Quando la politica si affida solo ai proclami

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Valerio Colaci

È la formula magica che ci è capitato di ascoltare più frequentemente in questi giorni di campagna elettorale, da tutti i pulpiti da cui vi è stata una “predica”: «il bene del territorio». Bene, ovvero cosa giusta, corretta, ineccepibile dal punto di vista morale, per un territorio, quello della Calabria, della provincia di Vibo e dell’Alto Mesima, periferia di quest’ultima, più nel dettaglio, che ne avrebbe veramente bisogno ma che non si vede. Altrimenti non si spiegherebbe lo stato di abbandono in cui il territorio, quello dell’Alto Mesima in particolare, versa da anni, accelerato in maniera smisurata negli ultimi tempi da una non più velata tendenza, volontariamente portata a compimento, all’estinzione dei centri che vi fanno parte. Perché sconvenienti, antieconomici, indegni dall’investirvi risorse e utili soltanto al momento del voto, da dare, però con l’occhio rivolto al «bene del territorio». E poco importa se, passata l’euforia preelettorale, il bene, per questo territorio, si traduce inevitabilmente in un’azione volta esclusivamente a “stancare” la gente che vi vive, ed a spingerla a “scappare” per altri lidi, certamente più allettanti politicamente ed economicamente che non dei piccoli paesini insignificanti, dove pure la gente paga le tasse, per vedersi, ogni giorno di più, ridurre i servizi. Meno scuole, meno ospedali, meno uffici, tutti spostati in luoghi più centrali ed opportuni dal punto di vista economico. Perché da queste parti il compito dei cittadini è solo quello di pagare le tasse ed andare a votare quando è il momento. Non hanno diritto alla salute, all’istruzione, a strade degne di questo nome, ad occasioni di lavoro e di sviluppo. A meno di avere santi in paradiso. Non hanno diritto ad avere diritto, perché sono antieconomici e perché, comunque, quando è il momento alle urne ci andranno. Questo è l’importante. E poco importa se i figli di questo territorio, di questa Calabria che tutti vantano di conoscere meglio degli altri, siano costretti, ancora nel 2013, a seguire le orme che furono dei loro padri e dei loro nonni, facendo le valige ed andando a cercar fortuna, in Australia, magari, o in Canada. Tutto uguale a cinquant’anni fa, tranne la valigia che non è più di cartone. Solo che siamo nel 2013 e, di «bene del territorio» in tutti questi anni, come “u pilu” di “Cetto”, ne è stato propinato a fiumi. A vagonate. Solo a parole, però. E lo dicono i fatti. Sicuramente non condividiamo l’antipolitica fine a se stessa. È inopportuna, non produce effetti. Però, se questa negli ultimi tempi è imperante e travalica i più alti livelli mai raggiunti, non basta semplicemente criticarla da tutti i pulpiti. Occorrerebbe chiedersi perché essa è imperante. Occorrerebbe chiedersi: «io amo davvero il territorio?» e, se si  «se, come me, l’hanno amato quelli che mi hanno preceduto e, al momento del voto, lo hanno detto ad altri cittadini che hanno preceduto gli attuali, perché è tutto fermo a 50 anni fa?». Fatevi queste domande e datevi voi stessi la risposta.

Valerio Colaci  CO

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