23/03/12. Ci sono circostanze per prevedere ciò che sarà tali da fare scuola ai Maia. E non bisogna nemmeno andare in centro America. Basta guardare dietro casa per scrutare realtà che rappresentano la sfera di cristallo che anticipa il futuro che spetta a tanti piccoli centri, in balia ad inesorabili dinamiche indirizzate all’estinzione.
Tale è Limpidi, piccola frazione di Acquaro, perfetta metafora di ciò che i tempi attuali, senza una concreta volontà di chi è impegnato ad indirizzarli, difficilmente possono arginare. Fino a qualche decennio fa a Limpidi, 200 anime scarse (ma ci fu un tempo in cui erano 1000 in più), c’erano le scuole dell’obbligo, il medico condotto in pianta stabile, una delegazione comunale, le poste. Servizi che, uno alla volta, negli anni, sono stati tutti soppressi. Colpa dello spopolamento, che ne rende antieconomico il mantenimento per poca utenza.
Tuttavia, quando a mancare cominciano ad essere le tradizioni, quelle secolari, attorno a cui tutta una comunità si raccoglie e s’identifica, quando accade ciò allora, forse, vuol dire che si è giunti ad un punto di non ritorno perché le tradizioni sono le radici di una comunità e senza radici non si vive a lungo. È il caso de “u cumbitu” (conviviale) di San Giuseppe, manifestazione che si svolge un po’ ovunque il 19 marzo e che a Limpidi risale alla notte dei tempi.
Il tutto iniziava 4/5 giorni prima con l’acquisto degli ingredienti per il pranzo, maccheroni al sugo a base di stoccafisso, ceci e broccoli, cucinati in un calderone da alcune delle famiglie più povere che, per voto e devozione verso la sacra famiglia, si privavano delle poche risorse a disposizione. Sera del 18 era obbligo, per coloro che realizzavano “u cumbitu”, recarsi in chiesa e confessarsi.
Tornati a casa, si poteva mangiare solo fino a mezzanotte, dopodiché digiuno assoluto sino alla comunione della mattina successiva. Il giorno di San Giuseppe, a mezzogiorno, il parroco passava per benedire il cibo e la casa dove era stato cucinato. Il rituale prevedeva che la famiglia che preparava scegliesse tre componenti della comunità, per amicizia o perché particolarmente meritevoli, i quali dovevano rappresentare la sacra famiglia.
Questa si sedeva attorno ad un tavolo addobbato con ciò che di meglio si aveva ed i componenti dovevano solo assaggiare il cibo (che poi avrebbero consumato a casa loro), mentre tutti gli altri s’inginocchiavano attorno a mani giunte. Successivamente, ultimo momento della manifestazione, iniziava la distribuzione del pasto (a “devuziuani”), casa per casa, ai meno abbienti del paese ed ai mendicanti che vi si recavano apposta dai centri vicini.
Tale “rito”, con i dovuti adattamenti, ha attraversato i secoli ed è stato portato fino ai giorni nostri. Quest’anno, però, com’era accaduto per i servizi, anche “u cumbitu” ha dovuto fare i conti con lo spopolamento che, privando la frazione di forza giovane, ne ha determinato la fine. Una fine che dovrebbe essere da monito a chi, ad ogni livello, può e deve fare qualcosa per invertire la rotta. Perché Limpidi, lo si ribadisce, è lo specchio da cui scrutare il destino di tanti piccoli centri. Un destino che, volendolo, si può ancora riscrivere.
Valerio Colaci
Calabria Ora 20 marzo 2012