LA LEZIONE DEI TROGLODITI
Gli abitanti delle grotte di Zungri :antenati eleganti e tecnologici
di CARLO VULPIO
Per sentire i trogloditi ridere, e ridere di noi, che ancora li immaginiamo come l’archetipo dell’arretratezza e della miseria, bisogna andare a trovarli. Entrare nelle loro case — cioè nelle grotte in cui essi abitavano, perché questo vuoi dire troglodita —, visitare il loro villaggio, comprendere i motivi della scelta del luogo; seguire il tracciato dei canali di raccolta e scorrimento delle acque piovane e sorgive, osservare la collocazione e le dimensioni delle cisterne idriche, di frantoi e palmenti, misurare con gli occhi la capienza dei silos per il grano, apprezzare la funzionalità delle «carcare», le fornaci per la fabbricazione della calce, ammirare la disposizione delle strade, delle scale, dei pozzi e delle fontane, stupirsi per la cura dedicata a nicchie, archi e sfiati per il fumo. Solo chi avrà visto tutto questo — scavato nel tufo, ricavato dal tufo a colpi di rudimentali scalpelli e picconi a doppia punta — potrà capire perché hanno ragione gli studiosi che si ribellano all’uso del termine «troglodita» come sinonimo di uomo rozzo o quasi animale dell’Età della Pietra. Al contrario, dicono sempre questi studiosi, il trogloditismo, specialmente nei Paesi mediterranei, ha una storia antica e una foltissima dignità, poiché proprio questo continuo scavare e ricavare «case» sotterranee (gli ipogei) è la prova, l’esempio perfetto delle capacità di adattamento di una comunità alle caratteristiche del proprio territorio.
Non sono i primi «antenati», poiché le testimonianze più antiche di insediamenti trogloditi risalgono al Paleolitico, cioè a due milioni e mezzo di anni fa, mentre i «nostri» salirono su queste colline «soltanto» due o tremila anni prima di Cristo. E tuttavia, questi primi abitanti di Zungri non furono meno meritevoli di quegli «antenati», poiché quando sul Poro scoprirono la pietra tenera, il tufo, la scavarono in maniera così razionale da dar vita a un complesso di grotte rupestri che non sarebbe più scomparso e che anzi sarebbe cresciuto, fino a diventare, tre o quattromila anni più tardi—fra il XII e il XIV secolo dopo Cristo —, una vera e propria «città rupestre». Uno di quei meravigliosi insediamenti che avrebbero fatto sbocciare — nel 1970 — la grande intuizione dei medievista Cosimo Damiano Fonseca, che coniò il concetto di «civiltà rupestre».
ùLa città rupestre di Zungri, con le sue cinquanta abitazioni distribuite su – anzi,dentro.- tremila metri quadrati del costone roccioso che sovrasta il letto della fiumara Malopara, è forse l’esempio più.«organico» e meglio conservato di quella civiltà. Passare dalla odierna Zungri a quest’altra, dopo avere percorso a piedi un vialetto di campagna di un centinaio di metri, è come entrare in un’altra dimensione attraverso una porta girevole. Poiché è il cervello, non soltanto gli occhi, a rimanere abbagliato dalla strepitosa combinazione di colori e tonalità della Zungri «parallela». Dalla parte che scende a strapiombo sulla fiumara, il biancore della roccia tufacea risalente al Pliocene -cinque milioni di anni fa – si mescola al verde scuro di ulivi imponenti come querce. Dal lato opposto, quello affacciato sul Tirreno, il verde smeraldo del Poro fa a gara con tutte le gradazioni del blu che si possono contare dal mare che bagna la Costa degli Dei- Nicotera, Capo Vaticano, Tropea, Parghelia, Briatico – fino a quello del Golfo di Sant’Eufemia. È questa la Zungri magica, fatata, detta degli «Sbariatì», cioè gli sfollati, che nel Basso Medioevo vennero a rifugiarsi qui per scampare alle razzie saracene. Ed è sempre questa la Zungri dei monaci greci che, come ricorda Adele Coscarella, docente di Archeologia medioevale all’università di Cosenza, furono i protagonisti «dopo il IX secolo della diffusione dell’ortodossia in Calabria, in forma ascetica (eremitica e anacoretica), esicastica e cenobitica, quest’ultima legata alla comunità di una fondazione monastica, in cui l’igumeno costituiva la suprema autorità come l’abate lo sarà nei monasteri latini».
«Zungri è un insediamento della Calabria medioevale in cui si può cogliere tutta la complessità e la trogloditica raffinatezza del vivere in grotta—dice Cuteri —. Qui, nulla è stato lasciato al caso. Al contrario. La mano esperta dell’uomo ha saputo immaginare e realizzare ambienti, percorsi, servizi in cui non di rado è stata raggiunta la perfezione tecnica e funzionale». Zungri deriva dal greco e significa «aspra rupe», se si accredita l’origine cretese della parola, oppure «colle», se la si fa derivare dall’analogo termine peloponnesiaco, ma in ogni caso, Grecia, Grecia e ancora Grecia. La prima volta, con le colonie risalenti anche al VII secolo avanti Cristo. La seconda volta, nell’Alto Medioevo, con le migrazioni dei monaci ortodossi, a cominciare dal VI-VII secolo. La terza volta, nel IX secolo, con la conquista bizantina e la cosiddetta «seconda colonizzazione greca» — attuata attraverso la bonifica delle terre e l’insediamento di popoli provenienti da Est —, che riesce a decollare grazie anche alla strategica occupazione di Tropea, con cui la Calabria diventa l’avamposto di Bisanzio in Occidente. Nemmeno la ferocia dei Normanni, che fecero di tutto per «rilatinizzare» questi luoghi, riuscì a cancellarne la «grecita». Il bellissimo castello normanno-svevo di Vibo Valentia, per esempio, che domina l’altopiano del Poro e da cui si possono scorgere Stromboli e le Eolie, non solo non riesce a prevalere sulle mura di Hipponion, l’odierna Vibo — che sono il maggior esempio di architettura militare dell’intera Magna Grecia —, ma deve scontare la «condanna» di ospitare il Museo archeologico statale Capialbi, i cui reperti sono quasi rutti greci. E per giunta «vivi».
“Per come proteggevano i loro inquilini dal caldo e dal freddo, riducendo al minimo le escursioni termiche, questi insediamenti meritano il certificato energetico di classe A. E il sistema di conservazione del grano nei silos scavati nel tufo era semplice ma geniale.”
Inserto Corriere della Sera dell’11 dicembre 2011 – pag. 38-39-
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