Si tratta di un extract del suo libro, volume in parte autobiografico, scritto nel 2015, intitolato: “Il filo d’oro delle generazioni”, da me pubblicato col marchio Thoth edizioni, il cui ricavato della vendita è stato allora devoluto all’UNICEF (Vai al post)
Gli alunni della classe 1980, ai quali va il ringraziamento e la gratitudine mia e di tutti i miei familiari, hanno voluto ricordarla, il giorno del suo funerale, con un manifesto in cui hanno scritto una frase assai eloquente: “L’umanità come insegnamento”.
Leggendo le parole di Sarina, oggi preziosa eredità da trasmettere alle future genrazioni, capirete bene il significato di quello spontaneo e cordiale omaggio.
MarioVallone
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Maria Rosaria Rombolà (la sottoscritta), nata a Drapia (fraz. Brattirò) il 25 gennaio 1947, figlia dell’insegnante Francesco Rombolà e di Pasqualina Rombolà (nipote della maestra Maria Teresa Tambuscio perché figlia della sorella Serafina rappresento, in questo excursus, la III generazione di insegnanti della famiglia.
Quando sono nata, la mia prozia (la maestra Tambuscio) decise finalmente, dopo quarantasette anni di servizio nella scuola, di andare in pensione per dare il suo contributo in famiglia alla mia nascita. E così fu.
Per cui, io, fin dalla più tenera età, ho respirato “aria di scuola e di insegnamento”. A pensare col senno di poi, posso ora affermare che il mio destino lavorativo era già segnato fin da allora. Da grande avrei fatto sicuramente l’insegnante.
A quei tempi (1954 e oltre), nel paesino di Brattirò c’era solo la scuola elementare statale e così, dopo averla frequentata, avendo come maestra Carmelina Gaetani, siciliana (anche lei grande educatrice e madre), mi sono iscritta alla scuola media statale “Toraldo” di Tropea (anno 1958). Per accedervi, allora c’era il numero chiuso; la selezione avveniva mediante un esame di ammissione molto selettivo (un tema, un problema di matematica e gli orali nelle varie discipline di base). Coloro che lo superavano potevano iscriversi alla scuola media statale. Insieme ad altre ragazze e ragazzi del mio paese, ho frequentato i corsi e ho conseguito la licenza media, e così ho potuto iscrivermi al liceo classico “Pasquale Galluppi”, sempre a Tropea. Allora non c’erano, nella cittadina, altri istituti scolastici. Questi, di vario indirizzo, c’erano solo a Vibo Valentia.
Per farci frequentare il liceo, i genitori noleggiarono, per tutto il tempo, come per gli anni della scuola media, un pulmino – taxi che ogni giorno, prima alle 7.30 e, dopo, alle 14.00, ci portava da casa a scuola e dalla scuola a casa.
Così per il liceo. Io, però, non ho completato tutto il percorso di studi liceali perché, per gravi motivi di famiglia (la nascita, nel 1964, di mia sorella Francesca Rita e la conseguente malattia di mia madre) ho deciso, su consiglio di mio padre, di ritirarmi dal liceo nel mese di marzo e di presentarmi, da candidata esterna, all’istituto magistrale “Capialbi” di Vibo Valentia per conseguire il diploma magistrale che, infatti, ho conseguito nel luglio 1964 all’età di diciassette anni. La mia prozia Maria Teresa, ormai anziana e gravemente ammalata, accolse con gioia il mio diploma e mi abbracciò con affetto augurandomi di svolgere, con il suo stesso impegno, l’eventuale lavoro nella scuola.
Ma io volevo continuare gli studi, e così ho approfittato del bando di concorso bandito dalla facoltà di Magistero dell’università di Messina per iscrivermi a quella università.
Ho sostenuto, il 15 ottobre 1964, la prova di cultura generale prevista e l’ho superata con facilità. Mi sono, così, iscritta alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere, come prevedeva il punteggio ottenuto nelle prove di accesso. Ho frequentato il biennio di tale facoltà ma poi, sempre per motivi famigliari, ho cambiato indirizzo di studi scegliendo il corso di Lettere Moderne.
Mi sono laureata a ventidue anni il 27 giugno 1969 con una tesi sperimentale di antropologia sull’emigrazione, relatore il professore Luigi Lombardi Satriani, antropologo e studioso di tradizioni popolari.
