m.v.
Prefazione
Il mio paese, che si estende dal torrente Ruffa fino ai margini di Tropea, attraversando molti territori, confina con un altro piccolo torrente chiamato Melenik. Santa Domenica era un paese prettamente rurale ai margini di una collinetta, che si estendeva fino ad affacciarsi sul bellissimo mare, azzurro e limpido, con una piccola barriera corallina la quale faceva trasparire, dalle poche profondità, una moltitudine di colori che incantavano chi aveva la possibilità di affacciarsi ed ammirare quel dono dove la natura aveva creato un così affascinante e suggestivo paesaggio.
Infinite spiagge, scintillanti al sole, facevano da cornice alle bellezze delle rupi circostanti, confinanti con la sabbia sottile e bianca come la neve. Altro non era che un piccolo angolo di paradiso, che Dio aveva concesso a tutti gli abitanti, dono tangibile del suo immenso amore a loro riservato.
Ma, purtroppo, ciò bastava solo a godere di quella meraviglia. Il resto era un posto dove la mancanza dell’acqua piovana non permetteva alla terra la fertilità sufficiente per consentire agli abitanti di vivere una vita dignitosa. Per cui molti erano costretti a vivere di stenti, lavorando nei campi, stanchi ed avviliti, per la scarsità dei loro raccolti. Le persone anziane ed i disabili trovavano sollievo esponendosi al sole nelle giornate invernali quando il cielo, sgombro di nubi, faceva apparire il bel sole caldo e luminoso.
Il posto dove si riunivano era sempre lo stesso. Un piccolo angolo dove una scala, a ridosso di una casa, impediva al venticello freddo, poveniente da nord, di arrivare e lasciando l’angolo a trattenere il calore che, imprigionato fra tre muri, faceva godere di quel piacevole tepore apprezzatissimo da quegli anziani che altrimenti erano costretti a rimanere in casa a soffrire il freddo.
Proprio accanto vi era una bettola dove la sera si riunivano gli uomini alla fine di una giornata di lavoro. Lì si passava qualche ora in compagnia e si beveva un bicchiere di vino per dimenticare i problemi, che non mancavano mai. Gli anziani, quando andavano a godersi il sole, approfittavano della gentilezza dell’oste, prendevano qualche sedia e le addossavano al muro per non farle cadere, tanto erano mal ridotte. Era proibito a un qualche ragazzino di avvicinarsi e veniva mandato via.
Facevano ciò per evitare che potesse essere reso pubblico quanto veniva da loro raccontato. Il solo ad avere il privilegio di avvicinarsi ero proprio io, perché ero acciaccato come tanti di loro, poiché avevo un serio problema alla gamba sinistra che mi faceva vistosamente zoppicare e anche per il fatto che, a volte, mi mandavano al vicino negozio di sale e tabacchi per comprare loro fiammiferi e qualche pacchetto di tabacco.
Cosa che io facevo con molto piacere. Fu proprio in quelle occasioni che ho avuto la fortuna di conoscere le storie che ho memorizzato, e che oggi scrivo, come le sentivo raccontare da quegli individui nati nel secolo passato: l’ottocento. Raccontavano di tutto e di più.
Quegli episodi mi hanno commosso allora e continuano a commuovermi tutte le volte che, ancora oggi, a distanza di molti anni, mi passano per la testa. Erano storie vere, storie di paese, di un paese sofferto e travagliato dove i personaggi, gente sfortunata, erano gli unici protagonisti di sofferenze, di lutti e di cattiverie subite. La storia di Pasquale commuove quanti hanno un cuore. Rimasto orfano si fece carico di una vendetta sbagliata che lo afflisse e lo tormentò. Nel racconto si intrecciano altri episodi di amore e di violenza che inducono il lettore ad una riflessione su come questo territorio era, un tempo, crudele, ma pervaso da tanta umanità che oggi, nonostante i progressi, abbiamo messo da parte, perché si pensa solo all’egoismo, alle cose futili e alle banalità che la modernità ci offre.
Michele Furchì
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