PUBBLICHIAMO L’ENNESIMO EXTRACT DEL LIBRO DI PASQUALE VALLONE “BRATTIRO’ E LA SUA STORIA. ANEDDOTI, FATTI, MISFATTI” (ORMAI U STAMU PUBBLICNADU TUTTU), VOLUME USCITO POCHE SETTIMANE FA EDITO DALLA NOSTRA AGENZIA THOTH (www.thoth.it). STAVOLTA ESTRAPOLIAMO UNO DEI PARAGRAFI PIU’ INTERESSANTI E DOCUMENTATI: QUELLO SULLA STORIA DELLA CHIESA MATRICE DEL PAESE. MOLTI BRATTIROESI SICURAMENTE NON CONOSCONO LE CIRCOSTANZE IN CUI FU COSTRUITA E L’ENORME IMPEGNO E SACRIFICIO DELLA POPOLAZIONE PER EDIFICARLA.
CHE QUESTA STORIA SIA DA SPRONE (E NON SOLO PER I BRATTIROESI) AFFINCHE’ VENGA RECUPERATA E MAI DISPERSA QUELLA VOGLIA DI DARSI DA FARE PER PRESERVARE E PROTEGGERE I LUOGHI PIU’ SIGNIFICATIVI ED I MONUMENTI DELLA NOSTRA TRADIZIONE CULTURALE E RELIGIOSA.
MarioVallone
23-LA CHIESA MATRICE
Dopo l’unità d’Italia, la popolazione di Brattirò raddoppiò arrivando a circa millecento abitanti.
Nel 1860, morì il parroco don Gregorio Rombolà e gli successe don Carmelo Maccarone, un prete giovane, intelligente, di larghe vedute, di grande amore e pietà cristiana. Si integrò bene e subito con i parrocchiani, prese l’iniziativa di costruire una chiesa e qui carpì l’orgoglio brattiroese, un paese povero ma unito in uno spirito di intraprendenza e di sentimenti cristiani. Il paese era senza risorse, la gente era povera ma aveva coraggio e spirito di iniziativa nell’intraprendere una azione e sapeva sfruttare ogni occasione propizia; quando ci fu uno che prese l’iniziativa, la povera gente rispose con entusiasmo e con orgoglio. Con queste doti si superarono gli ostacoli della miseria.
Secondo i libri parrocchiali, il terreno per la costruzione della chiesa fu ceduto dai discendenti di Nicola Adamo che abbiamo ricordato in altre occasioni. Costui fu chiamato il Magnifico perché era agiato, e tale agiatezza consisteva nel fatto che era un piccolo proprietario e aveva i mezzi per lavorare la terra (buoi, zappe, aratro…) e perché era magnanimo, aveva grandezza d’animo, generosità e sentimenti cristiani.
I brattiroesi, di proprio, misero le braccia e un grande cuore. Il parroco don Carmelo Maccarone contattò l’architetto Giuseppe Gangemi di Seminara, noto nella nostra Regione e nel nostro territorio come costruttore di chiese. Ci fu un incontro, o meglio una assemblea, con i brattiroesi, ma non c’erano fondi e irrisoria fu la raccolta di soldi fatta dal parroco tra i cittadini, fondi che non bastavano nemmeno per l’onorario dell’architetto. Ma la volontà di costruire la chiesa da parte dei brattiroesi non diminuì.
L’architetto Gangemi cercò di scoraggiarne la costruzione e, considerata l’insistenza dei brattiroesi, progettò la pianta strutturale della chiesa il doppio della grandezza della vecchia chiesa, e tracciò le fondamenta per quella che lui riteneva fosse la massima possibilità che un piccolo paese come Brattirò potesse esprimere.
La popolazione dimostrò un certo disappunto ritenendola troppo piccola, e allora Gangemi disegnò e prospettò le fondamenta di un edificio sei volte più grande, convinto e sicuro che tale impresa fosse ben presto abbandonata: non conosceva il carattere e la determinazione dei Brattiroesi.