Durante tutto questo periodo di studi universitari, però, non ho abbandonato l’idea di sfruttare anche il diploma magistrale e ho così partecipato a due concorsi (nel 1965 e nel 1967) per ottenere una cattedra nella scuola primaria (a quei tempi c’era il maestro unico e i concorsi venivano banditi ogni due anni).
Ho, pertanto, insegnato da supplente nella scuola primaria per quattro anni (studiando, contemporaneamente, all’università). Una volta laureata, ho intrapreso un nuovo percorso lavorativo per ottenere una cattedra in tale ordine di scuola. Sono passata in ruolo nella Scuola Media Statale nell’anno scolastico 1973 – 1974. Nella scuola ho lavorato dal 1965 fino al 1997, quando sono andata in pensione all’età di cinquant’anni.
Ho deciso di fare questa scelta, ancora molto giovane, sempre per motivi di famiglia. La famiglia, infatti, che mi sono formata sposandomi il 4 ottobre 1973 con Pasquale Vallone, giovane medico del mio paese, è stata allietata dalla nascita di ben quattro figli (Cosmo 1974, Francesco 1976, Giuseppe 1978, Mario 1981), per cui ho sempre desiderato di avere più tempo libero per dedicarmi a loro e alle incombenze famigliari.
Durante il periodo di lavoro nelle varie scuole della provincia (dal 1965 al 1982 in sedi lontane dalla mia residenza e spesso disagiate e, dal 1983 al 1997, nel mio luogo di residenza), dei miei figli si occupava la mia cara mamma Pasqualina, che li accudiva con amore e dedizione ammirevoli. Senza di lei, certamente, non avrei potuto esercitare la mia professione per come avrei voluto e avrei dovuto licenziarmi già nel lontano 1974 (alla nascita di mio figlio Cosmo) e appena ottenuta la nomina in ruolo dopo aver fatto tanti sacrifici, ancora giovanissima, per entrare nel mondo dell’insegnamento e della scuola, che avevo avuto sempre nel cuore.
Il percorso lavorativo
L’inizio di ogni lavoro contiene sempre delle incognite, ma di certo le più delicate e importanti che ho incontrato, nel corso della mia carriera scolastica, sono state quelle derivate dal contatto che mette a confronto e si svolge con il “materiale umano”. Ciascuno di noi, quando termina gli studi e cerca un’occupazione, pensa di sapere tutto del compito, del lavoro o della missione che lo aspetta e di riuscire a superare, con entusiasmo, ogni difficoltà presente e futura. Però, il vero “banco di prova”, specialmente nel campo dell’insegnamento, si presenta quando entri, per la prima volta, in una classe sia di piccolissimi (infanzia e primaria) sia nelle medie e nelle medie superiori. Il primo confronto positivo con gli alunni è già un primo passo importante per il percorso scolastico da fare insieme. Ogni insegnante che si rispetti di certo avrà avuto questo pensiero un po’ assillante nella propria mente: “Come farò ad iniziare? Come mi organizzerò?”
E, mentre gli allievi ti scrutano critici e diffidenti per valutarti, un po’ di paura di assale indubbiamente. Ma, in fondo, si inizia sempre con coraggio e con tanta pazienza, dedizione e amore. Dalle esperienze che mi hanno trasmesso i miei cari (la maestra Tambuscio e “u maistru Ciccu”) e poi dalle esperienze personali che ho fatto “in loco”, mi permetto di esprimere alcune semplici considerazioni sul compito, lavoro o missione dell’insegnante.
La prima dote che si deve avere, entrando in una scuola, (sia da insegnante e anche da dirigente) credo sia l’umiltà, oggi tanto trascurata come valore assoluto.
Umiltà nei rapporti con gli allievi e tra colleghi, convinta come sono che, ognuno di noi, può imparare dall’altro qualcosa, sempre, ben inteso, se si relaziona con lui umilmente.
Socrate diceva: “So di non sapere” sicuramente per invitare chiunque all’umiltà.
L’altra dote è lo spirito di collaborazione fra tutte le componenti umane che operano nell’ambito della scuola.
L’insegnante (e anche il dirigente) deve rispettare e ascoltare tutti, a cominciare dai bidelli, primo anello della catena, molto importante nel contesto scolastico. Infatti, è lui (o lei) che accoglie i ragazzi in classe prima dell’arrivo dell’insegnante, che li controlla nell’intervallo delle lezioni, all’uscita e all’entrata e quando sono fuori dalla classe per vari motivi.
