RELAZIONE SU: “LA TERRA DI FILOMENA” – ROMANZO DEL PROF. DE LUCA PASQUALE – BRATTIRÒ EX SCUOLA MEDIA – 6.11.2011 – ORE 18.00 Il romanzo, che mi accingo a presentare, già è stato illustrato in altre sedi a Tropea: nel mese di luglio, presso la Biblioteca Comunale; presso il teatro del porto, in occasione del “Premio nazionale di narrativa”; a settembre a Parghelia.
Esso s’intitola “La terra di Filomena”, di cui è autore il prof. De Luca Pasquale, molto conosciuto nella nostra zona e altrove, in quanto promotore del Premio Internazionale di Poesia “Tropea: Onde Mediterranee”, giunto ormai alla nona edizione, e lui stesso “poeta dell’anima e della natura” o “poeta contadino” (come è stato definito); ne è editore il dott. Meligrana Giuseppe, anche lui noto come giovane e audace imprenditore nel nostro ambiente e oltre.
Prima d’iniziare la presentazione del suddetto libro, è doveroso soffermarmi brevemente sullo scrittore e sulla sua attività letteraria.
L’amico Pasquale De Luca nasce e vive a Tropea, si diploma presso il Liceo Classico e poi si laurea in Lettere Moderne all’Università Statale di Messina. Insegna materie letterarie in diverse scuole medie, ultima quella di Rombiolo, fino al pensionamento, avvenuto nel 2007. Collabora con riviste e giornali, anche a livello nazionale, dove pubblica alcuni racconti. Sue poesie si trovano in alcune antologie e in sue raccolte personali, pubblicate: “Tristi le ore – poesie” – Carello Editore, Catanzaro 1994; “Fantasie poetiche – un pensiero d’amore X amore – poesie” – Meligrana, Tropea 2007; “Io non capisco” – Meligrana, Tropea 2007. Attualmente dirige la collana π (p greca) della Meligrana Editore di Tropea. Viene sempre apprezzato dalla critica di livello e dai lettori. La morte del padre in un tragico incidente ferroviario è un evento traumatico, che segna profondamente la vita del nostro autore. Questa perdita è evocata nel libro, anche se trasfigurata, sia nell’episodio del grave incidente ferroviario capitato al padre di Filomena, che riesce a salvarsi, in quella circostanza, ma che perde la vita, in seguito, a causa dei bombardamenti americani su “Terra di Sopra”, la notte del 5 agosto 1943 (secondo il testo di Pasquale; la sera di quel giorno, secondo il racconto del testimone superstite, Onofrio Rizzo) e sia nelle pagine relative alla morte di Ciccillo, l’amato marito della donna, sempre per un drammatico incidente ferroviario. “Il treno è passato sempre nella vita di Filomena”– scrive il nostro scrittore.
“La terra di Filomena” è il primo romanzo di Pasquale De Luca.
Punto 1°. Per quanto riguarda l’aspetto letterario, l’opera si può inserire nella scia del Neorealismo, o meglio, del post- Neorealismo, per così dire, e Pasquale può essere considerato una specie di suo successore.
Punto 2°. Nello stesso tempo, essa appartiene al sottogenere del “romanzo storico”, perché ha un’ambientazione storica, anche se la storia, a volte, volutamente, viene deformata dalla inesauribile fantasia del narratore, così come viene trasformata la vita politica, tanto da sembrare, entrambe, non del tutto vere, ma verisimili. Per esempio, le elezioni nazionali per il referendum sulla scelta della forma dello Stato, coincidono con quelle amministrative locali, a Tropea, per l’elezione del sindaco, mentre nella realtà sono avvenute in un periodo diverso, posteriore.
Punto 3°. Dal punto di vista storico-socio-politico ed economico, osservo come nel libro la “microstoria”, cioè la “storia locale” di Tropea e del suo hinterland, viene collocata sapientemente nel più ampio contesto della “macrostoria”, cioè della “grande storia”, nazionale e internazionale, con un’ambientazione ben definita: nel periodo del secondo conflitto mondiale, delle dittature (fascismo e nazismo) e del problematico secondo dopoguerra, nell’età della ricostruzione.
