29/02/12. Il prof. Pasquale De Luca, amico e collaboratore della nostra redazione, ci ha inviato le due relazioni che ha esposto in occasione delle presentazioni dell’ultimo libro di Lino Daniele L’INTELLETTUALE DISOCCUPATO (il 23 novembre a Vibo Valentia ed il 16 febbraio a Tropea). Vi proponiamo questi interventi integralmente qui di seguito.
“Carissimi amici, sono contento di essere qui con voi stasera, nella sede della CGIL, dove solitamente si parla di problemi, di contratti, di lavoro, per parlare anche io di lavoro. Di un altro tipo di lavoro: lavoro intellettuale. Anche questo è lavoro.
Vi ringrazio per l’ospitalità, e devo dire di essere contento che questa casa, “la casa del lavoro”, ha aperto le sue porte alla cultura, e alla discussione culturale. Anche la cultura ha bisogno di essere curata e difesa.
Ringrazio l’amico Michele che mi ha voluto accanto a sé, che ha insistito a parlare del suo libro, a illustrare il suo libro. Lo ringrazio per l’amicizia, per la stima, per la fiducia.
È la seconda volta che lo faccio. Ed è la seconda volta che ciò avviene in un confronto con il preside Pasquale D’Agostino. La prima volta ad Arena, paese natale di Lino Daniele, in una torrida giornata d’estate, con il fuoco sull’autostrada, oggi qui in questo piacevole pomeriggio d’autunno.
Lino Daniele lo conosco da lunga data, come persona, come docente, come scrittore. Come amico. Ciò non mi impedisce di parlare del suo libro in piena libertà. Lui apprezzerà.
Lino Daniele, è bene dirlo subito, è uomo passionale. Serio e passionale. Ed è la stessa serietà e passionalità che noi troviamo nelle sue opere, una passionalità che a volte sembra sfociare nell’animosità. Una animosità dovuta ad una sofferenza interiore, che vorrebbe sviluppare in civile lotta, e che egli riversa nelle sue opere. In tutte le sue opere: nel Figlio ribelle, ne’ L’ultimo contadino di Bugurna, ne’ L’intellettuale disoccupato.
È mio costume, prima di leggere un libro, guardarlo, prenderlo in mano, osservarlo, coccolarlo. Studiarlo da lontano, in un approccio tutto mio e personale, che mi permette di vederne “l’aspetto fisico” per poi passare all’intimità dei contenuti, all’anima dell’opera, che mi fa capire il recondito pensiero dell’autore; l’autore stesso che nella sua opera si nasconde, o inconsapevolmente, per suo danno, si rivela. Ed è stata proprio questa mia buona, o cattiva, abitudine che mi ha bloccato per tempo, tanto tempo, non molto tempo però, sulla copertina. Sulla copertina? Sì, sulla copertina. Vi dirò.
La copertina. La copertina è davvero indovinata. Essa, che riproduce un famoso dipinto di René Magritte, La Reproduction interdite, del 1937, è simbolo e sintesi di tutto il romanzo. Sì, del romanzo. Perché il libro di cui parliamo stasera è un romanzo. È un romanzo storico-politico-sociale, ma, soprattutto, è un romanzo psicologico. E in quanto tale la copertina dà segno e significato a quanto in esso detto. Essa ci propone un uomo, si indovina un giovane uomo, che si specchia allo specchio, in uno specchio che però non riflette la sua immagine. È un uomo visto di spalle, e così rimane. Ciò è molto sintomatico e significativo, perché, se vogliamo, riproduce l’essenza di una drammatica vicenda esistenziale interiore e personale vissuta dal protagonista del racconto. Può significare il presente, un presente a cui il protagonista del libro, Gerolamo Vartuli, che sente il peso e l’importanza di questo nome, volta le spalle, o meglio, vorrebbe voltare le spalle per andare verso un futuro migliore, diverso. L’uomo in copertina, figlio di un passato che proditoriamente ritorna e non muore, non ha una faccia, non ha identità. È senza identità, egli cerca una sua identità. La cerca, come il protagonista del libro, anche lui vuole avere un proprio nome, anche lui vuole costruirsi una propria identità. Vive nel presente, con un aggancio nel passato, che lo avviluppa e lo costringe. In ciò vediamo lo sdoppiamento dell’uomo di copertina, anticipo di un più drammatico sdoppiamento vissuto dal protagonista del romanzo, che giunge addirittura ad odiare il suo stesso nome.
