Pubblichiamo l’ennesimo extract del libro “Gli anni dei sogni brevi” di Franco Pagnotta pubblicato dalla Thoth Edizioni di Capo Vaticano.
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I vicoli silenziosi e quieti dal selciato in pietra granitica, resa lucida e sconnessa da mille passi di scarpe chiodate, ogni tanto si animavano di lacrime e grida strazianti, di scene che sembravano di lutto, di perdita irreparabile. Partivano, ogni tanto, fratelli, padri, sorelle qualche volta famiglie intere verso una terra lontana che da sempre riempiva i sogni di grandi e bambini: un paese sconosciuto che neanche si sapeva dov’era e che si chiamava America.
Erano sogni, quelli di tanti uomini dalla faccia bruna, di riscatto, di rivincita su un padrone che ti contava anche i fichi delle piante e se ne mangiavi uno stavi col cuore in tumulto finché lui non ripassava. Sogni amari, che ti spaccavano il cuore, legato com’eri alle cose, alle persone e alle case del tuo paese, anche alla povertà, eppure teso verso una vita più vera, libera dalla sofferenza che ti tagliava l’anima nel dovere spiegare ai figli perché la carne si mangiava solo nei giorni di festa o perché passavi di fretta davanti alle bancarelle colorate nel giorno di festa.
Quando qualcuno doveva partire si sapeva già qualche mese prima. In paese si diceva che aveva ricevuto la chiamata da un parente. Se ne parlava a scuola e per le strade, in campagna e a casa, la sera, quando si cenava. Io non capivo cosa fosse la chiamata. Me l’immaginavo come qualcosa di brutto a cui bisognava ubbidire e basta. Questa mia idea veniva rafforzata, poi, dal momento della partenza, ma anche dai giorni che la precedevano, con quel rito fatto di bauli di colore verde e dagli angoli robusti riempiti di pane e di vestiti, compreso quello nuovo da indossare prima dello sbarco: un cerimoniale fatto, soprattutto, di silenzi, di lacrime trattenute, di rumore di carta, di parole dette piano e di madri avvolte in scialli neri.
I figli dell’emigrazione definitiva partivano sempre di sera, col buio. Sulla porta di chi lasciava il paese era un viavai già dal pomeriggio, donne che portavano una lettera da consegnare a figli e mariti e che poi si sedevano a consolare chi restava, solo con la presenza e con gli occhi cupi, amici che sostavano fuori, appoggiati al muro a commentare, chi con invidia, chi con un senso di vuoto, il triste evento. Le ore, che in campagna erano lente, quel giorno volavano veloci. Quando arrivava la millecento bianca e rossa, l’unica automobile che in paese faceva da tassì, per portare alla stazione il futuro espatriato, cominciava l’addio, perché di un vero addio si trattava: non c’era nessuno, allora, che tornava dall’America. Chi partiva veniva pianto come un defunto: la sua vita, per i familiari che restavano, finiva quella sera.
Era il momento dello strazio. Abbracci stretti che quasi soffocavano, donne che si strappavano i capelli e la faccia fino a farla sanguinare, che tiravano per la giacca figli o mariti sapendo di lottare contro un destino invincibile; uomini che per la prima volta vidi piangere, bambini che, dopo essere stati riempiti di baci e di lacrime, venivano allontanati quasi di peso per risparmiargli una scena troppo dura per la loro età. Poi, il rumore del bagagliaio che si chiudeva e del motore della macchina segnavano la fine di un film che si ripeteva a cadenza regolare, anche se con attori diversi. Di tanti che partirono, qualcuno, dopo qualche tempo, chiamò il resto della famiglia; altri, pochi, tornarono per una breve vacanza al paese. Di molti non si seppe nulla. Come del mio compagno di scuola, che partì un giorno che non ricordo, senza avvertirmi; tolto via dai prati e dai nidi che andava a scovare sugli alberi e sotto le tegole della chiesa; strappato all’improvviso al grembiule nero e all’odore di fieno e di terra dissodata; ai piccoli amici con i quali non condivise più la gioia di anni poveri e disincantati.
Franco Pagnotta
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