19/12/11. Francesco Fiamingo, poeta e scrittore zungrese amico della nostra redazione, ci ha comunicato-tramite email- un’interessante notizia. Nei giorni scorsi, più precisamente domenica 11 dicembre, all’interno di un inserto culturale del Corriere della Sera è comparso un ampio e documentato servizio giornalistico sull’insediamento rupestre di Zungri, uno dei siti più belli del vibonese. L’articolo, che riportiamo qui di seguito corredato da alcune immagini, è firmato da Carlo Vulpio, uno dei giornalisti italiani più brillanti.Un grazie a Fiamingo. Buona lettura.
LA LEZIONE DEI TROGLODITI
Gli abitanti delle grotte di Zungri :antenati eleganti e tecnologici
di CARLO VULPIO
Per sentire i trogloditi ridere, e ridere di noi, che ancora li immaginiamo come l’archetipo dell’arretratezza e della miseria, bisogna andare a trovarli. Entrare nelle loro case — cioè nelle grotte in cui essi abitavano, perché questo vuoi dire troglodita —, visitare il loro villaggio, comprendere i motivi della scelta del luogo; seguire il tracciato dei canali di raccolta e scorrimento delle acque piovane e sorgive, osservare la collocazione e le dimensioni delle cisterne idriche, di frantoi e palmenti, misurare con gli occhi la capienza dei silos per il grano, apprezzare la funzionalità delle «carcare», le fornaci per la fabbricazione della calce, ammirare la disposizione delle strade, delle scale, dei pozzi e delle fontane, stupirsi per la cura dedicata a nicchie, archi e sfiati per il fumo. Solo chi avrà visto tutto questo — scavato nel tufo, ricavato dal tufo a colpi di rudimentali scalpelli e picconi a doppia punta — potrà capire perché hanno ragione gli studiosi che si ribellano all’uso del termine «troglodita» come sinonimo di uomo rozzo o quasi animale dell’Età della Pietra. Al contrario, dicono sempre questi studiosi, il trogloditismo, specialmente nei Paesi mediterranei, ha una storia antica e una foltissima dignità, poiché proprio questo continuo scavare e ricavare «case» sotterranee (gli ipogei) è la prova, l’esempio perfetto delle capacità di adattamento di una comunità alle caratteristiche del proprio territorio.
I «nostri» trogloditi — quelli che per primi si stabilirono a Zungri, sull’altopiano calabrese del Poro, a venti chilometri da Vibo Valentia sono quelli dell’Età del Bronzo antico.
Non sono i primi «antenati», poiché le testimonianze più antiche di insediamenti trogloditi risalgono al Paleolitico, cioè a due milioni e mezzo di anni fa, mentre i «nostri» salirono su queste colline «soltanto» due o tremila anni prima di Cristo. E tuttavia, questi primi abitanti di Zungri non furono meno meritevoli di quegli «antenati», poiché quando sul Poro scoprirono la pietra tenera, il tufo, la scavarono in maniera così razionale da dar vita a un complesso di grotte rupestri che non sarebbe più scomparso e che anzi sarebbe cresciuto, fino a diventare, tre o quattromila anni più tardi—fra il XII e il XIV secolo dopo Cristo —, una vera e propria «città rupestre». Uno di quei meravigliosi insediamenti che avrebbero fatto sbocciare — nel 1970 — la grande intuizione dei medievista Cosimo Damiano Fonseca, che coniò il concetto di «civiltà rupestre».
ùLa città rupestre di Zungri, con le sue cinquanta abitazioni distribuite su – anzi,dentro.- tremila metri quadrati del costone roccioso che sovrasta il letto della fiumara Malopara, è forse l’esempio più.«organico» e meglio conservato di quella civiltà. Passare dalla odierna Zungri a quest’altra, dopo avere percorso a piedi un vialetto di campagna di un centinaio di metri, è come entrare in un’altra dimensione attraverso una porta girevole. Poiché è il cervello, non soltanto gli occhi, a rimanere abbagliato dalla strepitosa combinazione di colori e tonalità della Zungri «parallela». Dalla parte che scende a strapiombo sulla fiumara, il biancore della roccia tufacea risalente al Pliocene -cinque milioni di anni fa – si mescola al verde scuro di ulivi imponenti come querce. Dal lato opposto, quello affacciato sul Tirreno, il verde smeraldo del Poro fa a gara con tutte le gradazioni del blu che si possono contare dal mare che bagna la Costa degli Dei- Nicotera, Capo Vaticano, Tropea, Parghelia, Briatico – fino a quello del Golfo di Sant’Eufemia. È questa la Zungri magica, fatata, detta degli «Sbariatì», cioè gli sfollati, che nel Basso Medioevo vennero a rifugiarsi qui per scampare alle razzie saracene. Ed è sempre questa la Zungri dei monaci greci che, come ricorda Adele Coscarella, docente di Archeologia medioevale all’università di Cosenza, furono i protagonisti «dopo il IX secolo della diffusione dell’ortodossia in Calabria, in forma ascetica (eremitica e anacoretica), esicastica e cenobitica, quest’ultima legata alla comunità di una fondazione monastica, in cui l’igumeno costituiva la suprema autorità come l’abate lo sarà nei monasteri latini».