Ma andiamo con ordine: il protagonista.
Il protagonista è ben costruito dall’autore, che rigorosamente lo definisce nei suoi contorni interiori, nell’intimo della sua personalità fortemente combattuta fra un “vecchio io” e un “nuovo io” che vorrebbe imporsi, ma che trova ostacoli grossi come macigni. Lui, il protagonista, è prigioniero di un nome. Del suo nome, Vartuli, un nome potente, un nome di lotta. È prigioniero della sua famiglia, padre, madre, fratello, sorelle, e soprattutto del nonno. Del nonno paterno. È prigioniero del paese, della piccola società del paese addormentata nella piccolezza della vita quotidiana. Ma, in modo particolare, ciò che è più grave, è prigioniero di sé, che, per quanti sforzi faccia, non riesce a farlo decollare nella forma nuova che egli vorrebbe. E si adagia, e accetta, e subisce. Quindi, in ultima battuta sarà sconfitto. Sconfitto, si badi bene, ma non vinto.
La narrazione. L’autore narra e racconta in prima persona, un “io” narrativo che porta l’autore, o il lettore, a vivere in modo personale le vicende da lui narrate come se fossero proprie, a immedesimarsi nel protagonista fino a considerarlo un “alter ego”, a parteggiare per lui, a soffrire con lui, per lui. In ciò, l’autore, ha fatto un’opera da vero maestro. Egli, che non è nuovo alla narrativa, ha costruito un personaggio scomponendolo nel suo intimo se stesso, ponendolo crudelmente su un tavolo autoptico in una sezionatura non asetticamente professionale, ma partecipe e sofferta. È un’operazione ben riuscita, tenendo conto che tutte le fasi del racconto sono molto circoscritte e limitate, sia a livello temporale, sia a livello ambientale. A livello temporale: l’azione si svolge in breve tempo, tre mesi circa, quanto dura una campagna elettorale; a livello ambientale: i fatti avvengono quasi sempre in paese, un piccolo paese di montagna, che si scuote dal torpore solo in momenti eccezionali, come può essere il momento delle elezioni. Le elezioni, che sono momento di lotta e di confronto, e che nel nostro caso sono occasione per rimescolare le carte e assumere potenza e nuovo prestigio. Ognuno lotta secondo un fine, secondo un ideale. Secondo il proprio interesse, o, in maniera un po’ ampliata, secondo l’interesse della propria famiglia, che poi nel contesto generale altro non è che il proprio interesse. E allora si determina una lotta di tutti contro tutti, dove alla fine tutti rimangono sconfitti. Dovrei approfondire questi aspetti, ma sarebbe un po’ lungo. Basti dire che l’autore ha saputo cogliere l’interiorità dell’animo umano, nelle sue piccolezze, nelle sue miserie, nelle sue passioni. Ed ha costruito personaggi veri, visti nella loro umanità. Personaggi che danno la giusta ed esatta visione di una società in cammino, con tanti, troppi, ostacoli sulla strada del nuovo, del rinnovamento, del progresso.
Dicevamo che la narrazione occupa tempi brevi, e questo è un fatto positivo perché in un brevissimo periodo temporale, da me individuato negli anni Settanta nella piena esplosione del Movimento Studentesco, quando davvero, con tanta illusione, pareva che i giovani sarebbero riusciti a portare il mondo in altra direzione, in tempo brevissimo si consuma un dramma interiore, intimamente sofferto, di un giovane emergente in un contesto familiare e sociale retrivo e conservatore. Un giovane pieno di forti ideali, con desiderio di rompere antichi pregiudizi, vecchi equilibri; un giovane, diciamolo subito, un giovane di sinistra che è combattuto dal suo ambiente, dalla sua famiglia, dai suoi compagni; un giovane che perde la sua identità perché, laureato, laureato col pieno dei voti, ed è disoccupato. Mi viene in mente una bella poesia di Eliot (poeta inglese): “I disoccupati”, nella quale, con eccezionale arte della parola, viene riportata, come in un quadro espressionista, la miseria morale che vivono i disoccupati, dimenticati da tutti, come se non esistessero. In inciso, anche oggi viviamo nella stessa condizione: ci si interessa di tutto e di tutti, ma dei disoccupati, chi si interessa o si ricorda dei disoccupati? Solo le statistiche, le statistiche, con numeri freddi e senza cuore. Ma il nostro giovane, quello del romanzo, un cuore, un’anima ce l’ha. E soffre, cerca di combattere, di far emergere le sue ragioni, le sue idee, ma viene fagocitato da un ambiente, e da un interesse maggiore che lo immergono in un muro di gomma nel quale piano piano viene assorbito pensando di ottenere un lavoro. E in questo percorso esistenziale è sconfitto. Sconfitto, non vinto.
