Percorso storico paesaggistico

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viboneseOggi, per chi ha voglia di leggere, parleremo del nostro paesaggio molto bello e variegato.

Il percorso ha inizio dalla spiaggia di Capo Vaticano, dove sfocia la fiumara della Ruffa e termina sull’altopiano del Poro: risalendone il corso si incontrano numerosi affluenti che si snodano tra profonde vallate e, man mano che si va a monte, acquistano diverse connotazioni. 

Alessandro Pelliccia incaricato il 30 luglio 1835 a descrivere le acque fluenti del circondario di Tropea così scrive: La fiumara del capo Vaticano, detta anche della Ruffa, ha il maggior volume di acqua di tutte le fiumare del territorio, e potrebbe essere la forza motrice di qualunque macchina idraulica per opificj. Le acque che la costituiscono nel suo intero volume sono le seguenti, cioè due ruscelli che scaturiscono dal luogo detto li pantani di Spilinga, siti sotto il Monteporo, lontani dal mare otto miglia circa. Il primo di questi ruscelli detto fiumara del Poro, e di Spilinga muove tre mulini nel tenimento dello stesso, e che si appartengono a’ signori Pontoriero, Galluppi, e Adelardi, e score dritto verso la fiumara grande. Il secondo di minor volume, non atto a muover mulino alcuno, volge verso l’oriente, e tocca l’antico paese d’Aramoni, dove vi è un ponte denominato il Passo murato. Più basso verso l’occidente viene accresciuta da un terzo ruscello che scaturisce dal luogo detto Grotta di Favo, e petti dell’acqua fredda, ed anima sei mulini di proprietà de’ signori, cioè due di D. Nicola, e D. Felice Toraldo, il terzo di D. Antonino Naso, il quarto di Michele Pugliese, il quinto di Domenico Giuri, il sesto di D. Giuseppe Cesareo, tutti siti nel territorio di Spilinga, ed in quello di Panaja.


Questi tre ruscelli si uniscono nel luogo detto Vernitica, e formano un solo volume di acqua, denominato fiumara del capo Vaticano, o della Ruffa, la quale fa macinare altri otto mulini, che si appartengono, uno a’ signori Caputo, due al signor D. Pietro Tranfo, un quarto a D. Francesco Adesi, il quinto al Duca di Rodi Caracciolo, il sesto al signor D. Nicola Toraldo di Giuseppe, il settimo agli eredi di D. Gaetano Granelli, l’ottavo a D. Domenico Tranfo; tutti siti nel territorio di Ricadi

È doveroso far notare che lungo questo percorso, oltre ad una rara e variopinta vegetazione di stile mediterraneo, vi crescono circa duemila esemplari di felci le cui fronde possono raggiungere la lunghezza di tre metri. Si tratta della Woodwardia Radicans, felce bulbifera la cui presenza sul nostro territorio viene calcolata intorno a 60 milioni di anni fa. Vista l’importanza della scoperta, la zona è stata dichiarata “Sito di interesse Comunitario” ( C. S. I. Fiumara di Brattirò-Valle Ruffa ) per cui se ne raccomanda il massimo rispetto per la salvaguardia di un così raro esemplare.

Dopo questa doverosa premessa iniziamo il nostro percorso.

In questi ultimi anni, nel tratto che va dalla spiaggia alla provinciale sono state create delle strutture turistiche e, essendo il letto del fiume coperto da fitti canneti, è consigliabile iniziare il percorso dall’incrocio della fiumara della Ruffa con la strada provinciale. Da subito le pareti delle due valli sprofondano e si restringono mettendo in risalto, all’imbocco, il primo dei ben diciannove mulini dislocati lungo il margine della fiumara della Ruffa e dei suoi affluenti, peccato che pochi sono rimasti ben conservati, molti sono ridotti a macerie, altri scomparsi. L’origine di alcuni di questi mulini si fa risalire ad un periodo tra il VII e il X secolo, allorquando i monaci bizantini con il loro seguito si insediarono su questa fascia del Poro: la tecnica di costruzione era stata da loro appresa dagli arabi che avevano invaso la Sicilia. Proseguendo, non molto distante ci si imbatte in una centrale idroelettrica, oggi dismessa, ma che nella prima metà del secolo XX diede a Tropea e ai suoi casali il piacere dell’illuminazione e la gioia per alcuni di pregustare e per altri di sognare l’arrivo del progresso con i suoi agi che, sebbene inizialmente piccoli, tale energia in un prossimo futuro avrebbe portato agli abitanti del luogo. Di fronte alla centrale, in cima alla ripida collina, si erge a picco il rudere di Torre Marrana, una delle tante torri di guardia sorte a difesa del territorio dalle scorribande di arabi, turchi, saraceni e quant’altri che, periodicamente, saccheggiavano, mettevano a ferro e fuoco i mal capitati villaggi, uccidevano gli uomini e portavano via donne e bambini. Oggi, anche se monumento abbandonato di un triste passato, è unico testimone di una storia quasi cancellata. 