Mi piace ricordare, in queste pagine, la loro figura pensando a tanti bidelli che hanno accompagnato il mio itinerario nelle classi. In loro, in ogni sede e scuola dove ho insegnato, ho trovato sempre cari amici, amiche e collaboratori disponibili e competenti, che mi hanno aiutata in ogni circostanza, anche nei rapporti con gli allievi, specialmente con quelli più vivaci e svantaggiati in vari modi.
Ricordo, con affetto, gli ultimi bidelli con i quali ho avuto un bel rapporto di stima, rispetto e amicizia: Michele Petrolo e Raffaele Artesi, purtroppo entrambi defunti da anni e ancora giovani.
Molte e gravi difficoltà si hanno, in un contesto scolastico, quando è del tutto assente ogni spirito di collaborazione.
La scuola, a mio modesto parere, dovrebbe essere una grande famiglia nella quale, come in un’orchestra, ogni strumento emette il suo suono e, tutti insieme, formano la melodia sotto la guida del maestro che dirige dal podio.
E ora vediamo come ci si deve o dovrebbe rapportare con i ragazzi. I più importanti del contesto sono loro, non solo per gli insegnanti ma per la società intera.
Vorrei, adesso, ricordare, a tal proposito, alcune esperienze e aneddoti più significativi che mi sono capitati, che hanno inciso sullo svolgimento del mio compito di insegnante e che penso possano essere di aiuto ai giovani insegnanti che iniziano, or ora, la loro carriera.
La prima volta che sono entrata in una classe (era una terza elementare a Gasponi, fraz. di Drapia) per una supplenza di trenta giorni, mi sono trovata in un contesto difficile perché alcuni allievi erano ripetenti e molto vivaci e non accettavano la mia presenza, essendo abituati a seguire la loro insegnante titolare e con un diverso iter didattico. Ma io, con umiltà, ho capito che avevo bisogno di un aiuto più esperto, per cui mi sono rivolta all’insegnante vicina di aula, che conosceva bene e l’ambiente e i bambini, e, col suo aiuto, sono riuscita a “conquistare” la fiducia degli allievi in modo così totale tanto che, quando ho terminato la supplenza, essi volevano che rimanessi ad insegnare nella loro classe per tutto l’anno scolastico.
La medesima esperienza si è ripetuta quando ho iniziato l’insegnamento alla scuola media. A Zungri, da supplente, gli allievi mi hanno dato molte soddisfazioni, in modo particolare i più svogliati, ribelli e i meno adattati.
Quando ci siamo salutati, mi hanno fatto tanti regalini (fiori raccolti nei campi, dolci tradizionali fatti in casa ecc. ecc.) e, i più emotivi e sensibili, hanno anche pianto. Una delegazione di quelli più esperti e pronti ha presentato una petizione al preside affinché rimanessi per un altro anno scolastico.
I miei cari (la maestra Tambuscio e “u maistru Ciccu”) mi hanno sempre raccomandato di trattare i ragazzi con dolcezza e amore, oltre che con umiltà; e che un buon insegnante è colui il quale, alla fine dell’anno scolastico, raggiunge gli obiettivi prefissati con tutti gli allievi ad esclusione di nessuno, in special modo con quelli più svogliati e particolarmente svantaggiati.
Entrambi erano soliti dire: “Il bambino o il ragazzo studioso, attento e calmo che proviene da un ambiente sociale e famigliare positivo cammina da sé se gli indichi la strada giusta. L’altro, invece, deve essere accudito come un passerotto fuori dal nido, con enorme pazienza e spirito di abnegazione e senza scoraggiarsi mai. Infatti, è lui che ti fa felice e ti ripaga dei sacrifici fatti, perché l’insegnamento è una missione non un lavoro svolto solo per il 27 del mese (eufemismo per indicare il giorno di riscossione dello stipendio avvenuto sempre tale giorno). Se lo svolgi senza passione fai più danni di un alluvione o di un uragano”.
Io mi sono sempre prodigata a mettere in pratica, per come e per quanto potevo, queste loro parole, che ascoltavo ogni giorno in casa; e posso dire che ho ottenuto anch’io, nel mio piccolo, risultati veramente soddisfacenti e per questo da ricordare.
