“Figli di terracotta” – RIFLESSIONI

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Figli di terracotta, è una raccolta poetica di Katia Melis, che fin dai primissimi versi, fa trasparire una vena malinconica e di rassegnazione, per l’evidenza che in questo universo, alcune cose sono avvenute e ce le siamo trovate sul nostro cammino senza poter fare niente, se non accettarle, manifestando così un vago senso d’impotenza, come nelle righe prima accennate. Secondo le quali, consapevolmente la terra si è lasciata prendere in giro con una maternità, forse compromessa dal peccato fin dalla concezione, e per questo motivo ha dato alla luce noi, già fragili per natura  difronte a qualsiasi difficoltà della vita. A causa di ciò, l’essere umano tende ad isolarsi creando intorno a se un vuoto in tutti i sensi.

Condizione che pare avvertita anche dalle farfalle, le quali, preferiscono restare nascoste anche di giorno. Questo, denota un’epoca in cui il mondo è privo di sentimenti e l’umanità si è autosegregata, da far pensare che sia partita chi sa per quale galassia, lasciando dietro di se il nulla, che anche le gioiose farfalle rifiutano.

 L’ombra di tristezza diventa più scura con linfa nera, forse perché è quella che alimenta la vita sostituendo il sangue rosso fuoco, non più in grado di reagire a quelle sensazioni di freddo autunno e delle notti in cui i sogni sono più scuri del buio. Lasciando così campo libero alla desolazione, che pian piano scava nel cuore dell’uomo creando megaliti di paura.

In questa logica  la nostra Katia è come se volesse additare il poeta quale oracolo del passato e del divenire, che ha già vaticinato il tutto con i suoi scritti, fonte di consapevolezza e di discordia morale, come fossero le stesse verità di quel profeta che non è mai stato ben visto in patria.

Le quali, non passano come il tempo, perché durevoli come quelle pietre di Berlino che richiamano alla mente i ricordi di amare realtà in cui impera l’assenza di fraternità e di perdono.

Realtà non sopita, anche perché ella medesima si è specchiata negli occhi azzurri del sofferente, ormai ridotto ad un cumulo di carne ed ossa, ma ciononostante, le sue luci erano più azzurre del mare, in cui ritrovava la serenità che non ha nella vita.

Scaturendo da questa esperienza un barlume di luce, che le dà la forza di asserire che la sua esistenza sta per affrontare una strana primavera, che sembra più un tardo autunno, e lei, per ravvivarla ulteriormente, ci mette la sua voglia per andare oltre, cedendo a lui una parte di se, come fosse una talea in grado di rinvigorire un legame e riportare lui ad un mondo nuovo, dando retta così, allo stesso tremolio del pino che le ricorda di andare oltre lo sconforto dei tempi passati, quando anelava ad una carezza in cui trovare consolazione.

Forse per questo, ma soprattutto per non sapere la verità che potrebbe far male, candidamente confessa che anche una semplice bugia può sembrare dolce e innocente.

Mascherando così la paura di percorrere l’intera esistenza, senza addormentarsi al ricordo di lui che è svanito lasciando dietro di se, solo calde lacrime che levigano perfino i ciottoli sul greto del fiume.

Ed ecco che pian piano,l’angoscia anzi manifestata si attenua, pur rimanendo sempre presente come costante della silloge.

Che dire dell’opera, se non affermare che essa, è il resoconto intimo di qualsiasi abitante adulto di questo mondo, poiché ormai non vi è contesto dove non regna la discordia, l’odio, l’ingiustizia, il peccato ecc… Ebbene, possiamo affermare che la nostra autrice, con lucida disinvoltura, a nome d’ognuno, denuncia un vivere sociale poco consono alle regole morali, specialmente in questi ultimi tempi in cui la decadenza dei sentimenti, sembra aver accentuato il baratro tra le generazioni, quindi non si porge più la mano per suggellare un’amicizia, non si gettano ponti di solidarietà tra i popoli, e quei pochi che esistono sono costantemente minati da imperante apatia ed egoismo.

La coesione sociale è divenuta solo parole al vento di chi deve rabbonire gli animi. In verità, non c’è più interesse alla vita comunitaria, aggiungo io in parte minacciata da queste nuove tecnologie amorfe, di apparecchiature elettroniche che innalzano barriere tra gli individui, precludendo i contatti umani, fatti di calore, occhiate dalle mille interpretazioni e sorrisi che sembrano aprire orizzonti infiniti nei quali si specchia l’incommensurabile onniscienza di Dio e la bellezza del creato. Cose che, se osservate con occhi attenti fanno rinvigorire i legami con il resto del mondo e far nascere tante opere buone per un sereno trascorrere dell’eternità, un’esistenza migliore e la salute dell’anima.

Il fruitore che si appresterà ad assaporare la piacevole lettura di questo volume, se qualche volta ha sperimentato la malinconia, avrà la sensazione che si parla di se stesso, quindi ripasserà più d’una volta i versi per meglio farne una migliore introspezione personale e stimare il contenuto, teso ad arricchire chiunque lo fa proprio.

Andrea Runco

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