Nel romanzo si racconta come questi bui e difficili anni sono vissuti in una piccola città di provincia del Sud, come Tropea, e nel suo comprensorio. Sono anni di trasformazioni epocali: politiche, economiche e sociali. La storia narrata è una storia di duro lavoro, di sacrificio, di lotta per l’esistenza, di dolore, ma anche di grande coraggio, di speranza, d’amicizia e d’amore. È una storia umana, personale, ma pure “corale”, che vede la partecipazione alla vita cittadina di una vasta gamma di personaggi, sull’esempio dei grandi romanzi veristi di G. Verga: “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”. La dimensione corale è data anche dal coinvolgimento nella vita agreste degli animali e delle piante, che vivono a contatto con la terra. Il libro è avvincente e coinvolgente, tanto da spingere il lettore a leggerlo nel più breve tempo possibile.
Punto 4°. Per quel che concerne il sistema dei personaggi, in esso sono presenti figure femminili e maschili. Come dice il titolo dell’opera, protagoniste femminili assolute sono: la “Terra di Sopra” e Filomena.
La ragazza ama il suo campo come una creatura e lo cura con un lavoro pesante, senza tregua, zappando, tracciando solchi, piantando, annaffiando, togliendo erbacce e raccogliendo i frutti, che la terra offre generosa, dopo essere stata oltraggiata dalla violenza bellica. In questa continua fatica viene aiutata dal suo innamorato Ciccillo, da “‘a muta ‘a Lena” e da altri vicini.
“Il mito” della terra e del tenace lavoro danno un alone di epopea eroica alla storia e mi fanno ricordare un’altra terra famosa nella letteratura e nel cinema americani contemporanei, “Tara” di Rossella “O Hara” nel famoso libro “Via col vento” di Margareth Mitchelle, e nell’ancor più celebre film, da esso tratto. Filomena stessa richiama alla mia mente Rossella. Infatti, le due donne, anche se profondamente diverse, in realtà sono eguali nell’attaccamento fortissimo alla propria terra e per essa sono pronte a qualsiasi cosa: combattere, lavorare da mattina a sera, soffrire, patire la fame, e… persino, uccidere. Filomena, in un impeto d’ira, mette alle strette lo zio Gioacchino, tagliando di netto con la scure la pergola “di ‘i minni ‘i vacca” (dalla caratteristica e saporita uva bianca), piantata da suo padre e rubata dallo zio, e come “’na vipera” si scaglia contro il portone della casa, dove lo zio è rinchiuso con la moglie per paura della nipote, intenzionata ad ucciderli. Quindi, la ragazza, insieme a Ciccillo, affronta don Rubino, il prete usuraio, “figlio del demonio”, che “succhia il sangue” alla gente, come riporta lo scrittore, spinta dal desiderio di uccidere pure lui, in un tragicomico scontro. Ma, i cattivi propositi di Filomena, in entrambi i casi, vengono fermati dal portentoso intervento della Madonna di Romania. Così, vedo come la dolce e sensibile ragazza, secondo le circostanze, sa mostrarsi anche aggressiva e determinata, tanto da essere temuta e rispettata nella zona, specie dopo l’episodio di don Rubino.
Filomena è una bella, minuta, semplice ragazza di campagna, una contadina povera, che “s’ammazza di fatica” tutto il giorno, provata nel corpo e nell’anima dai bombardamenti sulla sua terra, sulla sua casa, che feriscono le sue gambe e la sua anima. Ma ella trae forza e linfa vitale dalla terra, perché si sente in simbiosi con essa; “Filomena è la terra” – scrive, ancora, Pasquale – ed è la terra stessa che le infonde coraggio, che la sprona a lottare per la rinascita del suo campo, dopo l’esperienza tragica della guerra. Battagliera nata, anche se alla fine riesce a far rivivere la sua campagna, sarà sconfitta dal destino, a causa della morte improvvisa e prematura del suo amato marito Ciccillo, per un fatale incidente ferroviario, come già riportato.