Infatti, l’autore, che ben si rifà alla letteratura romantica e realistica, il Manzoni, il Verga in modo particolare, ci dà un romanzo d’azione. Un romanzo dove ognuno svolge la sua parte, ognuno è un tassello diverso dello stesso mosaico che alla fine è la sintesi di tutto il racconto. Ognuno ha un ruolo ben preciso in una dimensione umana, familiare, storica, politica e sociale ben delineata e descritta. Ognuno ha una propria strada da percorrere, ognuno ha un compito da svolgere, ognuno ha un fine da raggiungere. Tutti ci riescono alla perfezione. Merito dell’autore che ha scavato nell’animo umano, che ha fotografato un ambiente paesano in un periodo di transizione e di trasformazione economico e sociale.
E sì, perché, come ho detto all’inizio, il romanzo è un romanzo storico-politico-sociale, e, ho aggiunto, soprattutto psicologico. Ciò è vero; in due parole, vediamo perché.
Storico: anche se non c’è alcuna datazione di riferimento, è chiaramente percepibile che i fatti narrati si svolgono negli anni ’70. Ce lo dicono gli accenni al Movimento Studentesco del ’68, la fine della “Primavera di Praga”, il socialismo democratico di Salvador Allende in Cile, la tragica sciagura della littorina delle Ferrovie Calabro-Lucane a Vibo Marina.
Politico: e qui è molto chiaro. Tutto ruota attorno alle elezioni politiche e amministrative di quegli anni in cui il PCI ha attratto le migliori forze operaie e intellettuali del momento che lo hanno visto come forza politica di cambiamento, di trasformazione, di rinnovamento. Una forza capace di assumere il governo. Ricordo l’autista del pulmann, che mi portava a Laureana di Borrello, con “l’Unità” incollata sul cruscotto di guida che titolava grande grande, a tutta pagina, “AVANTI COL PCI”. E l’entusiasmo di giovani e studenti, di anziani e operai. Poi la storia ha fatto un’altra strada, che non spetta a me oggi commentare.
Sociale: perché, in un quadretto limitato e circoscritto, noi riusciamo a cogliere tutti gli aspetti di una piccola società, apparentemente stantìa e addormentata, che cerca di sconvolgere gli antichi equilibri di un passato caparbiamente perdurante. Una società umanamente visibile e palpabile nei suoi personaggi, maggiori e minori, che recitano perfettamente la parte a loro assegnata. Una società impersonata dalla famiglia Vartuli, tutta per intero, dai notabili del paese, dal politico forestiero, dai vecchi, dai pensionati, dai profittatori spregiudicati, dai poveri, dagli onesti. Una società in fermento, che si agita e si sveglia nel momento delle elezioni, nel momento della lotta.
Psicologico: questo è l’elemento più importante. Più importante perché l’autore lavora bene sui personaggi, su tutti i personaggi, rappresentandoli, più che nel loro aspetto esteriore (a lui poco importa del loro aspetto fisico) nel loro profondo intimo, nella loro personalità, nel loro modo di presentarsi. Ed è per questo che entra nel dentro e li caratterizza singolarmente, uno per uno, nella loro diversità umana immettendoli in una coralità di azione che diventa sintonia di movimenti. Certamente egli predilige molto di più il protagonista, intorno a cui ruota tutta la vicenda del romanzo, costruito appositamente per lui, e intorno a lui si muovono di concerto, pur se in modo differente e a volte quasi contrastante, tutti gli altri personaggi. Su di essi, l’autore, grava la penna, ne spoglia l’anima di ogni recondito pudore e ce li presenta così come essi sono, con pregi e difetti, con sentimenti e emozioni, con ansie e delusioni. Non è un lavoro facile e semplice: Lino Daniele ci è riuscito.
