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“La guerra addosso” di Franco Pagnotta

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PUBBLICHIAMO DI SEGUITO UNA DELLE PAGINE PIU’ BELLE E SIGNIFICATIVE DEL LIBRO “GLI ANNI DEI SOGNI BREVI” DI FRANCO PAGNOTTA PUBBLICATO A DICEMBRE DALLA THOTH EDIZIONI DI CAPO VATICANO.

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La guerra addosso

Non ho conosciuto la guerra. Ma ne ho sentito l’odore acre e caldo che avvolgeva, di notte, i miei sogni di fanciullo. Ne ho sentite le voci e i lamenti, le bombe e i passi pesanti di giovani contadini che invece di sacchi di grano e olive si caricavano addosso fucili, zaini e nostalgia, disperazione e lettere d’amore mai scritte. Tutto questo era nel cappotto verde di mio padre che mia madre stendeva, nelle notti di inverno, sulle altre coperte del letto per timore che sentissi freddo. Sono cresciuto con quel cappotto sul letto senza conoscere, nei primi anni, la sua origine. Pensavo che il mondo andasse così, che tutti i bambini avessero, sul letto, un cappotto verde pesante e caldo, con la punta del bavero che a volte ti arrivava fino alle labbra, solleticandole con un leggero fastidio. E forse era vero. Quasi tutti, in paese, avevano sul letto quella coperta un po’ speciale.

Franco Pagnotta

Quando fui più grande, dai racconti di mio padre e dalle parole di mia madre, capii da dove era arrivato quell’indumento con il quale il mio eroe era tornato a casa dopo otto lunghi anni di lontananza, di rombi di morte e di sibili che ti sfioravano gli orecchi. E me lo portavo al naso, quel lembo di cappotto che mi arrivava in faccia, per sentirne l’odore, immaginando lui, mio padre, con gli occhi spalancati di paura e di voglia di sopravvivere ad un destino più grande di lui e dei suoi progetti. Me lo immaginavo disteso per terra nel deserto africano: a mangiare sabbia e a puntare il nemico, e poi, di notte, accovacciato in una tenda a pensare alla donna che pregava per lui notte e giorno. Lo sognavo, mio padre, sudato e sporco, mentre scappava su un sentiero scosceso per ripararsi dalle bombe e poi rialzare gli occhi verso un cielo sempre nero e minaccioso. Lo pensavo nei campi di prigionia ad ubbidire agli ordini in una lingua che non aveva mai sentita e a nutrirsi di erbe, patate e uova rubate al pollaio dei padroni. Lo accarezzavo, quel cappotto un po’ consunto, e avrei voluto correre ad abbracciare il mio eroe che ora dormiva lontano, in un’altra città, portato via ancora una volta, rubato ai miei giochi e alla sua donna da un treno che non avevo mai visto. Partiva e ritornava, per poi ripartire, lasciandomi quel cappotto che la notte mi scaldava il corpo e la nostalgia per averlo lontano. Amavo l’inverno, la neve e il freddo. Amavo, quando andavo a dormire, il fruscio lieve di mia madre che mi stendeva addosso quel cappotto sotto il quale mi rannicchiavo e pensavo alla sua storia, a quella di mio padre, che quando tornò definitivamente da Milano non smise mai di parlare della guerra, della sua guerra, raccontandola, a noi figli ormai grandi, con l’orgoglio di soldato, nascondendoci le paure e il terrore per quella vita che per molto tempo fu appesa ad un filo. Non si liberò mai di quegli anni, che accompagnarono i suoi passi come un’ombra scura che gli arrovellava la mente. Non lo vidi mai indossare quel cappotto con cui era ritornato in paese una sera lontana di settembre, stremato e affamato, ma col sorriso nel cuore mentre bussava alla porta di mia madre, che lo strinse in un lungo abbraccio chiedendogli ripetutamente come stai. Cambiammo diverse case. Quel cappotto ce lo ritrovammo sempre con noi, prezioso cimelio e diario muto di un combattente valoroso che visse con nelle orecchie gli scoppi, le grida, i lamenti e l’agonia di un compagno che, sulla sabbia d’Africa, lasciò il giovane corpo e la speranza del ritorno. Dall’ultima casa pian piano ce ne andammo tutti, a costruire una famiglia tutta nostra. Anche mio padre, dopo di noi, se ne andò per sempre, chiudendo con la vita e con i racconti di guerra, seguito, dopo alcuni anni, da colei che ci scaldava il letto con quella coperta un po’ speciale. Tornai più volte nella vecchia casa, ma di quel cappotto verde nessuna traccia. Niente. Sparito nel nulla. E voltando le spalle alla porta dalla vernice scrostata mi sono immaginato lui che, in una notte d’inverno, è sceso dal cielo per riprenderselo. Tanto, avrà pensato, ormai non serve più.

 

Franco Pagnotta

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