Il popolo in gran parte – spesso analfabeta, spesso subalterno -, a quei tempi, difficilmente nei paesini di Calabria negava il titolo di don a chiunque avesse fatto fortuna, a chiunque ricoprisse un ruolo di qualche prestigio in paese.
Tutti i latifondisti sopradetti – oltre agli uliveti – possedevano anche grandi appezzamenti di terreni coltivati, incolti e anche i trappeti (frantoi), cioè le fabbriche ove si produceva l’olio dalle olive dopo molitura nelle molazze e spremitura nei torchi.
A protezione dei terreni del latifondista venivano da questi assoldati dei servitori chiamati guardiani. Il compito dei guardiani era dissuadere, con le buone o con le cattive, chiunque tentasse di rubare il frutto degli ulivi o danneggiare la proprietà del loro padrone.
Pochissimi contadini del paese avevano uliveti a sufficienza per sostenere con il ricavato d’essi la propria famiglia.
Le riforme del 1944[2] sulle terre incolte da assegnare ai contadini volute dal ministro dell’agricoltura il calabrese Fausto Gullo furono perse quando, nel secondo governo De Gasperi 1946, Gullo venne sostituito dal ricco proprietario terriero sardo Antonio Segni.[3] Questi svuotò il Decreto Gullo di quasi tutti i contenuti riformatori.[4]
A Dasà, i braccianti, le contadine e i contadini – spinti dal grande bisogno – andavano lavorare, con arnesi manuali[5] i terreni dei signori latifondisti, per poche lire a giornata e durante la stagione olearia a raccogliere le olive dei possessori d’uliveti a quinto.[6] Ossia, una parte al cinnararu[7] e quattro parti al padrone degli ulivi – quasi sempre: il latifondista don Tizio, don Caio, don Sempronio e i don Tal dei Tali.
In alcuni altri paesi di Calabria addirittura si raccoglievano le olive a sesto tanto era alto il bisogno e la disponibilità di manodopera. Grande era la fatica delle donne e degli uomini per raccogliere manualmente le olive e sempre scarso il risultato economico di tale loro lavoro, nonostante l’alto valore dell’olio. Un vero e proprio sfruttamento a cui bisognava cedere. D’altronde, questa era prassi avente secoli di pratica e consuetudine alle spalle.
E anche da questo status di grande fame, fatica e sfruttamento che nasce l’emigrazione del dopoguerra verso l’America, l’Argentina, il Brasile, l’Australia.
Alcuni tra loro ritorneranno nei paesi calabri dopo aver fatto un po’ di fortuna per poi comprarvi terreni e/o più spesso uliveti ove poter lavorare in proprio riscattandosi dall’umiliazione-sfruttamento del lavoro a quinto e dal lavoro sotto padrone; tantissime famiglie non rientreranno più in Calabria rimanendo a vivere e lavorare nei luoghi dell’emigrazione.
Gli uliveti che i rientranti in paese dalle “americhe” riuscivano a comprare dai latifondisti erano sovente quelli ubicati in luoghi impervi, disagiati o quelli di qualche signore di turno che li vendeva perché caduto in disgrazia magari per debiti di gioco o perché era considerata essere un grosso affare la vendita.
È in questa situazione di grande povertà e grande disagio, come sopra detto, che tantissimi bambini crescono nei paesi interni e agricoli della Calabria alla fine anni ’40, negli anni ’50. La seconda guerra mondiale aveva portato grandissimi lutti e tantissima altra fame – ma impellente bisogno di ricostruire, di ricominciare.
Un dato forse innegabile è che molti bambini/ragazzi di allora erano consci e resi partecipi dai genitori dell’eventuale bisogno che vi era in casa – d’altronde le rinunce, ai giocattoli, alla bicicletta o ad altro, a cui dovevano sottoporsi era cosa da renderli consci del magro bilancio famigliare per forza di cose. Oggi questa consapevolezza non tutti i bambini, non tutti i ragazzi hanno, per scelta dei genitori.
Per tradizione le povere famiglie bisognose di Dasà – prima dell’inizio della campagna olearia coincidente con la pulizia delle ante[8] degli uliveti dalle erbacce – solevano andare a raccogliere le prime olive, cadute a terra non ancora mature, verso gli inizi del mese di settembre. Andavano – durante la cosiddetta rimunda (ossia, la caduta delle olive che la pianta spontaneamente non tratteneva per migliore maturazione delle restanti) – a raccogliere le olive arranti (cioè all’errante, girovagando da un posto ad un altro tra gli uliveti). Il quantitativo d’olio prodotto da queste olive era molto scarso – con 100 kg si poteva riuscire a produrre non più di 6 litri d’olio.