Ora, mi voglio soffermare su come l’autore vede “Terra di Sopra” nel suo primo romanzo.
Il mio amico rappresenta questo campo nel pulsare della sua vita campestre, nel ciclico avvicendarsi delle stagioni: nell’esplosione della bellezza della multicolore primavera mediterranea, nella ricchezza della frutta estiva, nei raccolti autunnali, abbondanti di ortaggi e verdure, e, infine, nel riposo invernale, dopo i raccolti di Natale, di: “broccoli, cavolfiori, cavuli ‘i truzzu, e cavuli ‘i verza”. Di questa terra Pasquale riporta: voci, colori, rumori. Sullo sfondo la visione dell’azzurro mare di Tropea completa lo stupendo affresco. Egli si sofferma a cogliere altri scorci della “Costa degli Dei”, come Parghelia e “’a Punti ‘i Zambroni”. Parte integrante della campagna sono gli animali, molto amati da Filomena: l’agnellino “Carrabba”, il maialino nero “Gru-Gru”, la mucca “Brunina”; quindi, i vitelli, i galli, le galline, gli uccelli, ecc. ecc. ecc. Infine, “Terra di Sopra” partecipa delle sensazioni e dei sentimenti di chi vive in essa, in una specie di “panteismo” classico (dal greco, significa che la natura è animata, ha un’anima nascosta). Pasquale, fine e sensibile conoscitore dell’animo umano, ne modula tutte le sfumature.
Tra le altre figure femminili, prima tra tutte, emerge la Madonna di Romania, protettrice di Tropea, col suo apparire in un alone di luce, come un “deus ex machina” (“il marchingegno” usato dal poeta greco Euripide nelle sue tragedie, che scende dall’alto) o facendosi sentire con la sola voce, per risolvere nel migliore dei modi alcuni casi complessi, che sembrano non avere sbocchi. La Madonna è presente, già, all’inizio del racconto, quando vengono sganciate su “Terra di Sopra” , nelle zone “Gurnea” e “Michelizia”, le tredici bombe americane, che colpiscono l’albero dell’arancio, su cui si trovano il padre di Filomena e il nipote Micareu, il cugino di Filomena, che perdono la vita la tragica sera del 5 agosto del 1943, come già ricordato. È allora che il buio della notte viene illuminato da una donna piena di luce, appunto la Madonna, che prende per mano Filomena, ferita dalle schegge delle bombe alle gambe, per portarla in salvo e che, dopo un po’ di cammino insieme, scompare.
Il manto della Vergine protegge sempre Tropea nelle varie calamità, verificatesi nei secoli in Calabria: nelle epidemie di peste, nei terremoti e nelle guerre, Tropea non ha avuto morti in città.
È la voce della Madonna di Romania a far desistere Filomena dal colpire con l’accetta lo zio Gioacchino con la moglie e a tentare di uccidere don Rubino. Ancora, è la luce particolare dell’icona della Madonna e il merito del vescovo di Tropea, Sisto Emiliano Capua di Nola, se Filomena riesce a perdonare il pilota americano dell’Oregon, che ha lanciato sulla sua terra le bombe, assassine di suo padre, di suo cugino e che hanno ferito le sue gambe. Infine, è sempre la Madonna, che salva la terra, la casa e Filomena, uscita viva dal fuoco per miracolo, quando scoppia il pauroso incendio, dietro la “casea” della contadina Rosaria, verso la fine del romanzo.
Un’altra figura femminile di primo piano è quella della sindachessa di Tropea, Lydia Maria Stefania del Sannio duchessa di Montecelato d’Irpinia, che, all’inizio, un po’ sfocata e vaga nella rappresentazione, “una donna con lo scialle rosso sulla testa e la sciarpa bianca al collo” – scrive il nostro amico – via via, va acquistando maggiore rilievo, tanto da sembrare scolpita a “tutto tondo”.
