In ricordo dello scrittore Lino Daniele, ecco una mia lettura de Il FIGLIO RIBELLE – che offro agli amici lettori rammentando che Lino è stato tra i promotori del Premio Tropea, che proprio in questi giorni allieta il pubblico colto del vibonese.
Titti Preta
“Una vicenda neo-realista fuori dalle righe”.
Il romanzo di Lino Daniele è costituito in forma di “dittico” , cioè diviso in due sezioni: c’è il prima e il dopo di una vicenda narrata sul filo della memoria, dove l’autobiografismo non è sfacciatamente esibito e il ricordo costituisce la cifra narrativa.
Narrazione che si fa riflessione su un “Come eravamo” autentico e sofferto che diventa specchio di vita, quella realmente vissuta, perché Vincenzo è un alter ego dello scrittore, è la sua imitazione letteraria.
E’ un romanzo nel complesso semplice, leggendolo ho dato tante cose per scontate, ma mi sono accorta che è anche profondo nella sua semplicità e chi ama problematizzare il reale vi troverà una filosofia genuina, quella tipica di un filone neorealista che ha dato i suoi frutti migliori da Alvaro in poi con Strati, La Cava, Seminara, Repaci… E’ un filone poco studiato, soprattutto a scuola, e che va riscoperto. C’è tutta una “scuola” di scrittori tuttora viventi che impregna le proprie pagine dei ricordi della “amara terra mia” che è questo “sfasciume pendulo sul mare”, questa parte di “Italia fallita” come qualcuno ha chiamato la “penisola nella penisola”, cioè la nostra terra.
Le propensioni, consapevoli o meno, dell’autore verso tale genere ci sono tutte, specie nella prima parte.
La prima parte illustra la vita in un paesello calabrese tra i monti, Cinquefaggi, in contrada Nucara dove il protagonista, Vincenzo, vive la sua vicenda infantile e adolescenziale alle prese con un padre-padrone che soffoca la sua voglia di continuare a studiare dopo la licenza elementare e che invece lo manda a pascolare.
Premetto che non si tratta di un “romanzo di formazione” secondo il canone classico, anzi, a mio avviso, si accosta ad una tinteggiatura paradossale (secondo l’etimologia greca paradoxon: che va al di là dell’immaginabile, del credibile, generando il senso dell’”inaspettato”), specie per la seconda parte, dove si sfiora l’inverosimiglianza.
Ma ciò non avviene nella prima parte, in tutto figlia del neo-realismo che negli anni 50 ha dato i suoi frutti migliori in tutte le arti.
Qui Vincenzo mi ricorda, nelle sue peregrinazioni in campagna, a contatto con la natura primigenia di un angolo speduto della nostra Calabria negli anni 50, una specie di “pastore dotto” alla maniera dei boukoloi classici… un Titiro o un Melibeo piuttosto che un Licida o Meri o un Dafni… certo, un inconsapevole “can tore” o comunque uno che mette al centro dei suoi interessi il godimento della natura vista come Dea e che, per la sua osservazione, si cala in una sorta di “panismo”. Poi ci sono le creature che popolano quest’immaginario, le donne un po’ ninfe che paiono esseri superiori all’incolto e selvaggio pastore, su tutte Elisabetta che si lava al fiume e che gli appare nuda come Athena a Tiresia nel famoso mito ripreso da Callimaco nell’inno I Lavacri di Pallade. Sono classicista e tendo forse a forzare un po’ le atmosfere, comunque suggestive, che il romanzo mi ha evocato, soprattutto nella prima parte.
E’ un modo per avvicinarlo ai miei gusti, alle mie predilezioni e renderlo “mio” durante e dopo la lettura attenta e riflessiva che vi ho svolto. Infatti non l’ho divorato,perché ho dovuto reinterpretarne alcuni passaggi. All’inizio credevo fosse di “facile presa” poi mi sono accorta che dovevo precisarne alcune “battute” e che la semplicità fosse un fatto apparente. Non è automatico entrare nel mondo di uno scrittore e scavare tra le pieghe delle sue parole che si fanno pensieri, idee… Ho usato il metodo della sottolineatura col lapis, che faccio quando i libri mi “prendono”, sia in positivo che in negativo. La criticità non deve esser vista come un elemento negativo: chi scrive si pone in una vetrina, è giudicato, sottoposto all’intelligenza del lettore che deve diventare “protagonista” del suo leggere.