Durante un anno scolastico particolare, ho insegnato in una classe in cui due allievi manifestavano vari handicap cognitivi e relazionali, sia verso i compagni che verso l’intero contesto scolastico. Avrebbero avuto bisogno dell’insegnante di sostegno. Ma, allora, non si parlava nemmeno di questo aiuto o funzione dell’insegnante. Nei piccoli paesi, i genitori non accettavano che i loro ragazzi venissero ritenuti “diversi” nel contesto della classe.
Ebbene, con questi allievi ho sperimentato proprio quanto sopra accennato, per cui ho cercato di potenziare le loro qualità che ritenevo migliori (ad esempio: riuscivano a fare solo il “copiato” dal libro o dalla lavagna e a recitare, a memoria, le poesie). Potenziando queste qualità, essi si sono, a poco a poco, inseriti nella classe: non hanno manifestato più segni di vivacità eccessiva e di disadattamento, e amavano frequentare e seguire le lezioni con volontà e interesse costanti al pari degli altri ragazzi.
Hanno conseguito il diploma di terza media in modo del tutto normale e, in seguito, anche nella società e nei rapporti con i compagni e l’intera comunità, si sono sempre relazionati molto bene.
Ho avuto spesso dei problemi riguardo la gestione delle relazioni tra compagni di classe. Nelle varie classi c’erano, di frequente, alcuni allievi che volevano primeggiare, creando, così, conflittualità e un clima di tensione piuttosto fastidioso tra compagni. Io ho sempre cercato di essere “mediatrice” tra i ragazzi, sforzandomi di capire i loro problemi adolescenziali e famigliari, in modo che, in me, trovassero o vedessero, oltre che l’insegnante, soprattutto una madre piena di affetto e valorizzatrice delle loro potenzialità migliori. Sempre a mio modesto parere, nell’insegnante i ragazzi dovrebbero trovare un amico o un’amica che li accoglie e li tratta con dolcezza, e anche se, spesso, ciò comporta che si instauri, nella classe, un clima di un certo, diciamo, “disordine” e di sana allegria i risultati ottenuti, alla fine, premieranno l’insegnante perché avrà ottenuto la fiducia e la confidenza dei ragazzi, specialmente di quei soggetti con un carattere difficile e con problemi di adattamento alla vita scolastica.
A tal proposito, posso testimoniare che tanti miei allievi, fra i più svogliati e disadattati, ma con una intelligenza pronta e potenzialmente creativa hanno ottenuto, nel prosieguo degli studi e anche nella vita, risultati migliori di altri che, più attenti e più tranquilli nella realtà scolastica, dopo si sono quasi come un po’ “persi per strada”. Dare fiducia ai ragazzi credo sia davvero molto importante poiché essi, in un modo o nell’altro, la ripagheranno sempre.
Riguardo a ciò, ricordo un episodio molto bello riferito ai rapporti con i miei allievi. Mi piaceva molto, per quanto possibile, condurre i ragazzi fuori dalla classe per alcune esperienze didattiche (come hanno fatto la maestra Tambuscio e “u maistru Ciccu” mio padre), così ho portato una classe mista (22 allievi) nel vicino paesino di Caria (a due kilometri circa da Brattirò) a piedi, lungo un viottolo di campagna, a visitare un frantoio in piena attività. E’ stata davvero un’esperienza bellissima. Tutti gli allievi hanno mostrato interesse alla cosa, del tutto nuova, e non mi hanno dato alcun problema.
Alla fine della visita, siamo andati nel piccolo bar del paese per gustare un buon gelato offerto dall’insegnante. Altre volte, nelle ore pomeridiane (c’era il tempo pieno), portavo i ragazzi addirittura a casa mia (vicinissima all’istituto scolastico) a visionare un film in tv (nell’istituto scolastico non era ancora disponibile l’apparecchio televisivo). Abbiamo visionato il film “Cleopatra” e “Il ritratto di Dorian Gray” insieme a diversi documentari storici, geografici e antropologici. Ritornati in classe, commentavamo, sempre insieme, la trama del film e le problematiche proposte dai vari filmati documentaristici. Tanti miei ex allievi ricordano ancora, con vivo entusiasmo, queste esperienze. Potrei ricordare tanto e tanto altro sulla mia esperienza di insegnante, ma mi dilungherei troppo e non sarebbe piacevole per il lettore.