Figlia primogenita del duca Corrado, donna intelligente, originale e anticonformista, colta e plurilaureata, è aperta al nuovo, di idee repubblicane e di fede mazziniana. Frequenta le migliori Accademie culturali d’Italia, politicamente si mostra favorevole al popolo, alla democrazia, alla libertà. Riesce a vincere l’avversario politico, nella figura del conte Riccardo del Ponte, conservatore, favorevole alla nobiltà, alla monarchia e alla guerra, nelle elezioni amministrative per la scelta del sindaco a Tropea, di cui ho già detto. Queste elezioni sono state le prime a suffragio universale, con la partecipazione delle donne al voto. Dopo la vittoria, dovuta al programma d’innovazione e al suo memorabile discorso nel dibattito politico finale, la duchessa diventa sindaco di Tropea, primo sindaco donna e uno dei più giovani d’Italia, sempre secondo lo scrittore.
La sindachessa rimane in carica fino al 1960, operando molto nel sociale e cercando di garantire a tutti: lavoro, abitazione e istruzione. Potenzia la scuola elementare, apre asili e istituisce la Scuola Media – Ginnasio, come all’epoca viene chiamata. Riesce a guadagnarsi l’affetto del popolo, che, alla morte, la piange sinceramente, accorrendo numeroso al suo funerale. Con la sindachessa di Tropea il nostro Pasquale ci regala una figura veramente esistita, attendibile storicamente, anche se trasfigurata dalla sua fantasia.
Un altro personaggio femminile, realmente esistito, è “’a muta ‘a Lena”, l’amica di Filomena, che viene ben caratterizzata. Donna giovane, giunonica, alta, che non ha l’uso della parola, senza il marito e con un figlio, è una lavandaia, che aiuta sempre Filomena nei lavori campestri, come già affermato.
Le due amiche si recano spesso nei paesi vicini a Tropea, a piedi, per viottoli, a fare “’u cangiu”, ossia il “baratto” delle saporite verdure della marina con i prodotti dell’entroterra, come: olio, fagioli, ceci, salumi, formaggi, ecc. ecc. Insieme ai “Carminoti”, Filomena e “’a muta ‘a Lena” vanno a piedi, attraverso scorciatoie, per la festa di “Santu Cocimu”, in settembre, a Brattirò, per onorare e ringraziare il Santo per aver guarito Filomena dalle ferite alle gambe.
Nel romanzo ci sono altre figure femminili ben definite, ma che citerò brevemente per non allungare eccessivamente il discorso e per non annoiarvi. Tra queste: “Micuccia”, la fornaia, che si fa scrivere una lettera, in dialetto, dall’amica Filomena per “Cicciu”, il fidanzato segreto, militare a Modena; la signora Cutumbula, moglie del farmacista, ossessionata dalla magrezza, che presta il suo abito da sposa a Filomena per le nozze con Ciccillo; la signorina Adelina, “’a mammina”, cioè l’ostetrica, alta, bionda, bella e proveniente dal Nord, che aiuta Filomena a partorire la sua prima bambina, Maria Lucia.
Accanto a questo universo femminile, formato, a mio avviso, da figure molto incisive e di grande spessore, che rimarranno impresse nella nostra memoria, c’è una coralità di personaggi maschili, che emergono via via dalla narrazione e che, ugualmente, difficilmente si potranno dimenticare. Il più importante, senza dubbio, è Ciccillo, il coprotagonista, l’innamorato timido e riservato, poi marito devoto e premuroso di Filomena. Ciccillo è un bravo ragazzo, semplice, sincero, gran lavoratore, che dà sempre una mano alla sua ragazza nei lavori agricoli, come altrove detto. L’amore tra i due nasce piano piano, consolidandosi sempre più. Il nostro autore ce lo descrive in modo magistrale, dimostrandosi, ancora una volta, conoscitore dei sentimenti umani. Egli, dell’amore tra i due, svela tutte le sfumature, seguendone l’evoluzione dalla nascita, in sordina, fino alla fine prematura e improvvisa di lui, a causa di un grave incidente ferroviario, come già riferito. Questo sentimento si manifesta, prima, con pudore, reticenza, amicizia, stima e ammirazione l’uno per l’altra, aiuto incondizionato di lui nel campo di lei e dopo, con serate passate insieme, accanto al fuoco nella casa di Filomena a parlare, fino… alla scoperta dell’amore fisico per entrambi. Poi, questo amore, santificato dal matrimonio, diventando fusione completa di anima e corpo, viene sempre più cementato dalla condivisione di una scelta di vita, basata sulla concezione del lavoro come dovere primario, specie nel periodo di una guerra disastrosa e di un ancora più difficile dopoguerra, negli anni della ricostruzione, come altrove riportato.