Lino Daniele, autore di questo romanzo, L’intellettuale disoccupato, è riuscito a fare un buon romanzo, dove al centro di tutta la narrazione ci mette la triste condizione dell’uomo disoccupato, del giovane disoccupato, di chi è in cerca di un lavoro, del primo lavoro. Qui si tratta di un lavoro diverso, di un lavoro intellettuale. Di chi ha studiato tanto, di chi ha coltivato tanti sogni, di chi ha avuto tante disillusioni, di chi alla fine, dopo inutili e angosciosi compromessi, alla fine viene sconfitto, sconfitto non vinto, perché nella sconfitta trova uno scatto di orgoglio che gli consente di recuperare il suo vero io, di riprendere tutta intera la sua dignità, di salvare la sua identità.
Io non voglio raccontare il contenuto, non lo faccio mai, lo scoprirete da voi. Vi dico, però, che è un buon libro. Un libro molto attuale, specialmente oggi, per la tematica che affronta: lavoro, disoccupazione. E soprattutto: lavoro giovanile, disoccupazione giovanile. Presentarlo questa sera in questo luogo, ci spinge a tante riflessioni, a tanti confronti con situazioni sociali, occupazionali, che non possiamo nasconderci, che emergono prepotenti in tutta la loro drammaticità dai fatti di cronaca che avvengono nel nostro paese e non solo. E che non possiamo ignorare o dimenticare. È ciò che il libro di Daniele ci propone, uno spaccato di vita sociale in tempi passati, una realtà sul limite dell’esplosione nei tempi presenti, un interrogativo difficile per i tempi futuri. Capire il presente, ricordare il passato, costruire il futuro: questi sono gli unici tre punti essenziali che dobbiamo ricercare nel libro di Lino Daniele. Un libro che necessariamente dobbiamo leggere.
E concludo dicendo: grazie Lino. Grazie per averci dato questa opportunità di andare un po’ indietro con gli anni, di considerare nella giusta dimensione i nostri anni, di rinnovare il vigore della lotta. Grazie ancora per l’impegno, per il lavoro che tu hai fatto.
E grazie a voi che pazientemente mi avete ascoltato.”
Vibo Valentia, sede della CGIL, mercoledì, 23 novembre 2011
Pasquale De Luca
L’INTELLETTUALE DISOCCUPATO di Lino Daniele
STORIA DI UNA FAMIGLIA SCONFITTA
“A volte è noioso, oltre che pericoloso, fare la stessa strada, ripercorrere lo stesso cammino. Ciò non sempre è vero, anzi può essere utile e fruttuoso. È utile e fruttuoso se quel cammino lo si fa con altro spirito, con altro proposito. Proviamo ad andare sulla stessa strada più volte in diverse ore di una stessa giornata, meglio poi se a distanza di giorni, e notiamo le differenze: la luce del sole, le ombre, alberi, piante, gli incontri, uomini, animali, tutte cose diverse viste in un’ottica e in un’angolazione diverse. Anche noi siamo diversi da quelli che eravamo prima: abbiamo maturato fisicamente, mentalmente e culturalmente qualcosa di nuovo che prima in noi non c’era. Osserviamo le cose, ci osserviamo, in un modo diverso, sotto altra luce, da altro punto di vista. E scopriamo sempre cose nuove, che prima, per svariati motivi, non avevano attirato la nostra attenzione: una lucertolina, il colore di un fiore, e tanto altro. La stessa cosa avviene quando ci mettiamo a leggere un libro. La prima volta, la seconda volta e così via: non è mai la stessa cosa. Si trova sempre qualcosa di nuovo.
Ho letto diverse volte il libro di Lino Daniele e ogni volta ho trovato qualcosa di nuovo e di particolare che prima non avevo visto, non avevo notato, mi era sfuggito. È chiaro, e questo credo sia un vizio comune un po’ di tutti i lettori, che la prima è una lettura veloce: si va al contenuto, al racconto in sé; la seconda è un po’ più lenta: si studiano i personaggi, si guarda la scrittura, si guarda la forma. Ma non finisce qui, ogni volta si trova qualcosa che stupisce e sorprende: ciò che è avvenuto a me leggendo e rileggendo L’intellettuale disoccupato, questo libro di cui ho già parlato in altra sede, in altro luogo, in un contesto diverso.