La prima parte, quella che mi ha presa di più la considero più autentica, più vera e “verista” anche se io non sono una scrittrice “realistica” in senso stretto. Perchè allora mi è piaciuta? Per la sua carica di vitalità, perché in questa parte risiede il senso della ribellione, l’eversione dalla regola precostituita, è il clima della protesta, della ricerca dell’affermazione, sofferta, patita e lunga a venire, ma per questo gradita, vista come la conquista. Nella seconda parte vedo meno ribellione. E a me l’acquiescenza non piace. Credo che dobbiamo combattere per affermarci, prima come individui e poi come gruppo.
E’ la parte della fatica, del lavoro imposto, del sacrificio, è la barbarie del paesino dove Vincenzo è deriso e chiamato “negus” per il colorito, oppure “il selvaggio di Contrada Nucara” mentre lui vagheggia i libri e la scuola, ricorda sempre La patente di Pirandello che il maestro Arruzza volle far leggere per esorcizzare il potere della jettatura molto sentita a livello popolare, per sradicare le credenze volgari che hanno impresso dei marci difficili da rimuovere (per cui nel paese c’è lo jettatore e tutti lo evitano).Sono le classiche ingiurie paesane contro Don Demetrio, le stesse che affibbiano i soprannomi che servono come identificativi di una persona che diventa personaggio da individuare e distinguere all’interno del gruppo di riferimento. Il problema non è tanto l’identificativo in se’, quanto la derisione o la denigrazione che ne consegue.
Vincenzo ricorda la ricerca sull’ulivo, pianta-simbolo nel sud e , su tutto, il suo amore per i Promessi Sposi, libro che gli fu regalato dal caro insegnante che lui considera come la sua guida spirituale, il suo guru ed al quale assegna il ruolo di formatore. Vincenzo rimpiange la scuola. Nella parte iniziale si assiste ad una scena (perché qui proprio di scena, più che di narrazione si tratta a mia avviso) che è quella della tentata fuga sulla corriera blu sgangherata. Una fuga non riuscita, che si risolve in un tentativo di ribellione, di eversione da quelli che sono i ritmi prefissati della vita del contadino-pastore.
In quella scena narrativa si assiste allo scontro tra il mondo vecchio e decrepito, quasi barbarico, a cui appartiene il padre, pater familias custode di tradizioni secolari e che decide anche della vita dei figli (tanterà di appioppare qualche pallottola al figlio che si ribella), e il mondo dei sogni e del progresso, quello del figlio: purtroppo quest’ultimo non è ancora capace di fuggire e di opporsi a quello che lui chiama il “grande capo” con una punta di disprezzo.
Così l’autobus della speranza e le valigie di cartone rimangono i simboli di una tentata fuga dal casolare. Vincenzo rimarrà avvolto in un clima di diffidenza verso lo studio, visto come perdita di tempo, mentre la terra è vista come la vera ricchezza.
Mi colpisce la ribellione, fatta non per frivolezze, ma per studiare! Oggi non sarebbe ribellione questa:oggi ci si ribella per un nonnulla, non c’è nessuna ideologia nei giovani e non per colpa loro. Ci si ribella per avere un cellulare nuovo o per non studiare… è una vera protesta? E’realistico che un ragazzo di quell’età protesti contro il padre per lo studio? Oggi studiare è un diritto e dovere, ma negli anni 50, nonostante la Costituzione, la relegazione ai confini del mondo in una Calabria dimenticata non garantiva l’alfabetizzazione completa, ci si fermava alla quinta elementare.
Sinceramente non mi interessa se sia realistico un comportamento così: cioè se davvero negli anni 50 in Calabria ci potesse essere un Vincenzo. Credo che un libro, anche uno così che appartiene ad un filone “veristico” debba far sognare: in un certo qual modo questo ragazzino sarà improbabile o poco “vero” , specie quando arriverà a Milano in Tv! Ma è personaggio letterario e come tale ben si inserisce nel contesto del romanzo che rimane, sempre e comunque, un’affabulazione.
La stesura del libro tende a riportarmi alla memoria un film dell’89, mi pare, di Comencini: “Il ragazzo di Calabria”: anche lì c’era un padre ostico che non capiva la voglia del figlio di fare il mezzofondista, la ribellione avveniva per diventare un campione d’atletica. E’ un film tenero con uno strepitoso Gian Maria Volontè (nella parte del mentore) e un Diego Abatantuono (nella parte del padre) in stato di grazia e che si apre a nuovi ruoli dopo le “tamarrate” degli anni 80 del suo “terrunciello”.