Anche dopo il matrimonio continuano le particolari attenzioni del marito verso la moglie. Ciccillo offre a Filomena sempre un dono: un bocciolo di rosa, un frutto o una bambola. La descrizione iniziale di questo legame, fatto d’intense emozioni e di profonde sensazioni, ricorda l’atmosfera malinconica di un altro, delicato e pudico sentimento finito male, quello di compare Alfio e Mena, nel già citato romanzo di Verga: “I Malavoglia”.
Personaggio fondamentale è anche il padre di Filomena, “’u zzu Pascali”, “’u Tata”, il quale, anche se deceduto, è sempre vivo nel ricordo della figlia, a lui più somigliante e, per questo, “sua pupilla”, che egli vuole “istruita ed educata” (infatti, vince il premio dell’impero per la lingua e il diploma del fascio per il miglior tema sulla storia romana), di cui le altre due sorelle sono invidiose, che il genitore porta sempre con sé al mercato la domenica e la sera ascolta le canzoni, cantate da lei, seduta sulle sue gambe.
Una macchietta umoristica appare la figura di don Rubino, che si arricchisce con denaro sporco, sottratto alla gente bisognosa, la quale ricorre a lui per prestiti, che poi non riesce a pagare a causa degli alti tassi d’interessi, pretesi dal religioso. Don Rubino coltiva aspirazioni puramente materiali, accumulare tanti beni per i suoi familiari: fratelli, sorelle, nipoti. La fantasia di Pasquale De Luca con don Rubino ha creato una figura veramente “azzeccata”.
Tra gli altri personaggi maschili, non riesco a dimenticare il colonnello dei carabinieri in pensione, Leone Tagliaferro, uomo intransigente e rispettoso delle regole, che combatte la criminalità e non ha paura di nessuno. Con una vita infelice, in quanto vedovo di una giovane moglie e con quattro figli, cattura il brigante Peppe Mindolo, che, in realtà, è un povero e sventurato ragazzo, orfano e senza lavoro fisso, bistrattato dalla vita. Entrambi sono uomini “d’anuri”, che muoiono suicidi
Ancora, non posso tralasciare di menzionare un’altra grande figura, il sacerdote don Carmine Ortese (veramente il suo cognome è Cortese, ma il nostro narratore preferisce scriverlo senza la “C” per puro vezzo letterario). Questo degno sacerdote non è nuovo nel panorama narrativo letterario locale, basti pensare allo scrupoloso lavoro su di lui di un altro mio caro amico, il prof. Pugliese Antonio, preside in pensione, che ha già pubblicato, e presentato, il libro: “Diari di guerra” dell’amato uomo di chiesa. Don Carmine è il prete soldato, che combatte al fronte e che viene internato in un campo di concentramento tedesco. Egli, più di ogni altro, ha patito il dramma della guerra, di cui nella sua opera denuncia la crudeltà e la sofferenza, sopportate dai combattenti. Nelle sue omelie predica sempre: la concordia, la tolleranza, il perdono e l’amore, per cui è amato dai fedeli, che lo ascoltano con attenzione e con grande affetto.