L’arranti era una pratica legale avente consuetudine antica e alquanto tollerata dai proprietari. A Dasà i bisognosi erano chiamati, senza il non inserirvi (specie in tempi più recenti) un senso dispregiativo, arrantaluori[9].
A proposito della raccolta delle olive arranti, mia madre mi ha raccontato dell’avviso pubblico e orale ‘u bandu’ diffuso dal banditore del paese di Dasà prima dell’inizio della campagna olearia che più o meno recitava così: “Nessuno si deve più permettere di andare per olive arranti altrimenti le guardie municipali li porteranno al carcere di Arena”.[10]
Il frutto di tale lavoro era acquistato da persone del paese i cosiddetti compratori d’olive. I compratori pagavano con moneta contante le poche olive che ciascuno portava loro la sera. E comprato paniere dopo paniere, riuscivano a portare una congrua quantità di olive al frantoio. Era sovente tra i poveri venditori che i soldi appena guadagnati venissero subito spesi per comprare un poco di riso, un po’ di altri generi di prima necessità.
I compratori d’olive potevano essere donne magari vedove del marito morto nella prima guerra mondiale e quindi usufruenti di una magra ma sicura pensione che investivano in questa attività (che non prevedeva licenza di vendita) cercando di farla fruttare un poco.
L’intermediazione svolta dai compratori di olive negli anni Quaranta e Cinquanta non credo potesse essere considerata una forma di strozzinaggio, anzi, era a ben vedere un servizio sociale che facevano nei confronti di altri bisognosi in quanto senza d’essi nessuno poteva da solo macinare i pochi o l’unico paniere d’olive raccolto.
Anche alla fine della campagna olearia le olive venivano “liberate”[11] per consuetudine e di nuovo i bisognosi a frotte potevano andare arranti negli uliveti a raccogliere i pochi olivi (di alta qualità questa volta) rimasti ma antieconomici, poiché pochini, per il proprietario terriero raccogliere.
Era un lavoro certosino, svolto da mamme, giovani figli e figlie, perché rimanevano davvero poche olive per terra anche se succose d’olio, perché necessitava girovagare tra tanti ulivi per riempire il paniere.
La liberazione delle olive da parte dei proprietari non avveniva in contemporanea per tutti gli appezzamenti di terreno per cui non era raro che, tra i bisognosi del primo dopoguerra, vi fossero persone che “saltas-sero” o più spesso facessero “saltare” il piccolo figlio o la piccola figlia – da un posto libero (con poche olive) a un posto non libero (con più olive) per incrementare la quantità di olive raccolte. “La necessità fa l’uomo ladro”, si potrebbe dire.
È, probabilmente, in questo contesto della raccolta delle olive arranti che parecchi bambini e ragazzi del paese si inventano la pratica del litruzzu (durante tutta la campagna olearia) conclusasi verso gli anni Ottanta. Ossia, andare essi da soli o più sovente a squadriglie (senza genitori o adulti) a farsi “un quasi litro di olive” per poi rivendersele.[12]
Negli anni Quaranta e Cinquanta e anche prima il litruzzu, pratica illegale, veniva fatto da tantissimi bambini e ragazzi del paese per poter soddisfare dei bisogni primari in famiglia; in seguito lo si farà ancora, meno numerosi per fortuna, per soddisfare capricci e bisogni personali come comprarsi un gelato, le figurine Panini, le nocciole per giocavi, le sigarette di nascosto dai genitori, per comprarsi il biglietto del cinema, avere soldi da spendere durante la grande fiera dasaese dell’8 dicembre.
Nelle squadriglie di bambini e ragazzi che andavano a farsi il litruzzu vi erano sempre: quello più ribelle, l’amante del gusto del proibito, quello che voleva massimizzare la quantità di olive raccolte (perché era semplice la deduzione che facevano: più olive portavano ai compratori e più soldini avrebbero incassato la sera), per cui questi non badavano tanto al fatto se le olive fossero libere o non libere – o se fossero già state raccolte e riposte al “sicuro” dal proprietario.
Domenico Capano
Torino, 10 luglio 2014
1. L’olio di oliva, con meno retorica, è stato “l’oro liquido del Mediterraneo” e ha avuto da tempo immemorabile un alto valore; a giustificarlo vi è l’immensa superficie olivetata del Mezzogiorno di Italia e vi sono le tante piante secolari
2. I DECRETI GULLO N. 279. DECRETO LEGISLATIVO LUOGOTENENZIALE 19 ottobre 1944. Concessioni ai contadini delle terre incolte. (Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – serie speciale del 4 novembre 1944, n. 77).
Art.1 Le associazioni dei contadini, regolarmente costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati in relazione alle loro qualità, alle condizioni agricole del luogo e alle esigenze culturali dell’azienda in relazione con le necessità della produzione agricola nazionale.
