«La verità è che i luoghi esigono fedeltà assoluta come animali gelosi: se li abbandoni, prima o poi si fanno vivi per ricattarti con la storia segreta che ti lega a loro; se li tradisci, la liberano nel vento, sicuri che ti raggiungerà anche in capo al mondo». È in questa frase, contenuta in ultima di copertina, che si racchiude, forse, tutto il senso de “La collina del vento”, ultima fatica letteraria di Carmine Abate, “Premio Campiello” 2012, presentata in un reading letterario venerdì scorso a Soriano, nell’ambito del “Tropea Festival Leggere & scrivere”. Considerato da “Panorama” tra i 10 libri più belli del 2012 (con la copertina più bella, secondo il sito ibuc), e giunto all’ottava edizione, con 7 settimane di permanenza al primo posto dei libri più letti, il romanzo di Abate è una sorta di metafora in cui la collina del vento, che altro non è che la collina del “Rossarco” a Carfizzi – paese natale dell’autore – «rappresenta la Calabria, – ha spiegato lo stesso – con tutte le sue bellezze e le sue ferite, da difendere con forza, proprio come fa la famiglia Arcuri con la sua collina, preservata da ogni contesto – il latifondismo, la malavita che vuole costruirvi un villaggio turistico, sino ad arrivare ai moderni costruttori di pale eoliche – che negli anni mira alla sua distruzione esclusivamente per l’arricchimento umano, distruzione che inevitabilmente porta con se quella della memoria». L’opera è nata da una duplice forza ispiratrice: un’immagine ed una promessa. L’immagine è quella della collina, che Abate vede da casa sua e descrive come «meravigliosa, tutta ricoperta da fiori rossi nel cuore della Magna Grecia, e sulla quale ho sempre immaginato si trovassero i resti dell’antica città di Krimisa». La promessa è quella fatta al padre nell’ultimo anno della sua vita, ossia di raccontare tutte le storie che egli gli aveva raccontato a sua volta, storie, anche le più dure, di guerra ed emigrazione, che avevano riguardato i suoi avi. In essa si alternano fatti e personaggi di fantasia e reali, come ad esempio «gli archeologi Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco, che mi hanno affascinato perché, pur se non calabresi, guardavano la Calabria scevri da pregiudizi, riuscendo a coglierne tutti gli aspetti positivi». Una Calabria a cui Abate ha guardato con gli stessi occhi, narrandola con quell’attaccamento di chi, pur vivendo in Trentino, ha le sue radici maggiori in un sud che ama. A fare gli onori di casa nella mattinata culturale sorianese, il sindaco Francesco Bartone, – definito dall’autore «un uomo che ha la giusta sensibilità per amministrare, con il suo amore per l’arte e la cultura» – che ha parlato dell’importanza del festival tropeano, unico letterario rimasto in Calabria, su cui ha argomentato anche Gilberto Floriani, direttore del sistema bibliotecario vibonese, capofila del progetto triennale realizzato con fondi europei, mentre, Merilia Ciconte, direttrice del Mumar e coordinatrice degli eventi sorianesi, ha spiegato il premio Calabria – Wolfsburg – rientrante nel medesimo festival – che in primavera vedrà 5 autori calabresi – tra i quali Teti e Minervino – proporre la nostra cultura alla Germania. Indi, il momento tanto atteso del reading, tutto intriso di sud, nel quale, intervallato dalle ammalianti note della chitarra battente di Cataldo Perri, che ha interpretato alcuni suoi commuoventi brani legati al tema del libro, Carmine Abate ha dato lettura di alcuni stralci del volume, calamitando l’attenzione dei presenti e suscitando il dibattito finale in cui i ragazzi dello scientifico hanno posto alcune interessanti domande, chiarite da Abate in modo chiaro e “calabresemente” fiero, come di colui che «è andato via fisicamente dalla Calabria – ha chiosato Cataldo Perri – ma ha l’animo pregno dell’amore verso questa terra».
Valerio Colaci
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