Tra gli altri, diversi e pur sempre interessanti personaggi maschili, nell’ambito della narrazione, mi soffermerò fugacemente su qualcuno, sempre per il tempo a disposizione e per non stancare la vostra attenzione. Citerò: don Bernardo Donelli, il ricco mercante emiliano, stabilitosi con la famiglia a Tropea e che lavora con le “bagnarote” nelle campagne della cittadina, tra le quali quella di Filomena; “mastru Pascali Cannali”, il miglior muratore della zona, bravissimo ad aggiustare i buchi nelle tegole delle case, che ha un particolare segreto per assicurarsi sempre il lavoro; Angelo Lanza, “’u ciucciaru”, che ha perso una gamba, combattendo in Grecia, e che racconta a tutti la sua triste storia, anche a Filomena, la quale rievoca pure la sua; don Fefè, “’u giornalista” amico e portavoce della sindachessa; Matteo “’u vandiaturi d’u pisci” e di “‘i ‘gnuri”, che parteggia per l’avversario politico della donna; “’u zzu Virgoli”, “’u smatraturi” dei maiali, che opera il maialino nero di Filomena nelle parti intime e, infine, il furbo Peppi La Vina, il ladro dell’acqua nella terra della donna, che anima una “gustosa”, simpatica scena.
In ultima analisi, sono onnipresenti alle cerimonie e alle varie manifestazioni le autorità, religiose, civili e militari: i vescovi, i prelati, i preti, i canonici, il podestà, i carabinieri, il capitano dei soldati, Negroponte e il già colonnello dei carabinieri, Tagliaferro, il federale Manuele, gli ultimi dei quali sempre pronti a risolvere casi controversi.
Punto 5°. Passando all’aspetto folkloristico, noto nel libro alcune pagine, dedicate alla descrizione di feste religiose o di eventi particolari, dove spesso il sacro si mescola al profano, e la fede, pur sentita e sincera, si unisce a credenze popolari, ai limiti della superstizione.
Tra le feste religiose, la più sentita è quella della Madonna di Romania, che presenta un caratteristico rituale e una colorita scenografia, consolidati negli anni; poi, quella della Madonna del Carmine e quella della Vergine di Portosalvo, considerate “le tre sorelle” dai fedeli.
Un evento folkloristico viene offerto dal matrimonio di Filomena e Ciccillo, con le campane che suonano a festa, il tenore che canta con voce robusta, il colonnello Tagliaferro, che accompagna la sposa all’altare, perché orfana di padre, e che, dopo, spara con la pistola, in alto, in onore degli sposi. Quindi, la scena si sposta a “Terra di Sopra” per il banchetto sull’aia, dove due tavole apparecchiate aspettano gli invitati. La festa è semplice e povera, ma allegra. Finito il pranzo nuziale, tutti ballano e cantano felici, al suono di una fisarmonica, fino al sorgere della luna.
Ancora il folklore è presente nell’evento che vede il Duce passare in treno da Tropea (avvenimento storico), dove si radunano tutti in camicia nera, il podestà avanti, seguito dalla banda di “mastru Nuzzu” (caratteristico personaggio del periodo), da Manuele, il federale, dagli scolari vestiti da Balilla e da Filomena, vestita da “figlia della lupa”. Sempre bene in vista è la simbologia fascista: libro, moschetto, gagliardetto e fez, mentre nell’aria echeggiano i versi di : “Giovinezza, giovinezza”, la canzone emblema del fascismo.
Inoltre, è folkloristica la scena della raccolta delle patate novelle nella campagna di Filomena da parte delle donne di Bagnara, “rotte al lavoro e alla fatica”, che sfoggiano caratteristici costumi, al comando di uno sbraitante commerciante Donelli, su cui ho già detto.
Infine, è folkloristica la descrizione della fiera dell’Annunziata, ripresa dopo quattro anni d’interruzione per la guerra, piena di gente e di animali.
Punto 6°. Nel romanzo non manca neppure l’aspetto umoristico, che traspare da diversi episodi, tra cui: quello degli zii, tappati in casa per non essere vittime della nipote adirata; quello di don Rubino che, allo stesso modo, ha paura di un’insolita, molto determinata Filomena; quello di Peppi La Vina, dove pure la seria e riservata ragazza scoppia a ridere e, infine, quello delle “Orbareiji”, le quattro cattive sorelle, con cui Filomena e “’a muta a Lena” si azzuffano e si prendono per i capelli, per aver rubato, le quattro donne, i salumi, ricavati dal maialino nero della protagonista del romanzo.