Una sola cosa desidero ancora raccontare esprimendo la grande soddisfazione che ho provato dal mio compito di insegnante e per come l’ho sempre programmato ispirandomi ai principi e alle esperienze dei miei due cari.
Tempo fa (ero già in pensione da alcuni anni) mi trovavo in un negozio di abbigliamento, a Vibo Valentia, con la mia famiglia quando, ad un tratto, ho sentito bello chiaro e squillante: “Professoressa Rombolà!”. Mi sono voltata stupita poiché non conoscevo chi aveva pronunciato, quasi con gioia, il mio nome. Ma egli, un giovane piuttosto distinto e gentile, mi rispose di rimando: “Non mi riconoscete? Sono N. N. di Zungri. Sono stato vostro alunno in prima e in seconda media. Cara professoressa Rombolà, non vi ho mai dimenticata per l’affetto che mi avete dato e soprattutto perché mi avete fatto amare la scuola e le vostre materie d’insegnamento, specialmente la Storia e la geografia. E così ho continuato a studiare, mi sono diplomato e ho partecipato a un concorso delle FS diventando ferroviere macchinista di treno. A causa del mio lavoro, vado in giro per l’Italia e ho una bella famiglia”.
Poi, rivolgendosi a una giovane donna (sua moglie) e ai due ragazzi che li accompagnavano (i suoi figli) ha detto testualmente: “Salutate la signora qui presente che è stata mia insegnante e mi ha insegnato tante cose belle e grandiose che mi hanno cambiato la vita!”.
Credo che questo sia il miglior “regalo” che tutti gli insegnanti vorrebbero ricevere alla fine della loro carriera scolastica. Un bravo insegnante trasforma la scuola. Ma soprattutto il cuore, la mente e il futuro dei suoi allievi. Poiché, come diceva il grande santo ed educatore dei giovani Annibale Maria di Francia: “L’educazione dei fanciulli e dei giovani è l’arte più difficile, e i buoni educatori sono lo specchio su cui si modellano i bambini e i giovani”.
Oggi si parla molto di valutazione degli insegnanti, ma ci si dimentica spesso che, una volta, essa era prevista e condizionava, in positivo o in negativo, la carriera scolastica degli insegnanti e i loro rapporti con gli allievi.
Ai tempi della maestra Tambuscio e di Francesco Rombolà, nelle scuole, ogni anno scolastico, si presentava in classe un ispettore inviato dal Ministero della Pubblica Istruzione per controllare il lavoro svolto dai dipendenti e relazionare sulle diverse e molteplici necessità degli istituti.
Questo funzionario era obbligato a formulare la cosiddetta “Qualifica” agli insegnanti, Qualifica che andava dalla valutazione di “sufficiente – buono – distinto – ottimo” a cui corrispondevano dopo, nella carriera dell’insegnante di ruolo, scatti economici più celeri nello stipendio e, per gli insegnanti supplenti, l’avere un punteggio più o meno alto nelle graduatorie provinciali e di istituto.Ai primi del Novecento, oltre al giudizio sintetico, l’ispettore stilava un profilo più o meno positivo dell’insegnante. Ricordo che io ho avuto un “distinto” e un “ottimo” solo perché mi ero assentata un giorno in più per motivi di famiglia. L’anno scolastico 1969 – 1970 il preside si dimenticò di ricopiare, sul suo prospetto, la Qualifica attribuitami e ho perso, così, un anno di punteggio perché sul certificato di servizio, rilasciato dalla segreteria della scuola, la Qualifica non risultava. In seguito, la Qualifica dell’ispettore è stata sostituita, per la valutazione, da quella del Direttore Didattico (per la scuola elementare) e dal preside (per la scuola media). Gli insegnanti, a quei tempi, avendo il timore di tutte queste conseguenze, oltre a quello della “brutta figura”, nel contesto scolastico cercavano di curare, al meglio delle loro capacità, insieme alla “sostanza” anche la “forma” nella classe (registri ben compilati e ordinati, ordine nelle suppellettili dell’istituto ecc. ecc.). Dal 1975, questa forma di valutazione è stata abolita. Non mi sento di esprimere alcun giudizio o opinione in proposito visto che, da quell’anno in poi, a ritmo vertiginoso e spesso in contrasto fra di loro, molte leggi e leggine hanno mutato il volto e il percorso educativo delle scuole di ogni ordine e grado.
Maria Rosaria Rombolà
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