Di seguito un brano del libro GLI ANNI DEI SOGNI BREVI, scritto da Franco Pagnotta pubblicato dalla Thoth di Capo Vaticano.
La magia di un gettone
La cartolina precetto arrivò a dicembre: dopo sei mesi che mi ero laureato.
L’avevo attesa tanto, non perché ci tenessi a fare il soldato, ma perché prima lo avrei fatto e prima avrei potuto incominciare a fare il professore di italiano.
Quando mi venne consegnata dal messo comunale per me fu come se si fosse aperta la strada della mia vita. Avrei camminato da solo, che tradotto significava non pesare più sulle spalle dei miei genitori, anche perché mi ero informato e sapevo che ai militari sarebbe spettata la decade: la paga che veniva data ogni dieci giorni. A gennaio partii. Sul binario della stazione feci la conoscenza di un altro ragazzo, più piccolo di me, di cui non ricordo il nome. Anche lui era stato destinato a Sulmona per il Car. In quella caserma del paese dei confetti conobbi altri commilitoni della mia età, con la laurea in tasca. Formammo un gruppo unito. Assieme, dopo un mese, fummo trasferiti a Sora, un piccolo paese della Ciociaria. Il ragazzo che avevo conosciuto sui binari della stazione non lo rividi più.
La caserma lì era grande e abbastanza nuova. Noi soldati laureati eravamo come gli altri: nessun privilegio se non quella piccola forma di rispetto che ricevevamo per via dell’età dai nostri compagni. Anzi, quello spilungone di Giovanni, il filosofo del gruppo, provava quasi piacere a mischiarsi agli altri nei compiti più umili, come lavare le pentole o sottoporsi a turni massacranti di guardia. Si definiva proletario e aveva la battuta sempre pronta. Per questo riusciva simpatico a tutti. L’amore e la nostalgia accompagnavano quel tempo che eravamo convinti di donare alla patria.
Poesie scritte nelle tre ore di guardia, in quel bugigattolo dove sentivi solo il tuo respiro e l’odore della mimetica, un misto di cucina e di polvere pirica. Il pensiero fisso, tra i commilitoni, era uno solo: la fanciulla che ci aspettava e che ci scriveva lunghissime e tenerissime lettere d’amore, fogli su cui molte volte lasciava con le labbra l’impronta di rossetto; un modo per fare sentire la concretezza di parole come “ti aspetto, non ci lasceremo mai”.
E noi ricambiavamo da lontano, con estemporanee dichiarazioni d’amore buttate al vento di una collina nella pausa di una simulazione d’attacco al nemico, come quella del mio compagno sardo che mi insegnò ad innamorarmi di “Non poto reposar”, struggente e intramontabile nenia d’amore. Tra gli altri miei amici in grigioverde c’era Giacomo. Veniva da Reggio Calabria e si era appena laureato in Chimica. Era piuttosto basso di statura, taciturno e preciso.
Teneva nell’armadietto della camerata un sacchettino di stoffa dove conservava i gettoni telefonici. Quando la sera si usciva in città, puntava diritto al bar del centro, dove vi erano due o tre cabine telefoniche e aspettava nervosamente. Appena una di esse si liberava, vi entrava come in una esercitazione di assalto al nemico e chiudeva la porta. La conversazione, ovviamente del tutto privata e dal tono quasi silenzioso, durava molti minuti, durante i quali con una mano teneva la cornetta e con l’altra riforniva di gettoni l’apparecchio. Fuori altri soldati aspettavano, ma lui non si girava per non beccarsi addosso i loro sguardi di impazienza e di rabbia. Quando finalmente ne usciva, aveva la faccia tutta rossa, ma alquanto rasserenata, di un uomo finalmente appagato. Riponeva nel sacchettino i gettoni rimastigli e si riaccompagnava a noi, anche se con la mente assente.
Questa immagine me la porto sempre dentro, assieme ai pomeriggi passati, tra un turno di guardia e l’altro, alla polveriera di Isola Liri, al bar del laghetto. C’era un jukebox, che con noi riprendeva a vivere. Anche lì era un gettone a farci sentire vicini al nostro amore. Bastava inserirlo nell’apposita fessura, digitare il codice della canzone e il braccio prendeva il disco e lo posava sul piatto, levando al cielo di luglio canzoni che ognuno sentiva sue. E mentre i Santo California cantavano “un angelo venuto qui, all’improvviso tu, le mani tue leggere, io non resisto più”, il nostro pensiero volava lontano, portandoci accanto a lei che, in quel momento, forse neanche ci pensava.
Franco Pagnotta