Costoro, guidati dal parroco don Carmelo Maccarone, fecero una assemblea cui parteciparono tutti gli abitanti del paese: uomini, donne, vecchi e bambini. Stabilirono le regole per la costruzione di quella chiesa che era nella volontà di tutti e che aveva le caratteristiche di una vera impresa.
La prima regola fu che tutti i brattiroesi, dai sei anni in su, si prestassero per almeno cinque giornate lavorative al mese e questa regola era ferrea; infatti chi era impedito, per qualsiasi motivo, anche grave e serio come poteva essere una malattia, doveva provvedere a farsi sostituire in questo lavoro da un familiare o da un amico che desse le prestazioni spettanti.
Furono individuati i migliori artigiani di Brattirò, soprattutto muratori e falegnami, e furono messi a capo dei vari settori. Si procedette allo scavo delle fondazioni, all’estrazione della pietra e del tufo dalle cave, alla trasformazione del tufo in calce, al trasporto della sabbia e dell’acqua, al reperimento della legna. Subito arrivarono le prime difficoltà. Furono scavate le fondazioni seguendo le indicazioni dell’architetto Gangemi, ma il terreno sabbioso e friabile era molto instabile e allora si dovette provvedere al consolidamento scavando fondazioni molto più larghe e profonde riempiendole con pietre “vive”, cioè pietre di granito , dure, recuperate in gran parte dalla vicina fiumara della “ Ruffa”, e ciò comportò tempi più lunghi e un immane lavoro aggiuntivo perché le pietre venivano trasportate non sempre coi carri tirati da buoi, ma per lunghi tratti a dorso di mulo o di asino o…umano.
Riferiamo un racconto fatto, negli anni cinquanta, da Rombolà Giuseppe.
“Mammama mi cuntava ca pimmu portanu i petri vivi da jumara a cresia, ogni matina quando ancora era scuru, tutti i fimmini du paisi, randi e ninni, comun u serpenti longu longu, scindianu ‘nte viola, finu’nta jumara, undi u jornu prima l’omini avianu ammunzeatu i petri, si mentianu a curuna ‘ntesta e, cu nu scoggiu ninnu, e cu randi, u ‘ncianavanu ‘nte pedamenti da cresia. Sta viatica subba e sutta, durò du ‘mbernu fin’ a tutta a stati”.
Le donne di Brattirò, anche in questa occasione, hanno dato dimostrazione di grande sacrificio e tenacia pur di raggiungere l’obiettivo, meritandosi il rispetto e l’ammirazione del Gangemi, infatti dallo stesso racconto: “ ..u lavuru caminava, sulu quando ciovia forti si dassava jiri, sinnò non sartava jornu senza u si lavurava a tutta forza e puru l’architettu Gangemi era storciutu; di brattiroisi dicia ca genti cusì non ‘ndavia mai vistu, tant’è veru ca era sempri o paisi, puru quando lavurava ‘nte paisi vicini si ricoggia undi abbati Maccarruni undi avia piggiatu amicizia cu diu e cu vinu e dicia ch’era bonu comu i brattiroisi”.
Sempre dal racconto, si conosce l’esistenza di una grande cripta costruita sotto il pavimento della chiesa con funzione di fossa cimiteriale.
“ ..nto menzu da cresia vinni scavata ‘na fossa randi randi, tutti i mura furu fatti di scoggi i petra viva nommu si ‘mpurri e pi ciusura ‘na lastra i petra viva chi pimmu l’isanu ‘nci volianu sei omini; a fossa era bella randi pimmu po’ durari anni e anni, nommu succedia comu a cresia veccia ca i morti avianu u si carcanu cu nu lignu ca no’ndi capia ‘cciù”.
Finita la fase di consolidamento delle fondamenta, si passò alla costruzione dei muri, e subito ci si accorse che la calce prodotta in loco non era sufficiente a soddisfare i bisogni, così ci fu la necessità di aprire nuove fornaci (carcare), per produrne di più, in località Giorgi.
Sempre dal racconto, appare molto chiaro il quadro di approvvigionamento di tutto il materiale necessario, e lo si riporta nel dialetto per non perdere il senso del problema.
