27/03/12. Incastonata nel tufo e, all’interno, totalmente ricavata da esso, la Chiesetta di Piedigrotta (Pizzo), rinnova di anno in anno il patto fatto con il vicinissimo mare e con la spiaggia dei Prangi. Qui, narra la leggenda, pescatori napoletani devoti al culto di Santa Maria di Piedigrotta l’avrebbero eretta come ex voto nel XII secolo a seguito di uno scampato naufragio e qui, questo è certo, le abili maestranze (locali? Partenopee?) e quelle della famiglia Barone (Angelo, Alfonso e, successivamente, Giorgio) diedero vita ad un luogo di culto unico nel suo genere. A partire dai materiali impiegati. Nei progetti dell’architetto giapponese Kengo Kuma, che afferma che l’architettura sia “natura”, le strutture sembrano dissolversi nei paesaggi in cui sono inseriti. Dando uno sguardo anche rapido alla facciata di Piedigrotta si può comprendere che, molto più vicino a noi, lo stesso accade, in maniera forse non intenzionale ma legata piuttosto a necessità geologiche, all’importante luogo di culto. E’ ancora lo studioso fiorentino Ilario Principe (già docente Unical) a sostenere nel suo “Dieci lezioni per una storia dell’Architettura”, che ogni buon edificio, per dirsi tale, debba essere costruito con materiali del posto. A questo imperativo hanno risposto per esempio i grandi conci di pietra locale impiegati negli edifici romanici dell’Italia centro-settentrionale e, facendo un poderoso salto indietro, perfino i blocchi usati per la costruzione delle Piramidi. Neppure la Chiesa di Piedigrotta vi si è sottratta ma, chi vi ha lavorato, ha fatto di più. Le numerose sculture dell’interno, infatti, sono anch’esse totalmente ricavate dal tufo e neppure l’avanzare del degrado e l’azione dell’umidità e della salsedine ne hanno sfiorito del tutto la straordinaria espressività e la ricchezza di simboli e riferimenti. Vasta è infatti l’iconografia, sia quella riferita alle sculture di santi che quelle profana.
Per quanto riguarda quest’ ultima, interessante è il gruppo (recente rispetto al resto) che comprende il dittatore cubano Fidel Castro posto a poca distanza da due grandi medaglioni in cui il profilo di John Fitzgerald Kennedy e quello di Papa Giovanni XXIII si trovano l’un di fronte all’altro, quasi a voler sottolineare un tacito, forse auspicato, colloquio tra le due potenze di cui le due personalità, ognuno nel suo ruolo, si sono fatti portavoce. Di tutto rispetto anche i riferimenti prettamente religiosi, e in alcuni casi strettamente connessi alla tradizione napitina. Alla luce di quest’ultimo dato va letta la presenza di San Giorgio (patrono di Pizzo) a cavallo e, spaziando, bisogna affiancarvi quella di Bernadette, dell’Angelo della Morte sulla navata opposta o quelle delle figure che sorreggono in composizioni suggestive le acquasantiere dell’ingresso. Ma solo per citarne alcune. Simboli più o meno nascosti e riferimenti alla Cristianità, arricchiscono poi un repertorio già di per sé vasto.
In questo senso va letta la grande conchiglia che è possibile scorgere al di sotto del Presepe a sinistra dell’altare maggiore, chiaro riferimento al simbolo che a partire dall’XI secolo e per molti secoli successivi, compresi quelli più recenti, ha accompagnato i pellegrinaggi che da Santiago De Compostela (Spagna), si sono diffusi per tutto il mondo. A suffragio di questa tesi del tutto personale, bisogna richiamare le rappresentazioni di San Giacomo il Maggiore (sempre ornato da una conchiglia o da conchiglie, suo attributo) e la definizione che nel Vangelo gli viene data di “Figlio del tuono”. Proprio come dovevano sentirsi, se vero, i marinai scampati al naufragio che, sempre per tangibile atto devozionale (così i pellegrini) avrebbero edificato un primo simulacro della chiesetta, poi arricchito dalla competenza e dai riferimenti dotti dei Barone.
