Il mio recente post su Palumbo (il campetto di Brattirò) ha ricevuto centinaia e centinaia di visite (quel solo articolo ha toccato le mille visualizzazioni!).
Alcuni amici sono intervenuti direttamente sulla bacheca del nostro blog per commentarlo, altri hanno preferito inviarci un’email e altri ancora ci hanno addirittura contattato telefonicamente per ringraziarci.
Torno sull’argomento, oltre che per ringraziarvi, per “aggiornare” il pezzo con ulteriori miei commenti e altre specificazioni.
Rispondo, anzitutto, qui in basso, solo ai commenti pubblicati sul blog (CLICCA QUI PER RILEGGERE IL PRECEDENTE POST).
– A mio fratello Cicco, dico che ha ragione: passavamo più tempo a Palumbo che a casa…
-A Teresa Farfaglia e ad Alessandro Remondino non mi sento di dar torto. Come scrivono loro: prima Palumbo era qualcosa…ora cos’è?
-Il commento di Giuseppe Rombolà mi è piaciuto perchè, a quanto pare, Palumbo è stato un luogo particolare anche per molte generazioni di brattiroesi che hanno preceduto la mia
-Mi associo in toto alle sensazioni provate e descritte da Alfredo Padula
-A Franco Rombolà, che ci segue dall’Argentina, mi sento di dire un grazie speciale
-Ad Anna Rombolà, la quale ha scritto di avere altre preziose foto di Palumbo, chiedo di inviarmele e autorizzarmi a pubblicarle e condividerle con tutti voi (Anna, se ti va, invia tutto alla mia email, vallonemario@yahoo.it, oppure all’indirizzo redazione@vibonesiamo.it; se hai le foto solo in cartaceo cortesemente fammele avere a casa, oppure fammi sapere quando posso passare da te a ritirarle).
– Quanto a Mimmo Farfaglia: caro Mimmo non mi ricordo il tuo ritorno al calcio a Palumbo, ma ho ancora in mente i tempi quando giocavamo a Siena e ti ispiravi a Frank De Boer, o a Riccado Ferri, o a Batistuta. Ho pagato duramente tuttu chiu vinu chi ndi mbippimu con un’operazione d’rgenza tre anni fa a causa della mia ulcera perforata. Ma ndi scialammu u trincamu e non me ne pento
– E infine, ricollegandomi a quanto appena detto, non posso dare torto all’opinione du Lillo: Farfaglia già da allora come sport praticava le Vecchia Romagna
Ciò detto, mi preme aggiungere, cosa sfuggitami nel precedente post, che Palumbo ai miei tempi, se ricordate bene cari brattiroesi, veniva utilizzato anche dai “grandi” per giocare “e mbrija” (i birilli). Noi ragazzi ci arrabbiavamo tantissimo con loro e spesso era una guerra per contendersi il campetto. Questo per dire che Palumbo talvolta è stato un luogo di aggregazione anche per gli adulti e per i pensionati (da tanto tempo a Brattirò non giocano più “e mbrija”…si è persa anche questa tradizione).
Un’altra cosa che ci tengo a dire, per completare l’amarcord su Palumbo è che, se ricordate, il campetto fino ai primi anni ’90 era diverso da come lo avete visto nelle immagini che ho pubblicato. Allora non vi era la cabina dell’Enel, non vi erano le porte di ferro e neppure la rete laterale (vi era solo un reticolato dal lato “prof Nandino” e dei paletti pericolosissimi dal “lato Tassone” sui quali andavamo spesso a sbattere). Il terreno di gioco (chiamiamolo così) era inoltre ricoperto da “bricciu” e le cadute o le scivolate spesso provocavano escoriazioni sulle cosce e sulle ginocchia (tutti quelli della mia generazione, come ha ricordato Padula nel suo commento, “ndi sfracellammu a Palumbo”…io ancora sulle ginocchia ho le cicatrici delle escoriazioni rimediate sbattendo sui paletti laterali o provocate da una caduta sul “bricciu”).
Come, inoltre, dimenticare il mitico tir di Gustinu, una sorta di monumento in movimento che era sempre parcheggiato a Palumbo (spesso la palla finiva sul tir e dovevamo “arrampicarci” per andarla a prendere). E ancora, dalla parte “ex market”, vi erano delle altalene ed uno scivolo (proprio dentro il perimetro di gioco). Alcuni, palla al piede, si defilavano verso lo scivolo e con l’aiuto di esso, dribblavano, in modo bizzarro e a dir poco irregolare, gli avversari, per poi magari andare a sbattere contro le altalene, anch’esse a dir poco insidiose.
Tra i tanti spettatori delle nostre partite ricordo, infine, Michele di Delia, il quale spesso si gustava le nostre partite seduto su un ceppo e raccoglieva la palla quando usciva fuori e andava a finire nel suo appezzamento. A tal proposito, un’altra cosa che mi viene in mente, è il rovo (si proprio così) dal “lato pineta” (dove oggi ci sono, appunto, i pini). Pensate, giocavamo col supersantos, un pallone di gomma, di colore rosso e di pessima qualità che costava (ricordo) 3 mila lire e che, a causa degli aculei del rovo, si bucava facilmente. Quando lo foravamo sulle spine correvamo subito a raccoglierlo, prima che l’aria lo svuotasse del tutto. Poi prendevamo un coltello, lo scaldavamo con una fiammella e riparavamo il foro “spargendo” la gomma su di esso. Dopo la riparazione andavamo da Angiuleu, il quale aveva un compressore, e rigonfiavamo il pallone che tornava come nuovo (nzomma!). Solo negli anni successivi, credo da metà anni novanta in poi, siamo riusciti a giocare assiduamente con un pallone di cuoio. Ma si bucava lo stesso, anche se con minore frequenza. Giocavamo così a lungo con lo stesso pallone di cuoio che si strappava a causa degli innumerevoli calci che subiva. Alla fine diventava “na barritta” e, dopo vari tentativi di aggiustarlo, ci dovevamo rassegnare e, con rammarico, deporlo nel bidone dell’immondizia.
Che dire. Bei tempi. Bei ricordi.
Ad alcuni può sembrare che io, nonostante abbia appena 31 anni, sia un nostalgico.Invece, non mi considero un nostalgico e non ho neppure rimpianti. Oggi, come ieri, mi sento comunque appagato. Sognavo allora e sogno oggi; conoscendomi penso che continuerò a sognare diventando più maturo ed anche invecchiando.
Allora, da fanciullo, mi rendevano felici determinate cose, oggi altre. Non provo nostalgia ricordando quei tempi, ma una piacevole emozione.
Parafrasando, anzi, prendendo spunto da una famosa frase tratta dal film Radiofreccia di Ligabue, direi che tempi come quelli non ci saranno mai più…ma non è detto che non ce ne saranno altri ugualmente belli ma in maniera diversa.
MarioVallone
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