sconvolte dagli orrori umani, dall’imprevisto che le relega nella dimensione della povertà e dell’annientamento delle proprie certezze costruite così faticosamente.
In un passaggio del libro, i professori somali tentano una resistenza culturale contro l’integralismo professato dagli Shaabab, ispirati dal loro proverbio: “Essere senza istruzione è come essere senza luce”. Tuttavia, i fatti storici che travolgono i destini dei protagonisti, dimostrano che la cultura, da sola, è insufficiente a prevenire l’odissea di popoli interi. È questa l’essenza politica del libro di Carmine Abate?
Corrado L’Andolina
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