“..Quandu si cuminciò a fabbricari chiu chi mancava sempi era a cavuci. A carcara i Giorgi non riuscia pimmu servi mancu i menzi masci; allura si penzò pimmu si fannu carcari novi. A’cciù grandi si fici a Pujia ‘nte terri di Peppi i ‘Ntoni i Matalena; ‘nci fu l’accordu di dudici tumina i ranu l’annu e Peppi mancu i vozi picchì ‘ndi dassò sempi a cresia. A petra morta pi mura si scippava ‘nto scaru sutta Caria picchì era a ‘cciù dura. Tutti i jorna cu cavava petri ‘nto scaru, cu facia e carriava ligna pi carcari, cu trovava i travi pimmu si curavanu, pimmu si facia l’anditu du tettu. Era nu via vai di genti chi cantava, jistimava, pregava e lavurava jettandu u sangu, ma vidivi genti cuntenta di chiu chi facia”.
In meno di due anni, la chiesa era completata, mancavano solo le tegole; queste si rivelarono costose, fuori dalla portata delle finanze dei brattiroesi. Si riuscì a trovarle a buon prezzo a Ceramida, vicino Bagnara, e con i carri furono trasportati al paese. “…Doppu tantu girari i ceramiti furu trovati vicinu a Bagnara. I Brattiroisi ‘mpaiarunu i carri e si carriaru ammanu ammanu o paisi, cusì a cresia si finiu. U previti volia pimmu a cunsacra pi Pasca ma eppi u s’anticipa pi frivaru ca non c’era ‘cciù posti mu s’atterranu i morti”.
La chiesa fu consacrata nel febbraio 1867.
Il terremoto del 1905 procurò solo qualche debole lesione al campanile. Poi ci fu quello del 1908, ancora più devastante, che distrusse Messina e fece danni e vittime anche nel nostro comprensorio. Fu lesionato il campanile e ci fu un crollo parziale del tetto, ma le mura principali ressero, mentre nei paesi vicini molte chiese crollarono.
Don Ferdinando Rombolà, parroco di Brattirò dal 1902 al 1936, infervorò i parrocchiani con sermoni usciti dal cuore e dettati dall’amore che nutriva per la chiesa, e chiese a tutti un nuovo, grande, sforzo. La risposta non mancò anche perché le condizioni economiche, pur non essendo floride, certamente erano migliori anche per le rimesse degli emigranti.
Intanto il Governo aveva elargito un piccolo contributo ai paesi terremotati e pure il parroco, don Ferdinando, attinse al suo patrimonio personale, senza risparmio, per la ristrutturazione della chiesa.
Fu chiamato l’architetto decoratore Francesco Gangemi, di Seminara, figlio di Giuseppe, quello che aveva costruito la chiesa. All’inizio del 1909, l’architetto Francesco Gangemi, sposato da poco, si trasferì a Brattirò. Nel nostro paese vi rimase per quattro anni, il tempo di finire i lavori progettati. E a Brattirò, in questo frangente, nacquero i suoi due figli.
Per poter fare i lavori di completamento della chiesa, questa fu divisa da un separè fatto con balle di iuta scucite e ricucite a mo’ di tenda di modo che, poste su una impalcatura di legno, dividevano la navata della chiesa in due ambienti. Nella parte superiore, dove c’era l’altare, si lavorava e, nella parte inferiore, si svolgevano le funzioni religiose. La sera, finito il rito religioso, il parroco don Ferdinando prendeva il Santissimo Sacramento e le ostie e, accompagnato da una schiera di devoti, li portava nella sua casa.
Il parroco abitava con la sorella Caterina nella piazza principale del paese (Piazza Cesare Battisti ), distante dalla chiesa meno di 200 metri. La mattina venivano riportati in chiesa, e si ripeteva la “ processione”. Questo andirivieni giornaliero si protrasse per tutto il tempo dei lavori, cioè circa quattro anni.