A ben pensarci, è lo stesso canovaccio di “Nuovo cinema Paradiso” dell’88: nel film di Tornatore il bambino, siciliano, si ribella alla madre, rimasta vedova, per poter andare al cinema a vedere i film e ad avvolgere le pellicole nella sala proiezione e diventare come il suo maestro, impersonato da un Philippe Noiret che io ritengo dovesse avere l’Oscar per questo ruolo.
In questi due capolavori del genere “neo-realistico” riveduto e corretto secondo i moduli degli anni di riferimento, i due ragazzini, entrambi maschi, hanno però qualcuno che li guida nelle loro ribellioni:invece nel romanzo Vincenzo è solo a far pugni contro tutti, disperatamente solo, anche se trova una forza immane, una caparbietà, una testardaggine da vero calabrese! La sua caratteristica è che è un coriaceo, oltre allo studio ha in testa la tv ed il quiz al quale vuole partecipare… e insperatamente ci riuscirà.
In Vincenzo – a dire il vero – quando si incaponisce a partecipare al quiz… ho rivisto me stessa! Anch’ io annovero quest’esperienza…
Vincenzo dalla vita vuole di più, vuole il riscatto come persona e ciò sa di poterlo ottenere solo studiando o vincendo al quiz. Ha sempre i libri in testa, che per lui sono i veri amici, perché amici non ne ha, non ha tempo per distrarsi, la sua è una vita tremenda e faticosa. Ricorda di aver corretto il tema del figlio del barone Calcaturra, tutto pieno di sgrammaticature… ma chi ammetterebbe che un contadino ne sa più del figlio del barone che è poi un superbo feudatario?
Ma oltre ai libri ed alla scrittura, Vincenzo, come detto, ha un altro mito: la tv, che negli anni 50 teneva incollati allo schermo milioni di persone che accorrevano la sera nei bar del paese a vedere Lascia o raddoppia? oppure Il musichiere o Campanile sera: Mike Bongiorno, Enzo Tortora, Walter Chiari, Jonny Dorelli, la cantante Mina e Adriano Celentano, Domenico Modugno, Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi… solo per citare alcuni nomi noti … Iniziava una nuova era, preludio al boom degli anni 60 ed alla creazione di quella società dei consumi di massa di cui la tv era uno dei mezzi. E serviva anche ad alfabetizzare folle di analfabeti! Ricordo un programma “Non è mai troppo tardi” dove un maestro impartiva lezione da scuola elementare tramite il tubo catodico: questo pezzo di storia non è certo nota alle nuove generazioni, che danno tutto ciò che hanno per scontato, non sapendo che c’è stata fatica per conquistarlo.
Proprio lo sconfinato amore per la lettura porterà Vincenzo a partecipare alla trasmissione-quiz La grande occasione di cui sarà il protagonista per alcune settimane, dopo un rocambolesco avvio.
Mi ha colpito la solitudine da piccolo uomo che si pone contro tutti nel desiderio di studiare e di andare avanti. Anche a Milano alla RAI tv. In fondo nessuno lo aiuta a coronare i suoi sogni.
La madre, sempre in lutto, è una figura muta, che lui paragonerà alla monaca di Monza per la sua reclusione in casa, talora si interpone tra il figlio e il marito per salvarlo dalle botte, ma non impedisce il volere dell’uomo di casa che al posto del libro consegna la zappa.
Poi ci sono le sorelle, di cui una, Caterina, subirà , per sbaglio, un incidente causato dal padre che voleva assestare un colpo a Vincenzo ed invece colpisce lei… una tragedia familiare che vien tenuta nascosta.
Ci sono poi i nonni, nonna Lucrezia è altera, ma non si imporrà mai del tutto, il nonno lo sostiene, ma mai fino in fondo:le scelte toccano a lui solo, solo lui reca sulle spalle questa mole. Una fatica da Sisifo!
Ma in fondo non è solo: c’è la natura nella quale si specchia a infondergli forza, e ci sono squarci di un lirismo descrittivo che ci consegnano una “Calabria verde” da dovremmo tutti riscoprire, un Eden perduto di cui riappropriarci: tramonti, albe, crepuscoli, fonti, specchi d’acqua, cascatelle, torrenti, fiumare, gole e vallate, faggete dove risuonano le mille voci degli uccelli che lo scrittore cita con perizia ornitologica.Il bosco è visto come una deità, c’è una sorta di druidismo primitivo in questi pastori che vagheggiavano la natura ed arrivavano alla poesia come riflessione ed otium. Ad una amante della natura ciò non può passare sottotono.