Punto 7°. Riguardo all’aspetto formale, prima di tutto, nel libro mi sembra interessante l’espediente d’inserire, all’inizio e alla fine del racconto, la figura della madre dello scrittore: è lei che ricorda la storia narrata, sempre in forma romanzata, in una specie di “flashback”, cioè un ritorno indietro, nel passato.
Dal punto di vista prettamente linguistico, fermo restando che si tratta di un buon lavoro, nell’opera colpisce l’ottima padronanza della lingua italiana da parte dello scrittore, accanto all’altrettanto ottima conoscenza del dialetto tropeano. Pertanto, il mio amico Pasquale, vicino a parole e frasi o periodi in italiano, spesso colloca accanto: motti, proverbi e modi di dire, sempre in gergo dialettale. Mirabile risulta l’uso di queste espressioni linguistiche.
Per quel che concerne la struttura espressiva, a mio parere, il romanzo è post-moderno ed evidenzia uno stile personale, proprio dello scrittore. In particolare, mi colpisce l’uso di un discorso, puntellato da diverse frasi brevi, concise, martellanti, a volte spezzate, con puntini sospensivi, punti esclamativi e interrogativi, specie nei dialoghi, nelle scene concitate e drammatiche (come, ancora una volta, quella degli zii, quella di don Rubino o, infine, quelle delle morti del padre e di Ciccillo). Le suddette frasi concludono gli episodi citati e, nel contempo, esprimono l’emozione, che gli eventi stessi suscitano nello scrittore, inducendolo a una profonda meditazione. In ciò, Pasquale De Luca si rivela veramente scrittore contemporaneo. Inoltre, constato come nel libro viene adoperata la tecnica espressiva del “discorso indiretto libero”, per cui i personaggi parlano così come pensano. Questa tecnica ha grandi modelli in letteratura, quali Flaubert e G. Verga, nei loro rispettivi, celeberrimi, romanzi: “Madame Bovary” del primo; “I Malavoglia” e “Mastro don Gesualdo” del secondo. Inoltre, nel testo di Pasquale sono presenti diverse frasi nominali, cioè senza verbo.
Ancora, dimostra come egli provenga dal mondo della poesia, l’uso di figure retoriche, proprie del testo poetico, quali: una specie di “anafora”, cioè la ripetizione di una o più parole o d’intere frasi, a breve o brevissima distanza; il “climax”, di tipo “ascendente”, per esprimere un crescendo di sensazioni o di fenomeni; e “l’onomatopea”, molto usata da Giovanni Pascoli, specie nella sua raccolta “Myricae”, che riproduce le voci della natura o il linguaggio degli animali o il rumore di determinati oggetti. Così, la narrazione riporta: il suono delle campane del duomo di Tropea: Dooonnn! Dooonnn!; il grugnito del maialino nero “Gru-Gru”: Gruuummm! Gruuummm!; il muggito della mucca Brunina: Muuummm! Muuummm!; il rumore del treno: Puuummm! Puuummm!
Punto 8°. Concludo, ora il mio intervento, invitando tutti voi, qui presenti, a leggere il primo romanzo del mio caro amico, prof. De Luca Pasquale, perché, certamente, non rimarrete delusi. Mi rivolgo, specialmente, ai giovani, con l’augurio che si abituino alla buona lettura, per arricchirsi, interiormente, migliorare e scoprire quei valori basilari, che, oggi, nell’era della globalizzazione e dell’avanzatissima tecnologia, sembrano decaduti. Si tratta dei valori veri, non di quelli falsi, che la società consumistica ed omologata propone ogni giorno ai ragazzi. I valori, cui mi riferisco, sono quelli legati alla scoperta della campagna, delle proprie radici, degli affetti semplici e sinceri, che durano nella vita; dei sentimenti più profondi, come: l’amicizia, la solidarietà, il senso di appartenenza, la tolleranza, l’amore e il perdono.
Ringrazio tutti di avermi ascoltata con attenzione e di essere, stasera, qui per omaggiare il nostro scrittore, l’amico Pasquale De Luca.
Buona lettura, a tutti!
Elisabetta Rombolà (Bettina)
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