Allora avevo titolato la mia relazione Storia di una sconfitta, e ho iniziato dalla copertina, ciò che ha sorpreso non poco l’editore. La copertina che è visibilmente sintesi di ciò che si legge nel romanzo. Ripeto: nel romanzo, perché il libro, è bene sottolinearlo, è un romanzo. Un romanzo storico-politico-sociale, ma, soprattutto, è un romanzo psicologico per la capacità dell’autore di presentare i personaggi nella loro specificità interiore, nella loro specifica individualità, nella loro personalità. Un romanzo che si colloca in un determinato momento storico, che descrive una situazione politica contingente, che si inserisce in un ambiente sociale particolare, che scava nel pensiero intimo dei protagonisti e delle persone. Oggi a quel titolo ho aggiunto un nome, un sostantivo, e diventa: Storia di una famiglia sconfitta; famiglia, e sottolineo famiglia perché dalla seconda lettura, che poi non è seconda, ho capito, a differenza di prima, che non si tratta della sconfitta di una sola persona, il protagonista del romanzo, ma è la sconfitta di tutta una famiglia. La famiglia Vartuli.
La famiglia, che, secondo le più consolidate definizioni, è il nucleo primitivo, necessario ed essenziale di una società, nel romanzo del Daniele assume un ruolo importante intorno al quale ruota tutto l’intreccio narrativo in un continuo avvicendarsi di fatti, di azioni. In essa notiamo un vincolo di sacralità che trova il suo ancoraggio nella tradizione, nei costumi, nella cultura, nella civiltà dei nostri popoli meridionali derivante dalle comuni origini greco-orientali.
Andiamo con ordine. Aristotele, uno dei più grandi pensatori greci, se non il maggiore, tant’è vero che per lunghi secoli il suo pensiero non è stato messo in discussione e, quando sorgevano dei problemi nella discussione filosofica, ci si chiudeva nell’affermazione assolutistica “Ipse dixit”, riconoscendo esplicitamente il limite del proprio ragionare, con beneficio della Santa Chiesa di Roma, Aristotele affermava che l’uomo in sé è un animale socievole. In questo assunto sono racchiuse le specificità dell’uomo: vitalità, socialità. Cioè vita: l’uomo è un essere vivente, come tutti gli altri animali; l’uomo è socievole, come tutti gli altri animali. L’uomo vive, ma non vive solo o solo per sé: vive nella comunità, per la comunità. Vive in una società. E l’elemento fondante di una società, il muro mastro su cui si appoggiano tutti gli altri, è la famiglia. Quella famiglia che pure gli altri esseri viventi, gli animali, curano e difendono: basti guardare una cagna con i suoi cuccioli, o una gattina, o altri animali. Osserviamo la natura, la natura ci insegna e capiremo che alla fin fine il nostro pensiero non è molto distante da quello degli antichi.
Sacralità della famiglia. Sacralità da sacro = sacer dei latini: intoccabile, inviolabile. I quali latini, con sangue etrusco nelle vene, davano tanta importanza a questa sacralità che ne affidavano la difesa e la protezione a delle divinità particolari: i Lari e i Penati. Lari = lar(es) latino, col significato di focolare, cioè protettori del focolare, a sua volta derivato dall’etrusco lar = padre. Penati, invece, erano degli esseri spirituali, una specie di Angioletti cristiani che vegliavano sull’integrità della casa, sul benessere dei suoi abitanti. Sia i Lari, visti come inizio e fine, nascita e morte, sia i Penati, in quanto antenati che vegliano sui discendenti, sono la continuità del tempo e dello spirito che si trasmette dal passato al presente e poi al futuro. Entrambi avevano luogo nella parte più interna, più intima della domus. C’è da meravigliarsi? Niente affatto: nelle nostre case, a capo del letto, c’è sempre un’immagine sacra, o la foto di un nostro caro defunto, innanzi alla quale spesso si accendeva una luce come facevano gli antichi romani con i loro Lari e i loro Penati, a cui anche si dava del cibo.