Le figure femminili, ovviamente, mi hanno incuriosita, anche se nessuna è riuscita ad intrigarmi.
Eccone una breve galleria:
-Assunta è il primo innocente amore paesano, quella che vedi in chiesa o alla fontana, una kore greca con le treccine con la “cortara” in testa e che non può che rifiutare le avances ingenue;
-Elisabetta è la femminilità che prorompe e sconvolge nelle sue forme;
-poi ci sono le figure cittadine: la signora Gabriella, che lo inizia all’amore e Tamara, la studentessa che lo segue fino alla fine, il vero amore. Devo dire che però quest’ultima mi ha davvero colpita poco, non mi pare molto significativa, ormai Vincenzo si è affermato ed ha fatto le sue scelte quando lei appare, non la vedo funzionale alla sua evoluzione di uomo, ne è solo un corollario. Mi pare che abbia bisogno più lei di lui che viceversa.
Ho gradito dell’opera più la prima parte proprio perché più vera, autentica, radicata nello scrittore, anche se è il periodo dell’insoddisfazione e della ricerca dell’identità. E’ il mondo del paese,popolato da barbari sui quali, nonostante gli scherni, Vincenzo si sente superiore… è il mondo del bosco, nel quale senti l’eco dei briganti e la paura dei lupi (con uno il protagonista lotta pure), il mondo del buio, degli spettri, delle streghe. C’è anche il luogo detto la “Timpa della megera” (notare l’etimologia greca) che è un luogo di demoni. A questi echi si mescola la paura per le schioppettate- quelle sì che son vere! – delle lupare bianche e delle interminabili faide che tanto sangue spargevano per quei luoghi dove i pastori credevaano che i morti si risvegliassero per vendicarsi.
In questo mondo ci sono ancora i ricordi della guerra e delle bombe, dell’emigrazione che ha spopolato le campagne, del feudalesimo dei baroni aggrappati ai loro privilegi, delle carestie, delle inondazioni delle fiumare, delle catastrofi naturali di una Natura che si ribella all’uomo e si afferma come unica dea…
insomma la Calabria che conosciamo dal “sentito dire” perché siamo figli di un’altra generazione, più progredita e perché molti di noi, come me, hanno vissuto in una cittadina dove si viveva diversamente che nei paeselli di montagna.
La seconda parte ho notato che ha un ritmo narrativo più spedito rispetto alla prima. E’ più frettolosa, procede per quadri narrativi che non mi sono parsi del tutto coesi: credo che la sua cifra sia stata quella voluta frammentazione da parte dello scrittore, che in quel mondo si scopre avulso e lontano: lui non è figlio del Nord. E vi domina l’inversosimiglianza.
Questa parte, la seconda dell’ “opera – dittico”, si apre già con un clima metropolitano ante litteram: è la Milano (non ancora quella “da bere”), ma quella dei “cummenda”,delle segretarie di periferia, delle fabbriche del “miracolo economico” del grattacielo Pirelli, dei tram e delle vie piene di gente… ma dove piove sempre e il cielo lo vedi a spicchi.
In Corso Sempione alla Rai tv Vincenzo vivrà la sua esperienza di “campione o quasi” alla citata trasmissione sull’argomento da lui scelto:I promessi Sposi. Diventerà una celebrità, nonostante sia arrivato come un “fenomeno da baraccone” verrà accolto bene dai dirigenti, dagli autori del programma, dalla segretaria… lo presentano come un vero e proprio caso di cronaca: l’ umile ragazzo di Calabria giunto alla ribalta!
Non so fino a che punto tutto questo mondo gli piaccia… in fondo il suo fine è quello di vincere i soldi per studiare e ci riuscirà, nonostante l’inaspettato domandone finale.
Non so neanche quanto lieto sia il finale di questo romanzo: in fondo è un’ennesima fuga dal suo mondo e dalle sue radici… ma voglio sperare che Vincenzo, una volta diplomato e laureato, al suo mondo sia tornato, contribuendo al miglioramento di una società, la nostra, quella calabrese di ieri e di oggi, così fragile e che ha bisogno della cultura per poter andare avanti e non rinsecchirsi nella barbarie.
Prof.ssa Maria Concetta Preta – scrittrice