“Più bello che mai, ti venne di fronte con gli occhi lucidi di pianto fermato sul ciglio delle ciglia. Con coraggio da guerriero lamentoso si diede a maledire il marrano destino e con mimica inequivocabile spacciò l’abbandonata seconda moglie come moribonda… Annuisti, come se non te ne importasse.
Lui calzò, in fretta, i sandali piani della vecchia armatura e come il vento andò, senza voltarsi, sguarnito di gualdrappa e di destriero. Sulla polvere delle solite strade, gli s’alzò dietro una nube che lo cancellò.
Chissà se dentro i suoi occhi di pura fuliggine e di vetro è rimasto un ultimo bagliore del tuo spento sorriso. Se di quella tua bocca colpita a morte, accartocciatasi all’istante come carta inzuppata nel crollo degli angoli sul mento, si sia stampata un’impronta lucida nel sottoscala del suo confuso e bianco petto.”
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“Le immagini emergevano da un fondo di vaghezza, prendevano forma, si componevano, variavano, si sgretolavano, si ricostituivano capricciosamente e poi sparivano. E in quel moto pareva che il confine tra il corporeo e l’incorporeo si dissolvesse e lei diventava tutt’uno con quelle immagini mobili. In quest’alternanza, il dolore perdeva a poco a poco d’intensità e frequenza: un temporale che s’accomiatava minacciando sempre più fiaccamente, finché lei avvertiva che il suo corpo, a cominciare dai piedi, non solo smarriva la propria definitezza, ma si mutava in massa gelatinosa in espansione e senza soluzioni di continuità col mezzo che, pure effusivo, lo avvolgeva e lo sosteneva denso e illimitato. Ma qualcosa sembrava condensarsi attorno a un punto più compatto, ma vivo e come sospeso in ascolto.
La gelatina partoriva qualcosa che assomigliava a una tensione immobile: l’ascolto non ingrato della dissoluzione. Essere nella morte: lontana, lontana. Lontana da tutto. Nessuna ansia, nessuna lotta, nessuna memoria. Essere solo una liquefazione.”
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