La religione cristiana, che tanto ha mutuato dalle religioni antiche e dal pensiero pagano, ha mantenuto l’aspetto sacro della famiglia, portando ad esempio la Sacra Famiglia: Giuseppe, Maria e Gesù, nella quale è implicita la presenza diretta di Dio, che si è fatto uomo, in carne e ossa, in suo figlio Gesù.
Ma la famiglia con la sua forte carica di sacralità non è presente solo nella religione, essa è presente, ha dominato e condizionato anche la storia. Da quella antica, al medioevo, a quella moderna e contemporanea. Facciamo qualche esempio? La gens Iulia nella Roma imperiale, i Medici nella Firenze mercantile, papa Alessandro VI e i Borgia nella Roma papale, Napoleone nell’Europa della Rivoluzione. Per non dire di oggi, che la famiglia ha altra forza, altra dimensione. Oggi che la famiglia sembra sgretolarsi, sembra disfarsi in un vuoto umano, sociale, sentimentale che trascina in sé ogni valore fondante di una società civilmente costituita. Oggi in questa società in evoluzione, postindustriale, postmoderna, postsessantottina, si parla tanto spesso di famiglia, forse perché con il dissolvimento della famiglia si sente il bisogno della famiglia per tamponare, almeno in parte, il dissolvimento della società. E sì, perché qualunque società costituita ha le sue basi nella famiglia secondo questi passaggi obbligati: famiglia>tribù>popolo>nazione in un rapporto di unità e di integrazione. Dovrei approfondire il concetto, oggi non posso; l’ho solo proposto per far capire quanta importanza riveste il ruolo della famiglia nel romanzo di Lino Daniele: la famiglia Vartuli e le altre famiglie ad essa avversarie. L’importanza è tanta che per essa, per il bene di essa, cioè della famiglia, della propria famiglia, si rinuncia finanche alla propria identità, alla propria libertà.
Per alleggerire un poco il discorso, e per trovare altro appoggio al mio dire, andiamo in poesia: Tutti insieme.
Le serate più belle le ho passate piccolino,
quando eravamo in casa tutti insieme
e mio nonno, mio padre raccontavano
storie belle, e le loro esperienze:
pure fino alle undici
– si schiacciava due mandorle –
mezzanotte, ascoltavo a bocca aperta,
me ne stavo d’inverno
vicino allo scaldino di mia nonna
tanto saggia che mai aveva un bisticcio
con le sue nuore.
Ci piace la famiglia tutta unita:
uno ha un problema, sa dove appoggiarsi
per discuterlo e avere consigli,
i migliori argomenti risultano.
“Ci piace la famiglia tutta unita”, e ci piace questa poesia perché dà la giusta misura al romanzo del Daniele e al mio ragionare su di esso. La poesia è di Danilo Dolci, settentrionale di Sesana che è vissuto e ha operato a Partinico in Sicilia: è stato definito “Il Ghandi di Partinico” per la lotta non violenta e nel 1958 ha ottenuto il Premio Lenin per la Pace.
Nel romanzo la famiglia Vartuli è unita, “una pigna”, e con ciò diciamo l’impossibilità di penetrarla, di aprirla, di distruggerla. E chi ci prova viene sconfitto, umiliato e distrutto. Sconfitta, umiliazione e distruzione che alla fine ricadono non su una sola persona, Mommo, il protagonista del romanzo, ma su tutta la famiglia, che ritrova unità e compattezza, come “una pigna” appunto, nel momento della lotta. Una famiglia unita, vecchio stampo, una famiglia dei nostri paesi, una famiglia di non molto tempo fa, una famiglia patriarcale dove chi comanda è uno solo e gli altri obtorto collo, per convinzione o per costrizione, devono ubbidire: non hanno diritto di parola.