Giunti alla fine del territorio del comune di Ricadi, la collina di Spilinga alta, frastagliata e appuntita come un cuneo apre a ”V“ il letto del fiume creando due profondi solchi attraversati dalle due fiumare che danno origine alla fiumara della Ruffa. Si prosegue prima a sinistra, lungo il corso che divide Spilinga da Brattirò e Caria, e che prende il nome di “fiumara di Brattirò”. Questo è il tratto più caratteristico e storicamente più noto, ove si alternano profondi e tenebrosi valloni a fitte boscaglie e a ripide e brulle colline, anticamente attraversate da una ragnatela di viottoli e mulattiere realizzati dai contadini per portare il frumento alle macine, e dai monaci per raggiungere i loro eremi. La vegetazione, la temperatura e l’umidità creano l’ambiente ideale per la conservazione e la sopravvivenza, oltre che della preistorica felce, di una miriade di piante. Il territorio ricco di anfratti e grotte sedi prima di mistico ascetismo, poi di sangue e scellerataggini, conserva ancora due gioielli del passato. La Grotta di Santuliu (San Leo) e la grotta delle Fate.

La grotta di Santuliu originariamente era larga 5 metri ed alta 3; l’accumulo di circa un metro di sabbia, oltre a ridurne le dimensioni, impedisce di rilevare il pavimento. Essa è l’unica grotta eremitica del Poro con degli affreschi che fortunatamente ancora oggi si possono ammirare. La parte superiore della grotta è piana e mostra evidenti tracce d’intonaco.

La parete di fondo è divisa verticalmente in cinque rettangoli affrescati, e si nota subito una diversa collocazione nel tempo: i primi quattro, partendo da sinistra, sono stati manipolati o, meglio, ridisegnati in epoca successiva (XV o XVI secolo), il quinto invece, ascrivibile all’ XI secolo, è il più interessante poiché se la datazione è esatta corrisponderebbe all’epoca in cui visse San Leo. Date le pessime condizioni, il rischio della completa scomparsa è reale, per cui sarebbe necessario e urgente il recupero almeno in parte di questo affresco, il cui studio darebbe molte risposte alle nostre domande.

Essa, e una buona parte della collina circostante, prendono il nome dall’eremita San Leo; tale tesi però, tramandata dalla tradizione e dal nome, non è supportata da alcun documento storico. 
Procedendo lungo il nostro percorso, man mano che si sale, la vegetazione diviene più fitta: boschi cedui, arbusti e cespugli di rovi, che spesso ostruiscono il passaggio, si alternano a valloni rocciosi le cui pareti si restringono formando gole incassate nella roccia o si allargano formando pittoreschi laghetti. L’alveo cambia continuamente, a tratti serpeggiante segue rettilinei quasi pianeggianti, con improvvisi salti che formano rumorose cascatelle.

Giunti in prossimità del territorio di Torre Galli, il torrente prende il nome di “fiumara di Ortocarà” dove, sul versante del comune di Spilinga, in un bosco di alti castagni, si trova la storica “Grotta delle Fate”. Data la fitta vegetazione del bosco e del sottobosco, è difficile sia avvistarla che raggiungerla. Ma se si ha fortuna e una buona guida, ci si trova improvvisamente di fronte ad una scena incantevole. 