I lavori, ripresi dopo il terremoto, consistettero nella demolizione di quel che restava del tetto e del campanile, lasciando solo i muri portanti. Furono innalzate delle colonne per il supporto della cupola e furono scavate fondazioni contigue per reggere meglio il peso del ricostruendo altare maggiore. Vennero, quindi, innalzati i muri per una distanza di circa cinque metri oltre quelli esistenti, e servirono di appoggio per le capriate del nuovo tetto.
La capriata è una struttura portante verticale per coperture a falde, posta ad intervalli a seconda delle dimensioni delle luci da coprire. E’ formata da un triangolo costituito da due travi inclinate, su cui poggia l’armatura del tetto, incastrate in basso a una trave orizzontale detta catena o tirante, e unite al vertice da una trave verticale, detta monaco o ometto, congiunta, a sua volta, alla catena.
Il tetto fu coperto da tegole nuove e innovative per l’epoca, dette marsigliesi, che vennero fatte, su ordinazione, nella nuova fabbrica di Tropea che era stata da poco inaugurata, e in quella stessa fabbrica furono fatte le piastrelle di cemento marmorizzato di colore grigio e rosso mattone, che formarono il bellissimo pavimento.
Poi si passò a costruire il soffitto fatto con un intreccio di canne e rete metallica in ferro e il tutto riempito con gesso per uno spessore di circa trenta centimetri. All’apice della volta, nella parte centrale, furono costruiti quattro archi portanti poggiati sulle quattro colonne di nuova costruzione, creando un concatenamento centrale e quindi un notevole consolidamento, il tutto sormontato da una cupola costruita con la stessa tecnica della volta, ossia intrecciando canne e rete metallica e riempiendo, con gesso, per uno spessore di circa venti centimetri.
A questo punto della costruzione, il Gangemi fece venire artigiani specializzati in stucchi e affreschi, e così ebbe inizio la fase ornamentale e le pareti furono affrescate. Si pensò poi di costruire una scalinata, in granito, di accesso alla chiesa e un portone imponente di castagno, opera di artigiani brattiroesi.
Don Ferdinando, poi, volle la costruzione di una struttura sopraelevata, all’interno, proprio all’entrata della chiesa, poggiante su due colonne, lunga quanto la navata e larga circa due metri, e sopra vi fece installare un bellissimo organo. Questo organo lo fece portare da Napoli, dove egli aveva esercitato il suo ministero sacerdotale ed era stato cappellano reale. Vi si accedeva salendo da una scala, fissa, di legno, appositamente costruita.
All’interno della navata, appena oltre la porta d’ingresso, a sinistra, fu posta una bellissima e pregiata fonte battesimale marmorea opera di pregevole fattura.
La nuova chiesa fu inaugurata nel mese di settembre del 1912 con una solenne festa e, ovviamente, con la presenza del Vescovo. Il Vescovo rimase colpito dalle bellezze armoniose della chiesa, considerato anche che si trattava di una chiesa di un piccolo paese e dalla devozione dei brattiroesi; durante l’omelia annunciò che avrebbe regalato un lampadario per completare quel capolavoro.
La chiesa è stata consacrata a San Pietro Apostolo che, pertanto, è il patrono di Brattirò.
In questa chiesa si conservano: una statua della Madonna Immacolata del 1804, una statua di Sant’Anna del 1790, tutte e due opera di Domenico Deporsi, di Dinami. Poi c’è una statua di San Nicola del XIX secolo e una statua di Santa Lucia, pure del XIX secolo.
Il 28 gennaio 1934 fu costituito un comitato di capi famiglia: il “Comitato pro – Chiesa”. L’attività era regolata da uno Statuto riconosciuto e vidimato dal parroco don Ferdinando Rombolà. Lo scopo era di completare, abellire e arredare la chiesa.
Non calcolando il gratuito lavoro dei cittadini, furono spesi, solo per riparare i danni provocati dal terremoto del 1908, 15.000 lire, una cifra considerevole per quei tempi.
La navata laterale, che chiamiamo “oratorio”, dedicata ai SS Medici Cosma e Damiano, fu costruita successivamente, nel 1936.
Pasquale Vallone
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