Art.5 «… La durata della concessione non può oltrepassare i quattro anni agrari. …».
3. 12 luglio 1946.
4. Antonio Segni, svuotò in parte la legislazione del suo predecessore con i decreti del settembre 1946 e del dicembre 1947. L’articolo 7 del primo decreto dava in particolare ai proprietari il diritto di reclamare la terra se i contadini avessero violato le condizioni alle quali era stata concessa. Da Paul Ginsborg, STORIA D’ITALIA DAL DOPOGUERRA A OGGI, 1996 by Einaudi Scuola.
5. Non era raro che l’unico strumento fosse la zappa con la quale lavoravano per interminabili 10 ore giornaliere o forse più.
6. A Limpidi di Acquaro, e non solo, c’era l’uso che le povere donne, dopo una massacrante giornata di lavoro, curve anche sotto la pioggia o in qualsiasi altra intemperie, alla fine dovevano caricarsi sulla testa i recipienti “ruvaci” o sacchi con le olive raccolte per portarle al magazzino del signorotto, scaricarle nei ripostigli “zimbuni” e portarsi alle loro misere case il magro compenso costituito dalla quinta parte se non addirittura dalla sesta.
7. Cinneraru è stato un termine dialettale dasaese che indicava coloro che coltivavano i terreni o raccoglievano le olive negli uliveti dei proprietari in cambio di una parte del raccolto.
8. Anta, nel dialetto dasaese indica lo spiazzo di terreno, sottostante l’ulivo nel nostro caso, adibito al raccolto dal contadino.
9. Arrantaluori erano dette a Dasà le persone che raccoglievano le olive girovagando di anta in anta, sia prima dell’inizio della campagna olearia, sia alla fine dopo che le olive venivano liberate.
10. Parrebbe evidente che, se il Comune assoldava il banditore per tale “pubblico bando” – avente il fine di dissuadere dalla pratica arranti gli arrantaluori attraverso l’uso della legge -, le motivazioni potevano essere le lamentele in Comune da parte dei proprietari che avevano forse notato o temuto delle mancanze di olive anche a campagna olearia ufficiale iniziata.
11. A Limpidi di Acquaro mi racconta l’amico Ubaldo Dorè che: «I proprietari di uliveti come pure di castagneti o di terreni coltivati a grano o granturco, terminata la raccolta o la mietitura, “LIBERASSERO” quanto c’era ancora sulla pianta o sul terreno alla disponibilità dei poveri o di chiunque avesse bisogno dei frutti residui. Era tutto legale e nessun proprietario poteva vietare che altri entrassero nella sua proprietà. L’uso, consolidato dall’antichità, veniva appellato a Limpidi con il termine “liberare”».
12. Un altro ricordo limpidese di Ubaldo Dorè: «Le olive potevano essere raccolte prima della loro completa maturazione, ossia fino al giorno dell’apertura dei frantoi oleari. A questa libertà si poneva fine con la pubblicazione di un avviso affisso nella piazzetta oppure mediante un bando pubblico. Dopo il mese di aprile/maggio si ripristinava la libertà che non era limitata solo ai territori di Dasà, Acquaro, Dinami ma era estesa a tutte le aree della Calabria e del Mezzogiorno d’Italia che avevano terreni olivetati. Vigeva la stessa usanza da tempo immemorabile e pertanto, tacitamente legale, anche per la raccolta delle castagne residue, delle uve come pure delle spighe di grano dopo la mietitura (spigolatura). Quando avveniva la “liberazione” della raccolta dei prodotti residui, in uno stesso comune, questa veniva proclamata “gridata” per tutti i terreni sottoposti alla medesima coltura in contemporanea. La famiglie bisognose erano già in attesa come l’arrivo della manna dal cielo. Si precipitavano nelle campagne interi nuclei familiari per recuperare quante più possibile olive che gli sventurati poi vendevano alle donne che venivano da fuori. Queste, per incarico dei proprietari di frantoio oleario oppure per conto proprio, le acquistavano per poche lire. Ero bambino, ante guerra, e ricordo nitidamente di alcuni ragazzi poveri che, non avendo pane, mangiavano il grano abbrustolito contenuto nelle spighe residue raccolte dalle loro mamme nei terreni dopo la mietitura mediante la consuetudine della spigolatura.»
Dipinto di Mike Arruzza
Note
- Il dipinto Raccoglitrici di olive è dell’amico pittore dasaese Mike Arruzza.
- La foto del piccolo ragazzo, ripreso mentre raccoglie olive, è un fotogramma tratto dal documentario Rai del 1959 intitolato ‘Raccoglitrici d’olive in Calabria’.
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