Immersa completamente nel verde, tra due fiancate laterali che vanno scemando verso valle e che formano un piccolo spiazzo a forma di conca, si erge a picco una parete rocciosa, larga circa otto metri e alta dieci, su cui spiccano due aperture. Una è all’altezza di circa 4 m. dal suolo, leggermente arcuata e di discrete dimensioni, detta “finestra”, veniva riportata nei racconti popolari come la finestra. Sotto questa, c’è l’altra apertura larga circa m. 4 e alta 3 che si incunea riducendosi, dopo circa sei metri di profondità, a uno stretto passaggio che dà la possibilità di accesso al piano superiore. La grotta è attraversata da un piccolo torrente di dubbia provenienza poiché il suo alveo è impraticabile per le ridotte dimensioni del’orifizio. Detto torrente col passare degli anni ha insabbiato il suolo della grotta per cui non è possibile stabilire con sicurezza la presenza di stalagmiti, mentre la volta presenta un gran numero di tronchi di stalattiti, rotti forse per curiosità, per ignoranza, o per rendere più facile l’accesso. Al piano rialzato, illuminati dalla grande finestra, si stagliano netti e luccicanti stalattiti di varia forma e misura e gruppi di stalagmiti. Il visitatore del luogo può interpretarne con la fantasia le figure che la credenza popolare ha tramandato di padre in figlio: si tratta di oggetti o animali, trasformati in pietre dalle fate che abitavano tali grotte. Sul pavimento si ravvisano, ad esempio, un cane accovacciato, un cesto di uova, una chioccia con i pulcini ecc.. Appese al soffitto, invece, salsicce e soppressate e un buon numero di armi appuntite di natura sconosciuta ai popolani. Gli abitanti di tale luogo erano ritenuti creature crudeli e invisibili agli occhi umani. Ecco perché alla grotta era stato dato il nome di “Grotta delle Fate”. In realtà erano voci fatte circolare dai banditi, per impedire a contadini e pastori di curiosare: anche se non ritengo gli abitanti del luogo così sprovveduti, probabilmente conoscendo la malvagità di quei brutti ceffi, essi preferivano fingersi tonti. Comunque i banditi, dovendo giustificare le invocazioni d’aiuto e le squarcianti grida delle loro vittime, con raccapriccianti racconti e con minuzia di particolari, riferivano fatti, a cui loro stessi avevano assistito, di terribili crudeltà perpetrate dalle fate nei confronti di chiunque si fosse avvicinato alla loro abitazione. Questa grotta, purtroppo, non è più visitabile perché è stata ricoperta da una grande massa di terreno da riporto. 

Continuando il nostro percorso, in prossimità del territorio del comune di Zungri, si incontra una ulteriore biforcazione e la fiumara cambia di nuovo connotazione. A destra, sulle balze occidentali, nella linea del displuvio, avvallandosi dolcemente, dà principio alla Fiumara del Poro. A sinistra il fiume Lippo, serpeggiando sul muschioso pendio, divalla gradatamente e presso le rocce di Liso va a congiungersi, attraversando la valle di Aramoni (nel luogo ove ancora oggi vedesi la fonte di Aramoni, ombreggiata ancora da un arcisecolare caprifico) , col ruscello del Passo Murato. Questo, giunto all’incrocio con la provinciale, dove si trovano i ruderi di due fornaci per la produzione della calce viva, lascia il caratteristico percorso tra due profonde vallate per aprirsi nell’ampia pianura del tavolato del Poro dove incontra le varie sorgenti che ne danno l’origine. Il punto d’incrocio con la provinciale è detto “Passo Murato”. Anticamente il percorso continuava e, attraversando le terre di Mesiano, raggiungeva la spiaggia di Briatico. Il punto che divideva la pianura dal profondo solco delle fiumare sopra citate, fu murato per salvaguardare la sicurezza delle terre di Mesiano dalle scorrerie dei banditi di Aramoni e delle fazioni ad essi collegati. In realtà nessun documento scritto prova la costruzione o l’esistenza di questo muro, ma è certo che chiunque valicasse detto passo non ne sarebbe uscito vivo.

Per chi, giunto alla sorgente della Fiumara della Ruffa, anziché risalire lungo il corso della fiumara di Brattirò, volesse seguire il corso del “Fosso Raci”, troverà un paesaggio altrettanto caratteristico. Il primo tratto rispecchia il percorso già descritto: una fitta boscaglia, tortuosi sentieri lungo l’alveo e le scoscese falde delle colline che portano agli ormai diroccati mulini e anche qui numerose grotte di eremitica memoria prima e di tante scelleratezze poi.