Ancora motivata è la rappresentazione di una carpa (molto più grande del normale) che si incontra all’inizio della navata ovest e, se strana può apparire la presenza di tale animale all’interno di una raffigurazione di santi, bisogna richiamare ancora una volta la ricca simbologia della Cristianità e, in particolare, il nesso diretto che questa volta si ha con la figura di Cristo. “Iktùs” in greco è infatti il pesce, ma la parola è, allo stesso tempo, acronimo di “Iesus Cristòs Teos Uiòs Sotér” che in greco significa, appunto, “Gesù Cristo Salvatore Figlio di Dio”. E proprio il pesce, per tale ragione, è stato il primo simbolo utilizzato, ancor prima della croce, dai cristiani, e forse anche uno dei primi ad essere stati scolpito nel XVII secolo nella Chiesa di Piedigrotta. In quest’ultima, infatti, non vi è alcuna immagine di Gesù crocifisso, come una tradizione ormai consolidata vuole, quasi a ribadire una religiosità riservata, più simbolica che manifesta, appunto. Molta importanza assume anche la luce, che fa assumere ai vani interni, come sottolineato dallo scrittore e poeta napitino David Donato nella prefazione del volume fotografico di Vincenzo Bartucca, le più “svariate e suggestive tonalità” grazie all’infrangersi dei raggi sulla pietra e all’ambiente raccolto ma ben collegato tra un vano e l’altro. Si comprende bene, allora, di quale gioiello sia la Chiesa di Piedigrotta, spesso troppo frettolosamente liquidata con la sua sola vicinanza con il mare e con gli affreschi quasi completamente andati perduti a causa dell’umidità. Dato che, tuttavia, è tristemente vero, e dunque impossibile sarà consegnare alla memoria dei posteri le rappresentazioni delle imbarcazioni spostate dalla furia delle onde (che confermerebbero la tesi dei marinai scampati al naufragio) o l’immagine di quello che sembrava essere San Domenico che regge gli oggetti tipicamente attribuiti al santo, ovvero il libro ed il bastone consegnatigli rispettivamente dagli apostoli Pietro e Paolo.
E’ ancora possibile scorgere tra il poco che rimane degli affreschi pigmenti vivi nei toni del giallo e del turchese mentre quasi per perso bisogna dare il quadro della Madonna dell’altare maggiore, lo stesso che i fondatori dell’edificio avrebbero posto a devozione di Santa Maria di Piedigrotta e a protezione del luogo di culto. Restaurato recentemente presso il laboratorio di Restauro di Cosenza, è stato oggetto di quella che il luminare e capostipite del settore Cesare Brandi non ha esitato a definire “falsificazione”: completamente cambiato nelle sue parti essenziali, nella cromìa e perfino nelle raffigurazioni (due angeli prima inesistenti fanno adesso capolino in secondo piano a destra e a sinistra della Madonna), più che restaurato sembra essere stato ridipinto.
Anche del suggestivo altare edificato negli anni ’50 che richiamava i materiali utilizzati e in cui spiccava la bellezza originaria della tela, implementato nell’edificio grazie all’abile mano di Annunziato Staropoli ed aiuti, non rimane nulla, dato che è stato distrutto per essere sostituito dall’attuale piedistallo in vetro. Lo stesso è accaduto alle panche originarie tufacee, completamente distrutte e rimpiazzate da moderne panche in legno, sparite anch’esse. Tuttavia, la Chiesa di Piedigrotta rimane tuttora un momento imprescindibile della storia dell’arte. Napitina, calabrese, e non solo. Da visitare o, meglio, ammirare.
SERVIZIO A CURA di Zaira Bartucca – storico dell’arte e scrittrice
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