La famiglia Vartuli è composta da padre, madre, due figlie, un figlio, e in una posizione diplomaticamente dominante il vecchio nonno venuto dall’America a “pilotare” con la sua esperienza e la sua saggezza la lotta contro un potere vecchio e profondamente radicato nel paese. È una lotta senza esclusione di colpi, una lotta politica che vede una famiglia della media borghesia paesana in contrapposizione alla nobiltà ancora resistente alleata alla Chiesa locale e alle famiglie dell’alta borghesia. L’obiettivo è il vertice del potere economico: la banca. La banca, perché chi comanda la banca, (attenzione la banca non l’Ufficio postale, c’è differenza: la banca gestiva i soldi dei ricchi, la posta invece “conservava” i pochi sudati risparmi dei contadini, dei pensionati, la povera gente insomma che teneva ‘a libretta) comanda l’intero paese. Alla direzione della banca puntano tutti, ma questa era sotto stretto controllo della politica, che come sempre gioca accuratamente le sue carte e da una situazione scandalosamente perdente approda ad una vittoria schiacciante altrettanto e ancor di più scandalosa.
Tutto viene tentato, nulla viene tralasciato: la persuasione, la diplomazia, lo scontro, la solidarietà interessata, la buona parola (che in vernacolo sarebbe ‘allisciamentu), la minaccia, la raccomandazione, la corruzione. Machiavellicamente “il fine giustifica i mezzi”. Ci si espone senza tema e senza vergogna a ciò che oggi è detto familismo, un tempo nepotismo, forse perché oggi non ci sono più nipoti o forse per la moda di usare dei neologismi che servono a ingentilire, a nobilitare, una pratica turpe e ignominiosa, che ancora perdura. E chi cerca, come Mommo, di seguire un’altra strada, quella corretta, della legalità, del merito, viene isolato, combattuto, schiacciato. Lui stesso diventa, suo malgrado, uno strumento. Uno strumento nelle mani del padre per giungere ad un fine, ad uno scopo, l’ascesa sociale della famiglia, falsamente giustificata dal bisogno. L’individuo non conta, la personalità del figlio non conta, la sua dignità non conta, conta solo la FAMIGLIA e per essa si sacrifica tutto. Per essa servilmente ci si inchina al potere politico falso e bugiardo, che blandisce, che circuisce, che promette. E promette anche ciò che non può dare e che mai darà.
C’è questo nel libro di Daniele? C’è. Nel mettere in primo piano la famiglia Vartuli l’autore rappresenta così come è una famiglia media che tende alla scalata in un ambiente sociale fortemente condizionato dalle remore del passato. Egli non giudica, ma mette sotto luce un ambiente storico-sociale e ambientale così come è, e anche se intimamente ne soffre lascia al lettore ogni giudizio, ogni conclusione. Noi sappiamo da che parte sta, per chi parteggia, e neppure lo nasconde. Ma nella sua narrazione vuole, dico vuole, ergersi al di sopra delle parti, e affida ai personaggi, a ciascuno di essi, il ruolo che gli spetta.
Il libro, e dobbiamo dire che l’autore ha fatto un buon lavoro, è vivo e attuale. Non è noioso. È vivo e attuale anche perché, purtroppo, il familismo non è finito, non è morto. Basterebbe girare intorno il naso come Pinocchio per urtare in tanti casi piccoli o grandi. Il familismo è la cancrena della società, anche se non sembra. Esso, derivato dall’amore sviscerato della propria famiglia e naturalmente di se stessi, produce uno snodo vizioso e avvinghiante che affligge e infetta capillarmente tutta la società. È un fenomeno delittuoso che, in un crescendo, si può così schematizzare: raccomandazione>minaccia>ingiunzione per poi sfociare in corruzione>malaffare>delitto. È esagerato ciò che diciamo? Andiamo alla storia passata e recente e troveremo la risposta. La risposta è una sola: il familismo nella sua dinamica è fuori dalla legalità e, anche se non sembra, giunge all’illegalità, oggi come ieri. E l’autore del romanzo lo sa, anche per questo, e non solo per questo, il libro è vivo e attuale, perché pone in rilievo aspetti caratterizzanti una società. Aspetti che, pur circoscritti ad ambito locale e a un determinato momento della storia, assumono carattere universale per le molte problematiche che pone.
Per concludere, spero di non essere stato noioso, L’intellettuale disoccupato è un libro da leggere, un libro su cui riflettere e molto meditare.”
Tropea, Biblioteca Comunale “Albino Lorenzo”, giovedì, 16 febbraio 2012, ore 17.00
Pasquale De Luca