La città rupestre di Zungri ha cominciato a far parlare di sé verso la metà degli anni Ottanta. Secondo quel primo studio, condotto dagli archeologi Maria Teresa lannelli, della Soprintendenza dei beni archeologici della Calabria, Paolo Peduto e Paul Arthur dell’università di Salerno, l’insediamento risale all’Alto Medioevo: in quel periodo, che coincide con la migrazione dei monaci ortodossi, il potere imperiale bizantino si impegna in una vera e propria campagna di colonizzazione dell’Italia meridionale attraverso la riorganizzazione dei villaggi rurali. Tra i quali, appunto, Zungri. Le cui grotte, apprezzate per la loro «eccezionale distribuzione topografica» già dopo i primi scavi degli anni novanta, ‘.verranno «censite, rilevate, descritte e studiate» soltanto nel 2007. Un lavoro meticoloso, svolto dal Catasto Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana. In pratica, dai volontari dei gruppi speleologici calabresi: per lo più giovani universitari, ma anche adulti, accomunati dalla passione per gli scavi e per le scoperte. Luigi Manna, il giovane ingegnere informatico che ha coordinato questo lavoro, dice una cosa molto semplice, molto vera e molto bella: «Il nostro lavoro sul campo è un servizio che offriamo alle nostre comunità, poiché la conoscenza del territorio è indispensabile per la sua valorizzazione». Gli studi su Zungri non possono certo dirsi completati, anzi sono ancora all’inizio. Su questo convengono tutti. E anche se vanno riconosciuti i risultati ottenuti — come, per esempio, la redazione della carta archeologica dell’altopiano del Poro’ con il «gis» (sistema informativo geografico) —, manca quello che viene chiamato «codice di pratica». Cioè, spiega Francesco Cuteri, docente di Archeologia medioevale all’università di Reggio Calabria: «Mancano i criteri sul come intervenire.
Ci vorrebbe un’idea geniale di qualche architetto che sappia immaginare un futuro per questo insediamento, ma senza interventi invasivi e senza cemento». Adesso, subito, urgono piccoli interventi di sterramento e di consolidamento perché, per quanto integrar ancora pochissimo conosciuta, Zungri non è più un luogo «segreto», ma accoglie anche 10-15 mila visitatori all’anno, che a loro volta diventano i migliori promotori di questa straordinaria città rupestre. In cui, per dire, le abitazioni mono o bicellulari, anche su due livelli, hanno sbalordito gli studiosi di paleoclimatologia. Oggi, per come proteggevano i loro inquilini dal caldo e dal freddo, riducendo al minimo le escursioni termiche e la differenza tra le temperature medie estive e invernali, queste grotte meriterebbero il certificato energetico di classe A. E i silos scavati nel tufo, in cui stivare a lungo il grano, conservandolo intatto? Semplice e geniale il sistema: il grano, «sigillato» tra le pareti rocciose, fermentava e così produceva anidride carbonica, che uccideva i parassiti.
«Zungri è un insediamento della Calabria medioevale in cui si può cogliere tutta la complessità e la trogloditica raffinatezza del vivere in grotta—dice Cuteri —. Qui, nulla è stato lasciato al caso. Al contrario. La mano esperta dell’uomo ha saputo immaginare e realizzare ambienti, percorsi, servizi in cui non di rado è stata raggiunta la perfezione tecnica e funzionale». Zungri deriva dal greco e significa «aspra rupe», se si accredita l’origine cretese della parola, oppure «colle», se la si fa derivare dall’analogo termine peloponnesiaco, ma in ogni caso, Grecia, Grecia e ancora Grecia. La prima volta, con le colonie risalenti anche al VII secolo avanti Cristo. La seconda volta, nell’Alto Medioevo, con le migrazioni dei monaci ortodossi, a cominciare dal VI-VII secolo. La terza volta, nel IX secolo, con la conquista bizantina e la cosiddetta «seconda colonizzazione greca» — attuata attraverso la bonifica delle terre e l’insediamento di popoli provenienti da Est —, che riesce a decollare grazie anche alla strategica occupazione di Tropea, con cui la Calabria diventa l’avamposto di Bisanzio in Occidente. Nemmeno la ferocia dei Normanni, che fecero di tutto per «rilatinizzare» questi luoghi, riuscì a cancellarne la «grecita». Il bellissimo castello normanno-svevo di Vibo Valentia, per esempio, che domina l’altopiano del Poro e da cui si possono scorgere Stromboli e le Eolie, non solo non riesce a prevalere sulle mura di Hipponion, l’odierna Vibo — che sono il maggior esempio di architettura militare dell’intera Magna Grecia —, ma deve scontare la «condanna» di ospitare il Museo archeologico statale Capialbi, i cui reperti sono quasi rutti greci. E per giunta «vivi».
«Questo museo è l’unico in tutto il Sud in cui anche i ciechi possono toccare e “vedere” i reperti», dice con una punta di giustificato orgoglio la direttrice Maria Teresa lannelli. Il non vedente, seduto davanti a un tavolino contenente la teca che custodisce l’oggetto, con le mani legge la scheda in alfabeto Braille e poi, grazie a una ventosa che solleva il vetro della teca, può toccare, prendere e rigirare tra le mani il reperto che sta «vedendo». Fantastico. A due passi dai «raffinati trogloditi» di Zungri.
“Per come proteggevano i loro inquilini dal caldo e dal freddo, riducendo al minimo le escursioni termiche, questi insediamenti meritano il certificato energetico di classe A. E il sistema di conservazione del grano nei silos scavati nel tufo era semplice ma geniale.”
Inserto Corriere della Sera dell’11 dicembre 2011 – pag. 38-39-