Vi è un tempo ciclico e un tempo orizzontale. Un tempo ciclico, in cui ogni cosa rinasce dal nulla, ogni anno; un tempo ciclico, in cui un evento importante per una data comunità umana ritorna, ogni anno. Il rapporto dell’uomo con il tempo ha sempre oscillato tra due misure naturali: l’alternarsi del sole e delle tenebre notturne, da un lato, e il ritorno delle stagioni dall’altro. Cioè, la durata del giorno, come ciclo minimo, e la durata dell’anno, come ciclo massimo. Tra le due, intercalato dal crescere e dal calare della luna, si aggiunge il susseguirsi autonomo dei mesi, che non coincidono con il ritmo dell’anno solare.
Ma, al di là dell’orizzonte dell’anno, il tempo perde rapidamente i suoi confini obiettivi e si affida al flusso della memoria. “Il fatto accadde quando nacque mio figlio” o “al tempo in cui mio padre viveva ancora” o anche “quando eravamo bambini”. Allora perché la memoria? E qual’è lo scopo della memoria? La memoria è legata strettamente al tempo, al tempo interiore che il filosofo francese Henri Bergson ha definito come “intuizione di istanti percepiti dalla coscienza quale continuum senza passato e futuro”. E lo scopo della memoria è di raccogliere, immagazzinare, conservare gli istanti del tempo in una sorta di temporibus illis, cioè in una dimensione dello spirito “aurorale e infantile” in realtà sempre qui e adesso.
Questa dimensione dello spirito crea l’evento, il quale non è più parte del tempo comune ma del tempo mitico, che fa dell’accadere un solo unico istante senza tempo e insieme al di fuori del tempo: un eterno presente. Le feste popolari, soprattutto quelle religiose, mescolanza endemica di sacro e profano, hanno sempre conservato e conservano ancora il significato dell’evento, e restano immerse nel tempo mitico che sembra mantenerle immuni da ogni influenza, per così dire, “esterna”, imposta dal frenetico incalzare della modernità.
Il tempo della festa è un tempo sacro, un’istante che accade e sempre ritorna identico a se stesso, nel presente percepito dalla coscienza, nell’eternità che si trasforma in durata priva di temporalità. Il tempo della festa è anche uno spazio sacro, senza principio nè fine o con un principio e una fine identici, punto di incontro dell’armonia cosmica che accomuna tutte le cose. Ho cercato, per quanto possibile, di affidarmi alla Poesia nel tentativo di trasformare i ricordi in rammemorazione e di fare della memoria uno strumento di affabulazione. Cioè di ricordare poetando e di raccontare con il linguaggio meno convenzionale di tutti: il linguaggio poetico.
Una luce, forse una scia sottile come quella lasciata dalle comete nel cielo del giorno che inizia, il tempo della festa: il suo tempo e il suo spazio sacri, un’eco sonora nell’aria che come l’eco si propaga all’intorno. Il ricordo riaffiora di quest’attimo vissuto tante volte e in giorni più lieti: i giorni dell’infanzia, pur sempre spensierati, sognanti, dilatati all’infinito, istante di pace e unità… la piazza è in festa, colma di uomini, di donne, di ragazzi, di bambini, volti di persone care, volti amati, pietre consumate e antiche la cui polvere ha in sè, per sempre, anche l’impronta dei nostri passi… odore di carne di maiale al fuoco, di salsicce rigirate nella brace, odore di olive verdi schiacciate, di aglio triturato, di peperoncino rosso e piccante, lucido e invitante; odore di spezie, di dolciumi impastati col miele, duri al tatto e dalla forma umana e animale… la vitella, adornata a festa con nastri di stoffa setosa rossi e verdi e l’ immagine dei santi appuntata sopra, viene portata per le vie del paese ed esibita in un tripudio di voci e di esclamazioni… i giganti della tradizione, Mata e Grifone, ballano nelle piazze e nelle vie al rullare incessante dei tamburi ed è una gioia per tutti senza distinzione di età… le statue dei santi portate solennemente in processione, da un estremo all’altro del paese, da una folla di devoti vinti dalla commozione, imploranti grazie e benedizioni per sè, per i propri figli, i propri parenti, i propri amici… è la festa dei santi medici Cosma e Damiano, al mio paese. Una grande festa che viene da un passato il quale si perde nella notte oscura dei secoli. Per tre giorni (25, 26, 27settembre) il paese è come sospeso in una dimensione quasi irreale: tutto si annulla, tutto si ferma, tutto si ricrea; e il tempo si fa mitico, dilatandosi come nell’infanzia, lento ma costante, sicuro e a dismisura. Gli attimi hanno un valore inestimabile; le ore non si contano, lo scandire temporale degli orologi concede al battito del cuore il completo dispiegarsi di una ancestrale e inconscia sacralità. E’ festa. In questi ultimi giorni di settembre, limpidi, cristallini, baciati dal soffio dello Zefiro. Uno spazio e un tempo sacri, temporibus illis, evento che accade qui e adesso, in un eterno presente: fra anni e negli anni, fra anni e negli anni, fra anni e negli anni… il ciclo si chiude, prima che finisca l’estate.
Francesca Rita Rombolà
PRIMA CHE FINISCA L’ESTATE
Prima che finisca l’estate,
una scia luminosa
nel cielo dell’alba,
è un giorno di festa
che si propaga negli echi
fra queste contrade.
Quante mattine di festa ricordo
e quante altre, molte di più, non oso ricordare…
erano anni radiosi e tristi
con volti di bimbi
riflessi in nuvole chiare
giorni di autunno imminente
il ritorno di un ciclo e il suo mito
che nello scrigno del cuore
conserva i suoni, gli odori, i ricordi.
Fra anni e negli anni
gli stessi frammenti del giorno:
il ciclo si chiude,
prima che finisca l’estate.
Dalla raccolta di poesie “DIESIS” di Francesca Rita Rombolà
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