In prossimità e all’altezza del centro abitato di Spilinga le due colline si allargano per dar luogo ad un’ampia conca, oggi curata ed abbellita, per la presenza del santuario dedicato a Maria SS. della Fontana. Il culto di Maria SS. della Fontana è abbastanza recente: nasce nell’anno 1880, anno del ritrovamento.

Poco più avanti, le valli si restringono di nuovo dando origine a una stretta gola, e per mezzo di un ponticello si uniscono per congiungere la mulattiera che da Spilinga portava a Panaia e viceversa, nonché ai due mulini, ormai ruderi, quasi legati al ponticello. E qui, a causa di un’alta cascatella, bisogna abbandonare l’alveo e risalire la collina. Segue un tratto di fiume che sembra fermo perché pianeggiante, sulle cui sponde a sinistra troviamo i ruderi di un altro mulino e sulla destra le fontane di Raci che per secoli hanno fornito d’acqua potabile Spilinga e Panaia.

Proseguendo, dopo l’incrocio con la strada provinciale, giunto in prossimità del centro abitato e precisamente in località Fiume si apre in due bracci, come se la natura avesse creato un posto ideale, e ben collegato, per la sicurezza dei monaci prima e dei banditi dopo. Infatti questi due rami totalmente sicuri, da una parte, attraverso il “Fosso dei Cafuna, collegano S. Donato con la grotta delle Fate e Aramoni e dall’altra, attraverso il “Fosso delle Grotte”, con la grotta del Favo i petti del castagneto e Bordonadi e viceversa. Ecco perché il posto diviene covo di gente malavitosa.

La Grotta del Favo è ubicata in un luogo non molto distante da dove sorgeva il villaggio Sannatà o San Donato, distrutto con Aramoni. Di media grandezza, conserva ancora oggi due entrate: per accedere all’orefizio principale, ben nascosto da una fitta e spontanea vegetazione, bisogna attraversare il Fosso delle grotte, un corso d’acqua a carattere torrentizio, una volta sicuramente molto più consistente viste le profonde scanalature e l’ampiezza tra le basi delle due vallate. Questo corso d’acqua avrebbe sicuramente ritardato l’accesso ad eventuali inseguitori dando il tempo ai banditi di raggiungere, dalla seconda uscita, l’aperta campagna e dileguarsi così nei boschi circostanti.

In pochi anni, dal 1292 al 1303, i banditi che avevano infestato Aramoni occuparono a macchia d’olio tutto l’entroterra del Poro, da Briatico a Nicotera. Alleatisi coi malavitosi delle vicine contrade, formarono tre fazioni (quella di Aramoni, quella di Landanico e quella di Caruponi) apparentemente per avere un miglior controllo del territorio, ma in realtà, essendo uomini di armi e padroni delle strategie di guerra, si chiusero in una botte di ferro. Infatti la fazione di Caruponi vigilava il fronte Nord-Est (Mesiano, Zambrone, Zungri, Zaccanopoli), la fazione di Landanico il fronte Sud-Ovest (Caroniti, Comerconi, Mandaradoni, Motta Filocastro, e i petti di Coccorino). La fazione di Aramoni, nella restante parte centrale del Poro (compresa Grotta di Favo e quella delle Fate), era protetta dagli unici possibili attacchi dal mare o della via Popilia e, così sicura e indisturbata, poté fare incetta di congrui bottini e macchiarsi dei più inenarrabili e sanguinosi delitti. Le due grotte, rifugi inespugnabili, divennero il centro propulsore per quella gente malnata e sanguinaria.

Proseguendo lungo il fosso cafuna e poi il fosso schioppo le valli si allargano dando origine ad una amena lingua di terra a forma di conca su un terrazzamento che ingloba ambedue sponde del ruscello, ed è protetta anche da occhi indiscreti poiché accerchiata dalle colline. È qui che in una paradisiaca quiete , interrotta soltanto da un leggero fruscio delle acque del torrente, un gruppo di monaci scelse di vivere: ne sono testimoni un gran numero di grotte scavate nella roccia. 

Agostino Gennaro

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